Je suis Charlie? Je suis Charlie! Democrazia e laicità di fronte al terrorismo islamico

Paolo Flores d’Arcais

Trucidando la redazione di Charlie Hebdo il terrorismo islamico intende colpire il principio fondante dell’intera modernità: la libertà di espressione. Lo hanno capito i milioni di francesi scesi in piazza rivendicando ‘Je suis Charlie’. Non vogliono capirlo i sempre più numerosi paladini della ‘libertà sì, ma …’, che hanno trovato nel solito Francesco la loro bandiera. Ma libertà di critica sarà sempre vissuta da qualcuno che ne è ‘oggetto’ come offesa: senza libertà di offesa, fino al sacrilegio, saranno i devoti e i fanatici a decidere sulla libertà di critica.

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La strage della redazione di Charlie Hebdo segna una svolta d’epoca. Il terrorismo fin qui aveva colpito edifici o simboli o gruppi politici e religiosi, o indiscriminatamente la «popolazione», cioè cittadini inermi (a migliaia, come l’11 settembre). L’assassinio di una dozzina di persone a rue Nicolas Appert 10 costituisce però il primo atto di terrore contro un principio fondante dell’intera modernità, anzi il suo principio istitutivo, la libertà d’espressione. Per questo una strage che conta infinitamente meno vittime di altre ha – giustamente e per fortuna – provocato la manifestazione popolare più grande che la Francia abbia conosciuto dai tempi della Liberazione, e la sua eco ha percorso il mondo. Ecco perché su questa strage, le reazioni che ha prodotto, gli effetti storici che sprigionerà (ma con inizio immediato), diventerà necessario esercitare una capacità di analisi inedita, che affronti dalle fondamenta cosa può e deve voler dire laicità, quale democrazia ciò implichi, e le condizioni materiali di entrambe, e le strategie di un’integrazione degli immigrati nella cittadinanza, e le condizioni stesse di esistenza o meno di tale identità repubblicana, il cui tratto è la sovranità, l’eguale sovranità dei cittadini, oggi palesemente introvabile.

Su questi temi MicroMega si impegnerà, con la sua vocazione di sinistra eretica, illuminista, materialista, fin dal prossimo numero, e più che mai ne farà il filo rosso del suo lavoro di analisi e proposta. Quello che segue è intanto e solo un modesto e improvvisato zibaldone di riflessioni disorganiche ed eterogenee.

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«Je suis Charlie». Quanti i sinceri e quanti gli ipocriti? La parola d’ordine campeggia ovunque già qualche ora dopo la strage, ma quanti hanno diritto a fregiarsene e quanti sono gli abusivi, gli opportunisti, i sepolcri imbiancati? Non si pretende che chi indossa la scritta condivida tutte le vignette, al limite anche nessuna, ma se la sua azione pubblica e il suo vissuto personale non fanno prevalere il diritto alla pubblicazione dell’empietà su ogni altra considerazione, il loro «Je suis Charlie» è menzogna retorica. Perché quella di Charlie Hebdo è empietà, irrisione del Sacro in ogni paludamento e travestimento: religione, politica, buoni sentimenti e infine buon gusto.

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Libertini sessuomani, estremisti di sinistra, atei, anarchici-e-comunisti, e infine irresponsabili, come recitava cristallinamente e orgogliosamente il sottotitolo del settimanale. Eppure si ponevano dei limiti, eccome. Ruppero con Siné, che pure era un grandissimo come collega e come amico, ritenendo che fosse scivolato dall’antiebraismo all’antisemitismo, che avesse cioè oltrepassato il confine, il limes (il limite invalicabile!), che separa l’empietà dal razzismo. E non mi risulta che abbiano mai oltraggiato i valori della Resistenza, di quell’antifascismo che in Francia (ma in Europa!) ha ri-fondato, un secolo e mezzo dopo la rivoluzione della «liberté, égalité, fraternité», l’identità della «République».

