Islam e femminismo, visioni a confronto

Chiara Baldi



Tre donne – una ricercatrice, una attivista e una politica – e tre visioni su Islam e femminismo. Renata Pepicelli, docente universitaria ed esperta in materia, Maryan Ismail, ex Partito Democratico milanese e ora membro del coordinamento nazionale delle comunità islamiche presso il Ministero dell’Interno, e Sumaya Abdel Qader, consigliere comunale eletta a Milano nella lista del Pd, hanno affrontato il tema del ruolo della donna nella cultura islamica nel corso del convegno che si è tenuto il 5 novembre a Milano, alla Casa della Cultura.

«Il tema della questione femminile nell’Islam viene affrontato oggi dai media in modo sensazionalistico, così da risultare pura propaganda», spiega Sumaya Abdel Qader. «Le donne musulmane in Europa non sono o integraliste o femministe. C’è un mare in mezzo. Molte di loro non si pongono neanche il problema perché sono madri, mogli, lavoratrici, studiose, intellettuali». Secondo Abdel Qader, «le donne musulmane non si sono svegliate oggi a parlare di femminismo: è un dibattito lungo decenni che ci porta a chiedere “chi siamo?”. E mentre tutti discettano sul ruolo del corpo della donna, le donne cercano risposte a domande complesse, tipo “come convinco mia figlia a mettere il velo?”». Per Abdel Qader, c’è una «coalizione» tra le donne musulmane: quando una di loro è vittima di violenza da parte del marito, le altre la aiutano indicandole come uscirne. «Ho tre figli, qualche settimana fa la maggiore mi ha detto che voleva mettere il velo. Pur portandolo le ho detto di “no” perché a 14 anni magari lo fai per emulazione e se davvero vuoi avvicinarti a Dio è meglio se prima inizi a pregare. Mio marito non è stato contento della risposta, ma l’ha rispettata».

Di epoca oscurantista parla invece Maryan Ismail, esponente storica della comunità somala milanese. «Quando mi chiedono ‘cosa significa per noi donne africane musulmane l’Islam?’ rispondo che non esiste una visione di un Islam tout court: ci sono peculiarità e specificità», spiega Ismail, che ricorda che quando l’Islam cominciò a insediarsi, «le sue più grandi sostenitrici erano proprio le donne: le due mogli del Profeta Maometto sono state fondamentali e sono tutt’oggi considerate le madri dei credenti», tanto che all’inizio «alle donne era riconosciuto un ruolo molto più importante di quello di oggi, basti pensare che Maometto nelle sue battaglie era affiancato da condottiere militari che avevano il compito di difenderlo: donne libere ed emancipate. Oggi, invece, viviamo in un periodo di oscurantismo di genere».

Ismail appartiene alla corrente del sufismo africano, «una corrente islamica spirituale e non politica, per noi una forma di resistenza democratica al colonialismo», dice Ismail, che ricorda che la Somalia «da 27 anni è ostaggio del Wahabismo, dei Fratelli Musulmani, a cui rispondiamo con la nostra iconografia tradizionale: le donne somale sono colorate, non indossano i tipici veli dell’Islam oscurantista, abbiamo fazzoletti in testa colorati. Io sono profondamente musulmana e posso commettere peccati, ma nulla mi toglie quello che sono come donna e come persona». È grazie alle donne, quindi, se la Somalia resiste all’oscurantismo. Una visione che – secondo lei – manca nelle altre tre scuole di femminismo islamico: per quella riformista tradizionale, più diffusa negli ambienti islamizzati, uomini e donne sono spiritualmente uguali ma la loro particolarità biologica li spinge ad assumere dei ruoli differenti e ad avere diritti e doveri non uguali, ma equivalenti. La donna è figlia, sposa, madre all’interno del quadro famigliare. In quella riformista radicale, la questione femminile è concepita in maniera radicalmente diversa dal pensiero religioso classico: non si tratta più di diritti e doveri ma di soggetti di sesso femminile e maschile fondamentalmente uguali al di là dei contesti culturali e sociali. Infine, nella scuola riformista liberale, che è la più diffusa tra le femministe musulmane, i rapporti sociali tra sessi sono costruzioni sociali e la concezione musulmana tradizionale è una deformazione patriarcale della parità dei sessi.

In Europa, dove come spiega Renata Pepicelli «il numero dei musulmani cresce come quello dei fedeli di altre religioni: i cristiani sono tuttora la prima comunità religiosa tra i migranti», le donne musulmane appartengono a tre categorie. «Siamo portati a pensare che le donne musulmane siano tutte immigrate: molte lo sono, ma una fetta importante è costituita da coloro che sono nate e cresciute qui da genitori musulmani venuti da noi. Non si parla più di “immigrati di seconda generazione”, ma di terza e quarta», racconta la docente.

Poi ci sono le convertite: «Sono ancora in numero ridotto ma sono comunque in crescita». Infine, le donne che appartengono a minoranze storiche autoctone di musulmani presenti in Romania, Bulgaria, Finlandia e Grecia: «Sono discendenti di minoranze musulmane autoctone, per questo possiamo dire che l’Islam è una radice storica dell’Europa». Secondo Pepicelli, «le musulmane europee sono espressione di una ulteriore pluralità perché il modo in cui si vive l’Islam è plurale, con differenze significative». Tanto che varia di generazione in generazione: «Le figlie lo vivono in modo diverso rispetto alle madri. E infatti quando si studia il fenomeno di genere anche nell’Islam si dovrebbe prima inserire questi giovani all’interno di dinamiche e problematiche tipiche della condizione giovanile, e solo dopo in quella migratoria che appartiene molto di più ai loro genitori piuttosto che a loro».

(15 novembre 2016)



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