Islam, religione e laicità
Michele Martelli
«L’Isis non è l’Islam e l’Islam non è l’Isis», «il Corano è un libro di pace», «l’Islam è religione di pace»: questi e simili gli slogan principali dei manifestanti islamici nelle piazze di Roma e Milano. Simile il messaggio trasmesso dalle coraggiose orazioni dei rappresentanti della comunità islamica di Venezia alla cerimonia laica dei funerali di Valeria Solesin. Questo anche il contenuto essenziale dei numerosi interventi e interviste di fedeli e imam italiani in vari programmi radio, nei talk show televisivi e sui maggiori quotidiani nazionali. Dunque una dissociazione netta, precisa, inequivocabile, dai terroristi jihadisti del Bataclan emissari dell’Isis, a smentita della campagna mediatica dei nostrani islamofobi fallaciani, che di tutt’erba fanno un fascio.
La condanna pubblica del terrorismo da parte delle comunità islamiche italiane dopo le stragi di Parigi sono il sintomo di una svolta decisiva nella storia dell’Islam in Occidente. Forse si sta assistendo in Italia ad un’efficace strategia di isolamento degli stragisti («Not in my name», lo slogan più diffuso), ma forse anche ad un tentativo di ripensare a fondo l’Islam per adattarlo alle democrazie europee, per europeizzarlo.
Ma un Islam europeo non può che nascere da un confronto aperto e spregiudicato, questo sì «senza se e senza ma», con la moderna cultura europea. Quindi con la laicità. Il che implica la necessità dell’avvio (o della ripresa) sia di un processo di reinterpretazione del Corano sia di un dibattito pubblico sul suo rapporto con la laicità.
A) L’Islam religione di pace? Il Corano libro di pace? Sì, ma purtroppo anche il contrario. Innanzitutto una questione metodologica: può osare, chi non è né arabo né islamico né credente, leggere criticamente e in una buona traduzione il Corano, ritenuto dai fedeli un libro sacro dettato da Allah a Muhammad per tramite dell’Arcangelo Gabriele nell’arabo coreiscita, ritenuto a sua volta la lingua di Dio?
Io penso di sì. Altrimenti perché tante traduzioni in tante lingue del mondo, tra cui quelle occidentali, tra cui quella italiana (tra le varie edizioni italiane del Corano, quella fatta dal dirigente dell’Ucoii Hamza Roberto Piccardo è stata riconosciuta come «traduzione ufficiale» dall’Arabia Saudita, custode dell’ortodossia salafita).
Del resto, poiché solo il 10 per cento dei musulmani (ne sono 1 milione e 600 mila nel mondo) conosce l’arabo, del Corano sono state fatte traduzioni più o meno ufficiali in varie e numerose lingue nazionali. Deassolutizzando di fatto la stessa sacralità del testo, adattato alle diverse culture nazionali. E prefigurando, paradossalmente, non uno, ma molti Islam. Come è avvenuto sin dalle origini nell’Islam arabo, ben presto dilaniato dal conflitto tra sunnismo e sciismo.
Dunque l’Islam predica solo la pace? No. Proviamo a rifarci al concetto di Jihad. Nel Corano, che, come tutti i testi religiosi, è complesso, prismatico, il concetto, che equivale a «sforzo sulla via di Allah», ha, come è noto, almeno tre significati: a) di sforzo interiore, fatto di meditazione e preghiera, di lotta con se stesso per la purificazione dal peccato (Sura 25, v. 52); b) di guerra di difesa («Combattete sulla via di Dio coloro che vi combattono», Sura 2, v. 190); c) infine di guerra di espansione dell’Islam contro gli infedeli («Uccidete gli idolatri dovunque li troviate, prendeteli, circondateli, appostateli ovunque in imboscate», Sura 9, v. 5): da qui la divisione (nella tradizione giuridica musulmana) del mondo in due parti contrapposte: Dar al-Islam, o «dimora dell’Islam», e Dar al-Harb, o «dimora della guerra», quella degli infedeli, miscredenti e idolatri da conquistare e assoggettare con la spada.