Quei limiti non erano, e non sono, contraddittori con la vocazione dissacrante, che come si vede non porta affatto al nichilismo, come lamenta la geremiade d’establishment, perché possiede – eccome – valori. Quei limiti – ma solo quelli! – sono lo strumento della libertà dissacrante e illimitata con cui gli «estremisti irresponsabili» appena assassinati avevano caratterizzato le loro vite, riempito le pagine di Charlie e nutrito le nostre libertà.

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A caldo, di Charlie Hebdo hanno fatto il ditirambo governanti reazionari e giornalisti d’establishment, despoti e finte sinistre, papi e leghe arabe, con tassi di ipocrisia diversi e che non proviamo neppure a misurare. Meglio così, hanno dovuto tutti allinearsi a difesa del diritto alle «enormità» di Charlie. Mentre avevano ancora la matita in mano li hanno solo attaccati, mal sopportati, diffamati. L’elogio che obtorto collo devono farne oggi è perciò la vignetta e l’editoriale che Wolinski e Charb avrebbero potuto scrivere sull’ipocrisia del potere. Non dimentichiamolo 1.

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Charlie è ateo, come ricorda il nuovo direttore, Gérard Biard (lo aveva già fatto su MicroMega 5/2013). Perché allora essere sacrilegi e blasfemi, se l’oggetto dell’irrisione non esiste? Una domanda che circola molto, ma la cui stravaganza è perfino più grande della sua (ampia) diffusione. Il sacrilegio non si rivolge a Dio, che non esiste, ma alla superstizione di chi vi crede. Che è presentissima. E che anzi è egemone, benché indirettamente, in tanti ambienti e tanti cuori che si ritengono laici. Il sacrilegio si rivolge all’oppressione che Dio ha esercitato, e ancora esercita, benché non esista, alla devastazione di intelligenze e sensibilità che ha prodotto, alle frustrazioni e infelicità che ha generato e genera. Il sacrilegio è anche generoso, perché lo praticano persone anche non più colpite e non più frustrate dai misfatti di Dio: per syn-pathos con chi ne è invece ancora vittima.

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La strage è stata fatta in nome di Dio, il dio monoteista, creatore e onnipotente, il Dio di Maometto, Allah il Clemente e Misericordioso (sono i primi due dei suoi novantanove nomi). L’islam dunque, ma quello fondamentalista e terrorista, si è detto. L’altro islam è una vittima, si sottolinea. Senza dubbio. A un patto: che questo altro islam parli in modo forte, chiaro, senza contorsionismi semantici, e con adamantina coerenza di comportamenti. Non basta perciò che condanni come mostruosa la strage di rue Nicolas Appert 10 (ci mancherebbe!). È ineludibile che riconosca la legittimità e la normalità democratica di quanto Charlie praticava in modo esemplare per intransigenza: il diritto di criticare tanto i fanti che i santi, fino alla Madonna, al Profeta e a Dio stesso nelle sue multiformi confessioni concorrenziali. Anche, e verrebbe da dire soprattutto, quando tale critica è vissuta dal credente come un’offesa alla propria fede. Questo esige la libertà democratica, poiché tale diritto svanisce se dei suoi limiti diviene arbitro e padrone il fedele.

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Sacrosanto il principio, ma meglio non applicarlo, anche i princìpi bisogna saperli usare cum grano salis, se creano sfracelli mettiamo la sordina, rinunciamo alla soddisfazione della coerenza, grande a parole ma tragica nei fatti. Etica della responsabilità contro etica della convinzione, insomma. Ma è davvero così ragionevole questo «realismo»?

La migliore difesa, contro la volontà omicida che vuole punire i blasfemi, consiste nella circostanza che essi siano talmente tanti da rendere il sacrilegio banale, e dunque non più «eroica» – agli occhi dei propri correligionari e del proprio narcisismo – l’azione omicida di chi punisce in nome di Dio. Ma anzi palesemente vile e – ancor peggio per questi «ego» indigenti che hanno bisogno di essere surriscaldati – insignificante. Sono persone «a rota» di senso, cercano una trascendenza violenta che li consacri eroi/martiri, ma se l’irrisione blasfema e sacrilega diventa ordinaria quanto dare del «con» o etichettare di «connerie», anche l’azione per punire chi tali banalità pronuncia perderà ogni «aura» e non varrà più la candela.

