#IoRestoaCasa e leggo un classico: ‘Il testamento’ di Jean Meslier presentato da Adriano Prosperi
Adriano Prosperi
Un ‘Testamento’ come quello vergato con la penna d’oca alla metà del Settecento da Jean Meslier poteva nascere solo su suolo francese. Mille pagine che hanno l’andamento dell’omelia anche se tutto sono fuorché un testo devoto, in cui il curato di Etrépigny – alimentatosi di una cultura dominata dal pensiero scettico e libertino, dai Saggi di Montaigne e dagli scritti di Naudé, di Descartes e di Fénelon – teorizza che la religione sia un complotto di potenti per sfruttare e tenere asserviti i popoli, invitando al rifiuto della proprietà privata. Niente del genere sarebbe mai potuto apparire nel nostro paese.
Il Testamento di Jean Meslier è un testo «monstre». Il filosofo Michel Onfray l’ha definito proprio così: «Un mostro di più di mille pagine, scritte a mano con la penna d’oca, alla luce del fuoco del caminetto e delle candele di un presbiterio delle Ardenne». Fece capolino in pubblico nella Francia di metà Settecento e fu subito oggetto di operazioni di taglio e cucito, per conoscere in prosieguo di tempi un destino quasi sempre ostile: condannato a essere misconosciuto e tradito non meno dai suoi entusiastici scopritori che da chi lo rifiutava. Fu l’opera elaborata nel corso degli anni a partire dal 1722 di un curato delle Ardenne figlio di un mercante agiato, Jean Meslier (Mazerny, Ardennes 1664-Etrépigny 1729), che dopo averlo composto si era assicurato della sua salvaguardia post mortem lasciandone in deposito tre copie manoscritte ad altrettanti destinatari – un lascito testamentario, volto a evitarne la distruzione da parte delle autorità politiche e religiose.
Tre copie che ne partorirono moltissime altre. Una di queste fu segnalata a Voltaire, come la persona più adatta a coglierne il carattere di denunzia di quella Chiesa contro la quale andava conducendo la sua battaglia («Écrasez l’infame!»). Attirato dall’occasione di servirsene, Voltaire aveva storto il naso davanti allo stile (che gli parve «grossier») ma aveva deciso di usarlo. Non si comportò da filologo rispettoso del testo e delle volontà dell’autore. Ne diffuse un estratto che ne taceva un contenuto fondamentale: l’ateismo feroce e disperato di Jean Meslier, la sua convinzione che solo una congiura dei potenti contro il popolo mantenesse in piedi una religione come «fable convenue», strumento di dominio e di sfruttamento. Questo andava al di là del programma di Voltaire, per il quale – come scrisse – «la credenza nelle pene e nelle ricompense dopo la morte è un freno di cui il popolo ha bisogno». Le idee di Meslier, con la grande originalità della sua saldatura di ateismo e comunismo, si lasciavano alle spalle il suo deismo come religione della ragione, amabile ornamento di intelletti che avevano bisogno di un’entità suprema a garantirli della razionalità del reale – un Dio tutto mente e luce ridotto a un occhio luminoso iscritto in un triangolo e proiettato nelle lontananze di un cielo senza stelle. Solo d’Holbach (il cui «Bon sens» conobbe una ristampa sotto il nome di Meslier) si avvicinava intellettualmente al radicalismo di Meslier col materialismo spietato del suo pensiero.
Lungo sarebbe seguire ancora le sorti quasi sempre avverse del libro di Meslier e del suo stesso autore. L’esistenza dell’uno e dell’altro furono variamente negate o messe in dubbio, in un gioco allo chassé-croisé dove Chiesa e tradizione anticlericale si dettero la mano. Per la Chiesa, di cui era stato uno dei tanti militi di un esercito dalle nere divise diffuso nel mondo in un lungo ordine di secoli, la soluzione semplice ed elegante fu quella di mantenere in riga il grande corpo senza espellerne nemmeno il parroco delle Ardenne: bastava negare che quel Testamento fosse opera sua. E così il nome di Jean Meslier entrò nella grande Enciclopedia cattolica del Novecento, con una «voce» brevissima che l’ordine alfabetico collocò, per ironia della ragione, proprio accanto a quella – lunghissima – del lemma «Messa» inserendola tra le immagini fotografiche di un solenne pontificale papale dominato dalla ieratica figura di papa Pacelli. Ma il prezzo fu la negazione dell’opera: Meslier era esistito, diceva la voce, ma quel Testamento (debitamente inserito nell’Indice dei libri proibiti) non era opera sua. Punto. Si rovesciava così la tesi del cattolico convertito Léo Taxil che nel 1886 aveva sostenuto l’inesistenza di Meslier. Difficile mantenere in vita quella tesi data l’abbondanza di documenti e di testimonianze ormai circolanti e la dettagliata scheda biografica che dal 1861 era possibile leggere nel tomo XXV della Nouvelle biographie générale. Il che però non impedì al Dictionnaire Larousse di definire, nel 1867, l’opera «apocrifa», invenzione di Voltaire. Solo in tempi di rivoluzione, Anacharsis Cloots aveva avuto il coraggio di proporre alla Convenzione (anno 1793) di erigere un monumento al curato di Etrépigny.