In tutti e tre i sensi il profeta promette la santificazione e il paradiso dopo la morte. Se nel primo senso la teologia del Jihad contempla e incoraggia il rapporto diretto interiore, spirituale del fedele con Allah, nel secondo (difficile stabilire sempre, in una guerra armata, la difesa dall’aggressione) e soprattutto nel terzo autorizza l’espansionismo religioso, politico e militare, e quindi la «missione» dell’islamizzazione del mondo, che ha caratterizzato nei secoli prima la storia araba dei Califfi (=successori, vicari, luogotenenti di Muhammad), poi quella turca dell’Impero ottomano. Non si appellano al Jihad, pur in parte distorcendolo (nel Corano c’è sì la figura del martire combattente, ma non quella del terrorista suicida), sia i criminali drogati jihadisti delle stragi di Parigi sia Al-Baghdadi, appeso al folle sogno della rinascita del Califfato? Una Guerra santa che vede oggi contrapporsi nel Medio Oriente musulmano, in Libia, Siria, Yemen e Iraq, con armi, attentati terroristici e bombardamenti indiscriminati, in nome dello stesso dio unico Allah e dello stesso libro sacro, Stati comunità e tribù sunnite e sciite, in una complicata guerra politico-religiosa, che dura ininterrotta da decenni, almeno dalla nascita dell’Iran khomeinista nel 1979?
«Not in my name» dovrebbe significare per i musulmani d’Italia anche l’inizio (o la ripresa) di una lettura storico-critica del Corano, per dissociarsi dalla Teologia politica del Jihad che oggi più che mai ha assunto, in vari paesi e continenti, l’aspetto di una vera e propria Teologia del Terrore. So bene che il processo di storicizzazione, reinterpretazione e relativizzazione dei testi sacri riguarda anche, e tuttora, gli altri due monoteismi ebraico e cristiano. Ma questo non è una scusante per nessuno.
B) L’Islam e la laicità. In che cosa consiste la laicità delle moderne democrazie? In due principî fondamentali e complementari, a cui l’Islam arabo ed extraeuropeo è rimasto quasi ovunque estraneo e/o ostile: a) la separazione tra Stato e religione; b) l’uguaglianza dei diritti umani e civili. Se l’Islam è religione di Stato, unica o privilegiata che sia, è evidente che chi non è musulmano (l’altrimenti credente o il non credente) o non gode della cittadinanza o è un cittadino di serie b; e perciò o è privo di diritti o i suoi diritti sono limitati e ristretti.
Il Corano non è solo un libro di preghiera, ma contiene (al pari della Bibbia ebraica) una minuta precettistica sull’intera vita del credente, privata e civile, da cui è nata la sharia, ossia la tradizione giuridica musulmana presunta interprete della Legge di Dio. La Carta araba dei diritti dell’uomo (che sanciva l’uguaglianza dei cittadini, la libertà di pensiero, coscienza e religione, la parità uomo-donna, ecc.), sottoscritta dalla Lega araba nel 2004 e modellata sulla Dichiarazione del 1948 dell’Onu, è rimasta pressoché lettera morta, mera dichiarazione di intenti. Perché? Perché incompatibile con molti aspetti, regole, divieti e prescrizioni della sharia (che prevede l’inferiorità della donna, la lapidazione dell’adultera, la pena di morte per l’apostasia e la blasfemia, la condanna dell’omosessualità, l’esclusione e la repressione del pensiero critico, ecc.).
Molti credenti dell’Islam d’Italia, compresi imam e altre autorità religiose, hanno in questi giorni affermato pubblicamente di essere e sentirsi senza contraddizione musulmani e cittadini laici, rispett
osi della Costituzione. Mi chiedo se ciò sia possibile senza dissociarsi dalla lettura, interpretazione e applicazione acritica (e talvolta distorsiva) del Corano e della sharia, che è tipica dell’estremismo terroristico, ma anche dell’integralismo religioso premoderno di tanta parte del mondo musulmano.
(28 novembre 2015)
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