Se invece la profanazione resta socialmente sconveniente o addirittura tabù (come negli Usa), i pochi saranno un bersaglio e diventeranno sempre meno, perché cittadinanza non può implicare eroismo, non c’è bisogno di scomodare Brecht, e infine il terrorismo avrà vinto anche rinunciando a esercitarsi.

Il terrorismo trionfa quando può fare a meno della violenza, quando la sola minaccia basta a terrorizzare, a ottenere lo stesso risultato (così le mafie).

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«L’ipocrisia è un omaggio che il vizio paga alla virtù». La fila dei potenti che per breve tratto hanno sfilato nella gigantesca manifestazione parigina di «Je suis Charlie» costituiva un monumento rochefoucauldiano che più quintessenziale non si può. Un terzo di loro governa praticando attivamente la persecuzione contro giornalisti, scrittori, blogger e ogni altra forma di dissenso dalle verità di regime. Gli altri difendono la libertà di espressione secondo alchimie di circostanza, ma che vivano il volterriano «disapprovo quanto dici ma difenderò alla morte il tuo diritto di dirlo» (che non è di Voltaire, ma una sintesi della sua biografa Evelyn Beatrice Hall) in quella schiera solennemente compunta non si è mai visto.

Eppure, non condividendo le idee di Charlie Hebdo e quasi sempre detestandole, hanno dovuto assoggettarsi almeno per un giorno alla impegnativa identità repubblicana di «Je suis Charlie». Tradirla (lo faranno, state certi: più o meno, ma lo faranno, e anche in fretta) sarà d’ora in avanti un poco più difficile: l’ipocrisia dovrà pagare un prezzo più alto.

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La sagra dell’ossimoro (senza poesia) continua. Dopo l’ateo devoto Giuliano Ferrara abbiamo ora il liberal papista Eugenio Scalfari, che nella consueta omelia domenicale su Repubblica (18 gennaio) a proposito del «pugno» cui Bergoglio istiga contro chi insolentisce «la mamma» scrive: «Il pugno dovrebbe essere — credo io — una norma che vieti e punisca chi si prende gioco delle religioni». Alleluja!

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Se i governi non garantiscono i laici nel loro diritto alla critica, anche quando risulti offensiva ai credenti di ogni risma, non pochi (i meno accurati nell’esercitare ogni giorno discernimento illuminista) finiranno per ascoltare sirene antislamiche (visto che generalmente a punire con la morte i blasfemi sono credenti islamici): anche tanti fedeli «moderati» del Profeta ripetono il ritornello che «non si deve offendere ciò che è sacro», dunque li vivo come potenziale minaccia (e in effetti lo sono, perché la tiritera funziona da brodo di coltura).

Ma come possono i governi garantire che il diritto alla critica, anche se risulti offensiva per chi la subisce, non metta chi la pronuncia in pericolo (dovrebbe essere l’abc della sicurezza, il primo dovere di un governo)? Con tutte le politiche di integrazione, welfare, scuola eccetera, che qui non si possono articolare, ma parallelamente e instancabilmente condannando senza se e senza ma l’idea corriva di libertà religiosamente castrata che papa Francesco sta rendendo egemone con i suoi modi da compagnone accattivante.

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Assordante silenzio su una circostanza clamorosa: per volontà delle famiglie (sostenute da gran parte delle comunità ebraiche di Francia) il funerale delle vittime del supermercato kosher di Parigi si è svolto a Gerusalemme. Uno schiaffo esplicito alla République, una dissociazione plateale dalla gigantesca manifestazione che ne ha incarnato lo spirito. Inutile nascondersi che lo schiaffo colpisce tanto la Nation quanto la Laïcité, che in Francia fanno ancora (per fortuna) corpo unico.