L’Extrait messo in circolazione da Voltaire permise ancora in pieno Novecento il riaffacciarsi nella storiografia della tesi che il Testamento altro non fosse che uno dei tanti scritti anticlericali editi con pseudonimi nel Settecento. Né fu meno singolare il caso di chi non solo credette nell’esistenza di Meslier ma cercò di moltiplicarne la figura e di costruire un intero movimento di curati seguaci delle stesse idee: lo fece uno storico tutt’altro che disprezzabile, Boris Poršnev, autore di una grande ricerca sulle rivolte contadine nella Francia d’antico regime. Fu lui che, pubblicando nel 1955 sotto l’egida dell’Accademia delle scienze dell’Urss un saggio in francese e in russo («Jean Meslier et les sources populaires de ses idées»), sostenne che Meslier sarebbe stato solo uno dei tanti membri di un clero interprete della volontà rivoluzionaria delle masse popolari. Quanto al contenuto dell’opera di Meslier, le poche indicazioni fornite da Poršnev fanno pensare a una molto frettolosa lettura della fonte.
Chi volesse leggere in italiano il Testamento di Jean Meslier non lo troverà. Perfino in Francia solo nel tardo Novecento ce n’è stata un’edizione critica. Questo è uno dei due fatti che hanno cambiato il paesaggio della conoscenza dell’opera e dell’autore: 1) la pubblicazione dell’accurata monografia di Maurice Dommanget, Le curé Meslier, athée, communiste et révolutionnaire sous Louis XIV (Julliard, Paris 1965); e 2) l’edizione delle opere complete del parroco di Etrépigny in tre volumi a cura di Jean Deprun, Roland Desné e Albert Soboul presso le edizioni Anthropos nel 1972. Qui, oltre al testamento vero e proprio si possono leggere, insieme a molte testimonianze, le lettere di Meslier ai curati del vicinato, il suo Anti-Fénelon e l’Extrait di Voltaire. Invece in Italia, sempre così rapida nel tradurre tutti i prodotti francesi, abbiamo solo alcune selezioni di passi dal Testamento pubblicate da piccoli editori. La migliore è quella curata da Itala Tosi Gallo, edita da Guaraldi a Verona nel 1972. E va segnalato un saggio su rivista di Carlo Andreoni del 1977 che ha sottolineato l’originalità di Meslier come filosofo per avere saldato per primo l’ateismo e il comunismo. Un’originalità riconosciuta oggi anche dagli storici: secondo Albert Soboul, con l’opera di Meslier si apre la prospettiva che, «unendo il comunismo al materialismo, doveva giungere a Marx». Del resto, fu in quella prospettiva che a fine Settecento doveva inserirsi Gracco Babeuf, con la sua «congiura per l’uguaglianza».
Leggere e riassumere l’opera e inseguirne le fonti non è possibile in questa sede. Bisognerà limitarsi a descrivere la tesi fondamentale di Meslier, nutrita di pensieri e di letture nel corso della vita ed elaborata con anni di lavoro nel suo libro. La si può riassumere con una parola: «complotto». La religione è un complotto di potenti per sfruttare e tenere asserviti i popoli. Diverse le componenti del complotto: all’o
rigine c’erano stati coloro che volevano «ingiustamente comandare sui loro simili»; e a loro si erano associati altri i quali «pretendevano di essere reputati santi e talvolta vere e proprie divinità». Il loro scopo fu raggiunto, avrebbe detto Machiavelli, con le arti della golpe e del lione, con l’uso della forza e della violenza ma anche con ogni genere di espedienti e di frodi. Religione e politica secondo Jean Meslier sono due furfanti che si danno reciproco appoggio e protezione. E gli strumenti della religione sono molto persuasivi: il popolo è ingannato e impaurito con lo spauracchio dell’inferno e della dannazione eterna. Per smontare questo enorme complotto bisogna tagliare alle radici l’albero della sopraffazione: dimostrare che la religione non è altro che un’invenzione umana. Dio non solo non si è mai rivelato, ma non esiste del tutto. Bisogna che tutti gli uomini d’ingegno si mettano all’opera per smontare questo gigantesco inganno, osserva Meslier. Solo così si potrebbe riuscire a spingere i popoli a scuotere il giogo tirannico sotto cui giacciono. Ma i sapienti non vogliono rischiare un’avventura così pericolosa. «E allora sarò io», scrive Jean Meslier, «a tentare di rivelarvi con semplicità e franchezza la verità». È il curato che parla e quella che propone è una predica, come ha osservato Itala Tosi Gallo. Ha l’andamento dell’omelia anche se non è un testo devoto, al contrario. È un discorso piano e confidenziale rivolto da Jean Meslier a chi, dopo la sua morte, leggerà lo scritto. Nel lunghissimo testo il predicatore traduce per i suoi lettori quello che ha imparato dai filosofi che ha letto e da cui raccoglie argomenti ma da cui spesso si allontana – Montaigne, Naudé, il Marana dell’Espion turc, Descartes.
