Italia: Una questione di tassi di interesse e fiducia
Sergio Cesaratto
Figura 1
Fonte: Cesaratto, Iero (2018)
L’elevato debito pubblico italiano data agli anni ottanta dello scorso secolo, dunque al periodo di partecipazione al Sistema monetario europeo (SME). Tale partecipazione venne giustificata – al pari di quella successiva all’Unione monetaria europea (UME) – come una maniera di importare disciplina dall’estero. La conseguente perdita di competitività esterna costituì una determinante della crescita del debito pubblico: direttamente, attraverso l’effetto negativo su domanda aggregata ed entrate fiscali; e indirettamente, attraverso la necessità di attrarre finanziamenti esteri attraverso più elevati tassi di interesse. Naturalmente, anche la resistenza dei governi di quell’epoca ad adottare misure di austerità fiscale contribuì alla crescita del debito. Tuttavia, come ha sostenuto Joseph Stiglitz, paesi con persistenti e crescenti deficit esterni sono spesso costretti a condurre politiche fiscali in disavanzo per sostenere la domanda interna poiché “senza disavanzi fiscali, essi avrebbero un disoccupazione più elevata”.[1]
Comunque sia, gli elevati tassi di interesse furono nel corso degli anni ottanta la causa prevalente dell’aumento del debito pubblico. Questo fu il caso anche dei primi anni novanta in seguito alla liberalizzazione dei movimenti di capitale e alla necessità di stabilizzare la lira dopo l’uscita dallo SME nel 1992. Durante gli anni pre-crisi, l’Italia poté godere di più bassi tassi di interesse che, combinati con le politiche di austerità, condussero a una caduta sostanziale del rapporto debito pubblico/PIL dal 125% di metà anni novanta al 100% del 2007. Negli anni successivi, gli elevati tassi di interesse causati dal ritardato e inadeguato intervento della BCE a sostegno dei titoli sovrani italiani, aggiungendosi all’impatto negativo delle misure di austerità sul GDP e sulle entrate fiscali causarono un nuovo aumento di tale rapporto all’attuale livello del 130%.
In sintesi, il debito pubblico italiano ha principalmente a che fare con la spesa per interessi e molto poco con la dissolutezza fiscale.[2] David Folkerts-Landau, capo economista della Deutsche Bank, ha recentemente riconosciuto che “contrariamente a un diffuso pregiudizio, l’Italia è stato un paese frugale”.[3]
Durante i sui recenti attacchi al governo italiano, Pierre Moscovici – il Commissario europeo agli Affari economici e finanziari – ha affermato che poiché l’Italia paga circa 65 miliardi all’anno di interessi sul suo debito pubblico, a carico dei suoi cittadini, il solo modo di ridurre questo costo è allora quello di tagliare il debito. L’esperienza suggerisce che, tuttavia, le politiche indirizzate ad abbattere il debito sono una inutile fatica di Sisifo in quanto deprimono il PIL. E’ anche noto che i tassi di interesse sono grandemente influenzati dalla banca centrale, a meno che questa lasci i mercati liberi di operare a proprio piacimento. Sfortunatamente buona parte della élite tedesca condivide l’opinione di Jörg Krämer, capo economista della Commerzbank che i mercati dovrebbero essere lasciati liberi di mettere l’Italia in ginocchio (opinione riferita da Eurointelligence, 14 Novembre 2018). Purtroppo anche la Commissione europea fa proprio questo argomento.
Esiste tuttavia un’altra soluzione per l’Italia e l’Europa: operare in maniera tale che i tassi di interesse sul debito pubblico italiano cadano, per esempio al livello francese (cioè vicino a quello tedesco). Con tassi di interesse sufficientemente bassi, una stabilizzazione e persino una lenta, progressiva riduzione del rapporto debito/PIL sarebbe compatibile con una moderata espansione fiscale indirizzata a sostenete la domanda interna. Folkerts-Landau ha recentemente fatto proprio questo suggerimento che egli ritiene possa essere adottato senza preoccupazioni di azzardo morale da parte delle autorità italiane[4].
Se, come suggerito da Folkerts-Landau, l’Europa ammettesse che la soluzione per il debito pubblico italiano non è in una maggiore austerità fiscale, il governo italiano sarebbe dal suo canto pronto al grande accordo? Nel documento inviato alla Commissione europea lo scorso settembre il Ministro italiano per gli Affari europei Paolo Savona menzionò in maniera specifica la necessità di un sostegno selettivo da parte della BCE. Il Ministro dell’economia e finanza, l’economista moderato Giovanni Tria, ha correttamente respinto la richiesta della Commissione di un bilancio pubblico restrittivo in quanto esso condannerebbe il paese a una nuova recessione, sottolineando che le politiche di crescita implicano un coordinamento internazionale fiscale e monetario e non possono essere relegate al livello dei singoli paesi (attraverso le “riforme strutturali”) com’è nella filosofia economica europea.
[1] Stiglitz, J. E. (2010) Freefall: America, Free Markets, and the Sinking of the World Economy, London: W.W. Norton & Company, p. 235.
[2] Cesaratto, S. and A. Iero (2018), E’ il tasso di interesse, bellezza! Econopoly, 10 Novembre 2018 (trad. ingl. Brave New Europe, 17 November).
[3] Folkerts-Landau, D. (2018) Europe must cut a grand bargain with Italy , Financial Times, 12 November.
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