Perché il silenzio o comunque la sordina? Per paura di passare per antisemiti? La colpa del governo nel non aver garantito la sicurezza dei suoi cittadini, anche quando notoriamente obiettivi potenziali del terrorismo islamico (perché atei bestemmiatori come Charlie o ebrei praticanti come chi osserva le prescrizioni della kasherut), è clamorosa e imperdonabile, ma svolgere i funerali a Gerusalemme è un gesto di «exit» che suona dissociazione dalla comune cittadinanza repubblicana, e pratica teorizzazione che quella ebraica è l’identità che viene prima, sentita come la veramente propria.

In questo modo («exit»), però, si regala la titolarità della République al governo, anziché rivendicarla in critica – esplicita o implicita – dell’establishment, come avvenuto con la gigantesca manifestazione di domenica 11 gennaio.

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Identità, identità: tutti la cercano, tutti la vogliono, tutti la idolatrano. «Non abbiamo difeso abbastanza la nostra identità e i nostri valori» è la giaculatoria d’ordinanza delle destre che ormai ha saturato anche quella che un tempo si chiamava «sinistra». Dopo la strage degli atei libertin-libertari di rue Nicolas Appert 10 (alquanto estranei al «gregge» cristiano), la frase ha berciato da ogni schermo italiano soprattutto attraverso il dilagare catodico-botulinico dell’onorevole Santanchè. A cui nessuno ha posto l’altolà minimo della decenza: nostra e nostri, di chi? A parte l’uso dello stesso idioma italiano (praticato comunque assai diversamente) l’onorevole Santanchè e il sottoscritto, ad esempio, non hanno nulla, ma proprio nulla, ma nulla-di-nulla in comune. Né valori né identità. E così ho la ragionevolezza di presumere per la gran parte dei cittadini dello stivale.

Non la Patria, che per chi sia davvero cittadino italiano vuol dire, da circa settant’anni, essere-insieme attraverso la comune Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza antifascista (per questo è festa nazionale il 25 aprile, giorno per il quale il messaggio del Clnai «Aldo dice 26×1» ha dato l’ordine dell’insurrezione generale).

Non la giustizia, che per essere tale deve essere garantista/giustizialista (si scelga pure la prospettiva che si preferisce) esattamente nella stessa misura tanto per il più diseredato dei cittadini quanto per il più grufolante di ori e privilegi (Cucchi come Berlusconi o viceversa, insomma: d’accordo, onorevole Giovanardi?). Non le radici europee, che se parliamo di Europa democratica vengono messe a dimora con eresia e scienza, con Galileo e Spinoza, e attecchiscono con i Lumi, insomma con tutto ciò che la Chiesa mise all’indice, in ceppi, sul rogo, e i rabbini fulminarono di µrj (cherem, l’anatema ebraico: «escludiamo, espelliamo, malediciamo ed esecriamo»). E mi fermo qui: per carità cristiana (secondo la quale «difficilmente un ricco entrerà nel Regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello…», Matteo 19, 23-4).

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Dany Cohn-Bendit ha detto che «erano il top della satira francese. […] Charlie Hebdo in un anno ha ricevuto dodici denunce per vilipendio del papa e di Gesù, e solo una da parte degli islamisti radicali. Il loro motto era: siamo radicali e facciamo caricature di tutti. […] Il direttore Charb, ammirevole. Avevano uno spirito di contestazione libertario, che non si fermava di fronte a nulla». Sacrosanto. Pochi anni fa, però, quando altre vignette di Charlie Hebdo avevano scatenato manifestazioni violente di fanatismo islamico, era stato ancor più tranchant: «Charlie? Moi, je les trouve cons! Il sont maso, surtout. Ils doivent aimer se faire mal, ce la manière dont ils font l’amour, je crois aussi» 2. Errare umano, perseverare diabolico, lo sappiamo tutti, ottimo quindi che Cohn-Bendit non abbia perseverato nelle sue presuntuose conneries del 2012. Tuttavia quando si migliora attraverso un revirement di 180 gradi, quasi una conversione, è opportuno spiegarsi (anche con se stesso), perché se è solo sull’onda dell’emozione un’emozione successiva e opposta potrà far tornare ai vecchi giudizi «diabolici». L’aberrazione del 2012 nasceva infatti da categorie assai diffuse in certa sinistra, che scambia riformismo con comunitarismo e per nemesi della storia ripropone lo staliniano «il ne faut pas désespérer Billancourt» nel politically correct del «non bisogna offendere l’islamico umiliato-e-offeso», anche a costo di opprimere la libertà di critica. Pregiudizi che vanno perciò riconosciuti, tematizzati, sradicati, altrimenti continueranno a lavorare come attive sinapsi di una «sinistra» in deriva oscurantista.