L’impianto dell’opera è sistematico, segue un ordine affidato a precise tesi da dimostrare. Si parte con la questione delle origini delle religioni e di quella cristiana in particolare, si passa poi alla demolizione delle prove di verità addotte dai sostenitori del sistema religioso – rivelazioni divine, profezie, miracoli, ricorso all’allegoria e all’interpretazione mistica – per concentrarsi successivamente sugli effetti del sistema di credenze ufficiali, che nelle mani del potere serve a sostenere e giustificare sfruttamento e ingiustizie sociali. Per liberarsi dallo stato di asservimento è dunque necessaria la demolizione della credenza nell’esistenza di Dio e di quella dell’anima, a cui l’autore dedica una nutrita serie di argomenti.
L’opera si conclude con l’annuncio di un futuro che gli appare come l’esito finale della battaglia per l’abolizione delle credenze religiose. Ci sarà allora l’instaurazione di un sistema sociale giusto, fondato sull’unione dei contadini: è agli «uomini della terra» che Jean Meslier si rivolge, invitandoli al rifiuto del sistema della proprietà privata, grande causa di infelicità. «Sarete miserabili e infelici, voi e i vostri discendenti, finché desidererete appropriarvi individualmente, pregiudicando il bene comune, di tutto ciò che potete possedere insieme». Per costruire quel mondo futuro c’è però un lungo cammino da percorrere. Se la credenza religiosa è frutto di un complotto, ci vorrà una congiura uguale e contraria per liberarne le menti. È in vista del futuro che ci sarà dopo la sua morte che Jean Meslier invita i suoi lettori a organizzarsi secondo un modello settario: dovranno comunicarsi in segreto pensieri e desideri, e strutturarsi in modo da diffondere dovunque «con tutta l’abilità possibile scritti simili a questo, che facciano conoscere a tutti l’inconsistenza degli errori e delle superstizioni religiose e che suscitino ovunque odio contro il governo tirannico di principi e re». Dovranno lottare e convincere i loro figli a continuare nella lotta. Il punto centrale della sua tesi è quello dell’uguaglianza sociale che bisogna instaurare in una società resa tirannica dall’alleanza fra trono e altare: «Tutti gli uomini sono eguali per natura e tutti hanno eguale diritto di vivere e di camminare sulla terra, come pure di godervi di una libertà secondo natura e di partecipare ai frutti della terra, lavorando utilmente, gli uni e gli altri, al fine di procurarsi le cose necessarie e utili alla vita».
Per quanto lo riguardava, Jean Meslier prevedeva che la sua opera sarebbe stata perseguitata e distrutta e per questo informava i lettori – i suoi «cari amici» – delle misure che aveva preso per lasciarne le tre copie in luoghi sicuri e a loro accessibili.
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Con questo scritto siamo davanti a quell’illuminismo che qualcuno ha definito «radicale» ma che andrebbe definito «estremo». Questa è stata la proposta di Michel Onfray, entusiasta sostenitore del «curato ateo, per di più rivoluzionario comunista e internazionalista, materialista integrale, edonista convinto, collerico patentato, vendicativo, bestemmiatore anticristiano, ma anche, e soprattutto, filosofo nel senso pieno e nobile del termine, cioè capace di proporre una visione del mondo globale» 1. Ma va ricordata l’osservazione del gesuita p. De Rosa che nella recensione al volume dell’edizione Guaraldi apparsa su Civiltà cattolica (marzo 1975) riprese forse senza saperlo una frase di Voltaire: i destinatari del Testamento erano i contadini, che non poterono «mai conoscerla». Erano analfabeti.
E tali erano anche i contadini italiani. Per i quali non risulta che nessun parroco abbia lasciato un messaggio anche lontanamente simile a quello di Jean Meslier. Il cui Testamento poteva nascere solo su suolo francese. Il curato di Etrépigny si alimentava di una cultura dominata dal pensiero scettico e libertino, dai Saggi di Montaigne e dagli scritti di Naudé, di Descartes e di Fénelon, dove durava la memoria degli attentati dei monarcomaci del Cinque-Seicento e delle rivolte popolari contro gli intendenti del re e la vessatoria fiscalità della monarchia assoluta. La storia dei parroci italiani e delle loro prediche al popolo è stata diversa: tra di loro ci sono stati preti criminali e preti santi, il più famoso è diventato il don Abbondio di Manzoni e il più noto caso di un prete condannato dalle autorità ecclesiastiche è stato quello di don Lorenzo Milani.
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