Istruzione, distruzione, costruzione del futuro
di Emiliano Sbaraglia
Fa un certo effetto guardare la protesta studentesca di questi giorni dall’altra parte, dalla parte dell’insegnante di materie umanistiche, rigorosamente precario, con contratti a 15-20 giorni, che fluttuano in base alle malattie vere o presunte del titolare di cattedra. Fa un certo effetto vedere ragazzi alle prime armi della contestazione attraversare le strade delle proprie città confusi e felici, ma ogni giorno più coscienti e determinati, trascinandosi allegramente fin sotto i palazzi del potere.
Il movimento di questi giorni è qualcosa di strano, qualcosa che poco ha a che fare con le reliquie ideologiche del secolo appena passato, un secolo che in Italia non ci siamo ancora lasciati del tutto dietro le spalle. Per questo è un movimento sfuggente, mutevole, indefinibile, e restìo a qualunque connotazione politica gli si voglia attribuire; i retaggi del novecento provano ad affacciarsi, ma per adesso non riescono a penetrare nel cuore della protesta, dalle varie componenti dei centri sociali al “Blocco studentesco”, emanazione diretta di “Forza nuova”, che dopo aver provato ad accaparrarsi la testa del corteo al grido “duce duce”, il giorno successivo offre all’Unione degli studenti (organizzazione di sinistra) di sfilare insieme, l’uno al fianco dell’altro. Con buona pace dell’emerito Cossiga, tornato col kappa per l’occasione, sobillatore di violenze repressive a lui ben note.
L’elemento di novità rispetto alle agitazioni studentesche del passato risiede dunque nella sua prevalente apoliticità. Ne sono altro esempio alcuni episodi registrati nel corso delle recenti manifestazioni, in particolare durante quella che ha portato migliaia di studenti, accompagnati da un significativo numero di professori e genitori, davanti gli ingressi di Montecitorio e Palazzo Madama. Qui hanno fatto capolino alcuni esponenti partitici, senatori Pd come l’ultimo segretario di Rifondazione comunista; si sono affacciati per testimoniare la loro “solidarietà al movimento”. La cosa sorprendente, ma non troppo, è che gli studenti delle prime file, quelli con gli striscioni in mano senza l’atteggiamento dei nuovi leader già pronti al grande salto, dopo averli fatti parlare hanno sentito subito puzza di bruciato, e più o meno cortesemente li hanno invitati a tornare là dove erano venuti, chiedendo loro dov’erano stati sino a quel momento, e soprattutto quando erano al governo.
Tra quelli più navigati ci si domanda quanto durerà tutto questo, fino a quando “l’onda anomala” continuerà a mantenere le sue essenziali componenti di vitalità e spontaneità, che ne hanno contraddistinto la genesi.
Dentro le scuole, nel frattempo, gli studenti sono sempre di meno, si sentono sempre più a disagio e provano a giustificare le loro motivazioni, evidenti emanazioni di quanto si pensa e si dice in famiglia. Quando poi all’improvviso, saltuariamente, parte dell’onda torna in aula, per un giorno di riorganizzazione prima di un nuovo fermento, la discussione si accende, diventa serrata, alcune opinioni divergono. Di una cosa però tutti sembrano convinti: avanti così non si può andare, il futuro non c’è più, “non è più quello di una volta”, e va di nuovo pensato partendo da qui: dalla scuola, dal diritto allo studio, dalla voglia di conoscenza e di opportunità.
Di tutto questo, il dato forse maggiormente indicativo è la richiesta implicita di partecipazione collettiva che arriva da questi studenti, il bisogno di un aiuto che aiuti a comprendere, a capire come funzionano i meccanismi, pronti ad accogliere e ad ascoltare tutti. Gli si spieghi per bene cosa sta accadendo, perché se il mondo va a rotoli i primi soldi da recuperare devono essere saccheggiati dal loro mondo, perché le decisioni vengono prese sopra le loro teste, a suon di decreti, senza essere minimamente chiamati in causa.
Circola nell’aria il desiderio di cambiare la realtà anche senza sapere come fare, consapevoli però che ormai non è più tempo di rimandare a domani quello che deve essere fatto oggi. Non si sa come fare anche perché non si riesce a comprendere fino in fondo quali siano i motivi delle decisioni di un governo che, camuffando un decreto legge da riforma, appiccicando alla rinfusa grembiulini e “cinque in condotta”, confonde le acque nel tentativo di far passare con minor danno di immagine possibile i quasi nove miliardi di euro (in tre anni) che il ministro Tremonti ha praticamente ordinato alla collega di Viale Trastevere di provvedere a tagliare, per far quadrare i conti della sua finanza non più tanto creativa, quanto intenta a sfaldare quel poco di tessuto sociale ancora rimasto in un paese tristemente in balìa dell’odio e della paura verso l’altro, il diverso, chiunque esso sia.
A scuola non funziona così. Nelle scuola italiane i ragazzi italiani, nella stragrande maggioranza dei casi, parlano, giocano e fanno i compiti a casa con i loro vicini di banco, gialli verdi rossi o neri. E forse è proprio questo che non digerisce tanto il governo di questa legislatura, vale a dire la constatazione di un realtà quotidiana che, nei settori di formazione dell’individuo e della società, non si arrende a declinare l’intolleranza come dato acquisito, non vuole sostituire il senso di cittadinanza con quello di sudditanza, non rinuncia al faticoso tentativo di vivere un domani che non sia più quello di ieri.
La goffa retromarcia del presidente del Consiglio in merito all’utilizzo delle forze dell’ordine, la sua palese difficoltà nel gestire mediaticamente la situazione creatasi in così breve tempo, definiscono non soltanto un premier sempre più autoritario al quale inizia a sfuggire di mano il controllo degli umori del paese, trasformato nel giro in pochi mesi di governo nel sontuoso e militarizzato giardino di Arcore. Denota anche l’attuale forza di questo movimento, leggero e imprevedibile, che non conosce la violenza, non si interessa troppo alla politica partitica, e che non rappresenta niente e nessuno. Molto semplicemente, si oppone alle scorribande arroganti di un decisionismo di governo, sempre più somigliante a una pericolosa specie di monocrazia postmoderna, realizzata soprattutto attraverso l’utilizzo e il controllo dei più importanti strumenti di comunicazione e (dis)informazione.
Ma la scuola non è fatta di immagini pronte ad essere dimenticate, di personaggi da guardare dal buco della serratura televisiva, di messaggi promozionali volutamente infusi di falso ottimismo. La scuola è fatta di persone, di essere umani veri, che ostinatamente ricostruiscono ogni giorno quel tessuto sociale che, ogni giorno, questa maggioranza tenta di sfaldare.
Stavolta non è detto che ci riesca.
(29 ottobre 2008)
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