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All’uso dei kalashnikov si sono addestrati in Siria o altri campi di Is o al-Qa‘ida. Ma il desiderio di andare in quei campi per prepararsi al terrorismo dei martiri lo hanno maturato nella società civile, nella politica, nelle istituzioni delle democrazie occidentali, di cui spessissimo sono cittadini a tutti gli effetti. Qualche imbecille cui non basta neppure il fascismo dei Le Pen (post, soft, quello che volete: in filigrana sempre il fascismo si legge, per chi ha occhi per vedere) ne trarrà la conclusione che quella cittadinanza non andava data (magari è di terza o quarta generazione!).

Al contrario, invece: poiché sono cresciuti nella nostra lingua, nei nostri quartieri, nelle nostre scuole, con la nostra televisione, sarà meno imbecille se ci domanderemo seriamente quali contraddizioni, quali inadempienze, quali tare vi siano nei nostri quartieri, nella nostra scuola, nelle nostre televisioni. Quali e quante promesse non mantenute e menzogne sempre più sfacciate impregnino le nostre «democrazie», dove la sovranità di-tutti-e-di-ciascuno ormai non è neppure belletto ma quotidiano cachinno con cui l’establishment del kombinat politico-finanziario-corruttivo ci sberleffa e oltraggia. «Democrazia» sempre più tra virgolette, terra desolata saturata di frustrazioni, pronta per il cortocircuito con una fede da Dio degli eserciti, che offra senso, e grandioso, a esistenze altrimenti nientificate.

Eppure abbiamo promesso eguale diritto al perseguimento della felicità. Se pensiamo che sia retorica abbiamo sbagliato i conti. Quello che si mette nel patto fondativo verrà prima o poi chiesto in riscossione, con più spietatezza della libbra di carne dello Shylock di Shakespeare. È la democrazia, bellezza.

Dunque si tratterà di mettersi all’opera per realizzarla. Ma poiché già la sovranità eguale, e tanto più con l’eguale diritto al perseguimento della felicità, non può darsi che come approssimazione, tale approssimazione dovrà essere asintotica, un impegno costante, infaticabile: ogni défaillance sarà un regalo a ogni fanatismo, che lievita sulla nostra incoerenza.

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Ebraismo, cristianesimo, islamismo non stanno sullo stesso piano rispetto alla modernità e alla democrazia.

Sia chiaro, il jihad c’è già tutto nel Libro ebraico (Jahve Zebaoth, Dio degli eserciti), e quanto al cristianesimo fanno fede le crociate. L’odio per la democrazia di cui trasuda il Sillabo (1869, l’epoca dell’unità d’Italia) è ancora più che diffidenza in Pio XII 1944, radiomessaggio di Natale (la democrazia è «sana» solo se «fondata sugl’immutabili princìpi della legge naturale e delle verità rivelate», insomma se teocraticamente cattolica!).

Resta il fatto che ebraismo e cristianesimo, per le persecuzioni il primo e obtorto collo (anzi obtortissimo) il secondo, siano dovuti venire progressivamente a patti con lo stratificarsi di libertà (plurali) che ha visto maturare la democrazia nell’orizzonte della modernità: dal disincanto della sinergia di eresia e scienza e dalla formula di Grozio «etsi Deus non daretur» con cui l’Europa evita l’incombente harakiri delle guerre di religione.

L’islam no. O almeno, ma fin qui certamente, non ancora. Che possa avvenire non si può escludere per via ontologica, per loro natura le religioni possono evolvere in tutto e nel contrario di tutto, mentre i rispettivi teologi dimostreranno come si tratti solo di continuità, e del resto il Corano è sincretismo di ebraismo orecchiato e di cristianesimo in una versione condannata per eresia (ma all’epoca di Maometto uno dei tanti e conflittuali cristianesimi).

Oggi però l’islam riformato e secolarizzato è pressoché introvabile, nasconderselo è colpevole cecità. Peggio: è la consapevole ipocrisia degli establishment occidentali a cui interessa in primo luogo che con gli interlocutori islamici in comune vi sia la suprema religione di Mammona, il Dio denaro che presiede al petrolio e alla Borsa. Ecco perché non hanno mai appoggiato nessun conato di islamismo riformato.

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Di che cosa sono nemici i terroristi islamici? E dunque chi esattamente sono? Dell’apostasia, della bestemmia, di chi viola la shari‘a, ma altrettanto di ogni islamismo diverso dal proprio (sunniti vs sciiti eccetera). Spesso tali criteri si sovrappongono più o meno parzialmente, comunque nemici e identità danno luogo a una varietà di configurazioni. Che rende ridicola la categoria «mode­ra­ti/e­stremisti» in cui si ostina la pigrizia dei media occidentali di establishment. In Arabia Saudita la shari‘a viene praticata alla lettera e con coreografia mostruosa, ma all’Occidente del potere va benissimo così. In realtà il terrorismo islamico è strumento di lotta tra gruppi islamici per l’egemonia sull’intero mondo islamico, e l’Europa è diventato un campo di battaglia sempre meno periferico di questa guerra d’egemonia, che ha il suo epicentro nell’espansione territoriale del califfato.

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La compatibilità dell’islam con la democrazia si gioca sul terreno dell’accettazione (che oggi è rifiuto) della secolarizzazione, cioè della separazione tra religione e politica. Con una conseguenza e un paradosso.

La conseguenza: la democrazia non si riduce al voto di maggioranza, tanto è vero che ci può essere una «democrazia» islamica con elezioni perfettamente democratiche ma dentro l’endiadi Costitu­zio­ne/ Corano. Di più: ci sono state vittorie elettorali della teocrazia annullate «manu militari», in Algeria e altrove. La sovranità democratica non è la regola della maggioranza, che ne costituisce la tecnica essenziale ma non l’essenza, la sovranità democratica è, prima ancora, rispetto dei princìpi che rendono effettivo «una testa, un voto», e che sono assai più esigenti, sotto il profilo egualitario e libertario, di quanto non pensi la vulgata liberaldemocratica.

Il paradosso: la condizione fondamentale perché l’islam sia compatibile con la democrazia, la secolarizzazione, è quanto pezzi importanti di establishment occidentale hanno combattuto e ancora combattono, utilizzando a piene mani la «volontà di Dio» (il Dio cristiano) nelle loro campagne elettorali, rifiutando di esiliare Dio (ogni Dio) dalla sfera pubblica. Inventandosi una «laicità positiva» che castra la laicità, che fa acqua sul versante sia della logica sia della politica. Acqua, ma ora succube del sangue.

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Negli Usa puoi proclamare il tuo nazismo ai quattro venti, finché non passi all’azione sei intoccabile. Insomma, fino a che non metti su il tuo forno crematorio privato e la tua doccia a gas in cui ammazzare cittadini «semiti» (secondo il tuo criterio razziale, magari sono atei da generazioni) puoi predicare i meriti del Mein Kampf e del Führerprinzip. In compenso, la satira antireligiosa è considerata talmente intollerabile che l’intero mondo dei media neppure si pone il problema se darvi spazio o meno, la censura a priori (tranne eccezioni di nicchia). Eppure per combattere il nazismo sono morti milioni dei «loro ragazzi», dalla spiagge della Normandia a quelle di Anzio e della Sicilia (oltre che migliaia di donne e uomini della Resistenza). Contano meno della suscettibilità di Dio, evidentemente.

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Di identità abbiamo bisogno per vivere. Praticamente come l’aria e il pane. Delle due l’una, perciò: o la democrazia consente a ciascuno di noi di vivere come identità propria la condizione della cittadinanza, esistenzialmente appagante e comunque più significativa di ogni altra appartenenza, o ciascuno cercherà identità vicarie, dalla curva sud alla guerra santa in nome del Profeta. Tanto più verranno inseguite, e più radicali, quanto più grande è lo scarto tra promessa e realtà.

Perché ciascuno possa vivere la cittadinanza come la propria identità è indispensabile che essere cittadino significhi esercitare effettiva sovranità con gli altri perché eguale agli altri. Se ne vedono indizi, che vadano oltre il simulacro, nelle democrazie realmente esistenti? Ogni agire politico che non operi per l’eguale sovranità, oggi introvabile, porta già con la semplice omissione il suo vaso alla Samo delle appartenenze, che minano la comune Res Publica.

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Se si ammette che Dio possa avere dimora nello spazio pubblico, come «argomento» per statuire le leggi, non si può poi pretendere che sia il Dio che piace a noi: vale qualsiasi Dio, qualsiasi sia la Sua Parola. Solo l’esilio di Dio dalla scena pubblica è la premessa (necessaria ma non sufficiente) perché le leggi nascano da un dia-logos di argomenti anziché dal «perché sì» di narcisismo tossico che si nasconde dietro ogni «volontà di Dio».

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Lo spazio pubblico è lo spazio dei cittadini, di coloro che argomentano a partire da elementi comuni: i fatti accertati, la logica, i valori costituzionali della democrazia repubblicana che fondano il comune essere-insieme come cittadini. Il di più viene dal demonio: se nello spazio pubblico è legittima la parola di Dio, non sarà più spazio di civile dia-logos ma arena di ordalia, scontro tra «argomenti» di fedi dove il più forte si assicura il «giudizio di Dio». Logica incompatibile con democrazia e cittadinanza.

Solo se Dio (cioè chiunque pretenda di parlare in Suo nome e riferirne Legge e Volontà) viene tenuto fuori dallo spazio pubblico, custodito nel privato delle coscienze, la democrazia è al riparo dalla tentazione di virare a ordalia.

Ma il culto di ogni religione per essere libero deve essere pubblico. Come fare dunque che un culto pubblico non interferisca con lo spazio pubblico, dell’agorà deliberativa, tale solo se affidato esclu­sivamente all’argomentazione, ad esclusione quindi di ogni «volere di Dio»?

Solo se il rifiuto dell’interferenza politica di qualsiasi «legge di Dio (massime in bocca a un «clero») assume l’automatismo del tabù, diventa una «seconda natura», almeno come per antropofagia e incesto. Il prete, l’imam, il rabbino, dicano pure al fedele cosa deve e non deve fare per guadagnarsi la vita eterna, ma mai pretendano che tale prescrizione possa imporsi erga omnes attraverso quel braccio secolare che è la legge. Mai. Anzi, nel proibire al fedele il peccato mortale gli rammentino che il diritto al peccato deve essere rispettato negli altri, che non mirano alla vita eterna o la ritengono raggiungibile diversamente.

Se questo sembra un «giogo» troppo pesante non ci si meravigli poi se qualche fedele cristiano considererà l’esecuzione di un peccatore mortale gesto veniale (o addirittura di giustizia) rispetto al «genocidio del nostro tempo» (così Ratzinger e Wojtyła) cui partecipa il medico abortista. E qualche fedele musulmano altrettanto doveroso mandare all’inferno anzitempo chi insulta il Profeta.

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Nella capitale della Cecenia un milione di cittadini islamici manifestano contro le vignette di Charlie Hebdo e pretendono che i governi occidentali mettano al bando il sacrilegio. In molti altri paesi islamici non si arriva al milione, ma le dimostrazoni di massa si moltiplicano. Del resto era avvenuta la stessa cosa nel 2006, sempre a causa di vignette (e le democrazie con la memoria corta sono già per questo di fibra debole). Non tutti i credenti in Allah sono fanatici, ça va sans dire, ma nelle banlieues di Francia, nelle periferie italiane, tra le minoranze di origine turca in Germania, nelle comunità islamiche inglesi (dove tribunali di shari‘a applicano il relativo diritto familiare con la benedizione del vescovo di Westminster), liberalmente parlando, le cose vanno davvero molto meglio?

Sono gli insegnanti dei beurs e i sociologi sul campo a dire che strati assai cospicui di giovani francesi di origine magrebina, che si erano costruiti un’identità «etnica» come reazione all’emarginazione sociale, trovando magari nel rap la loro «religione», sono in calorosa sintonia emotiva con la pretesa clericale di ostracismo al sacrilegio: postmoderni sempre più sensibili agli imam premoderni.

Che si tratti, in Europa, in Cecenia, nel mondo arabo, di masse di «umiliati e offesi» della cui povertà, emarginazione, sofferenza, gli establishment occidentali (e i cittadini che li hanno legittimati, ovviamente) portano colpa, dovrebbe essere motivo di rivolta democratica contro questi establishment, non di acquiescenza, neppure la più soft, verso la teorizzazione (con cui gli establishment al dunque vanno a nozze) che il bando all’offesa del Profeta sia il doveroso risarcimento simbolico per le umiliazioni sociali loro inflitte. La povertà, l’ingiustizia sociale, l’oppressione, vanno combattute socialmente, non raddoppiate con nuove oppressioni clericali contro la libertà di critica (di empietà), alibi per continuare a calpestare socialmente i diseredati.

Eppure c’è tanta «sinistra», magari «più a sinistra», che non ci arriva.

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La libertà empia, la libertà senza autocensure, era diventata un principio di nicchia, ora la più grande manifestazione in Francia dai tempi della Liberazione, e i potenti della terra costretti per ipocrisia a parteciparvi, la ricollocano al centro della vita pubblica democratica.

La macchina mostruosa del terrorismo (mostruosa anche perché ormai metastatizzante), che aveva colpito le due torri, ha considerato Charlie Hebdo l’emblema del Satana occidentale, dei valori occidentali, delle libertà, rendendogli inconsapevolmente il più grande, anche se mostruoso, omaggio. I troppi cittadini che affatturati dalle ipocrisie mediatiche d’establishment stanno via via prendendo le distanze dal «Je suis Charlie» non si rendono conto che stanno addentrandosi nelle sabbie mobili della «servitù volontaria».

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Chi dice che in fondo erano solo vignette, e anzi inguardabili, ed effettivamente lurida blasfemia, si illude se pensa che per critiche meno «indecenti» il fanatismo si addolcirà in tolleranza. Fanatismo che purtroppo da anni è ideologicamente condiviso (non nel suo agire violento, beninteso!) da organizzazioni per i diritti umani accreditate in ambito internazionale. Come Gherush92, che ha seriamente chiesto, durante conferenze mondiali contro il razzismo, la messa al bando delle cantiche dantesche dedicate a Maometto, agli omosessuali (omofobia!) e ai versi in cui padre Dante usa il termine «giudeo». Mentre minacce contro l’affresco di San Petronio a Bologna, che illustra le pene dantesche per Maometto, erano già venute anni fa (si sono rifatte vive in questi giorni).

Anni fa, del resto, la Deutsche Oper Berlin soppresse la produzione dell’opera mozartiana Idomeneo perché, nella versione riadattata e messa in scena dal regista Hans Neuenfels, una scena mostrava le teste decapitate del profeta Maometto, di Gesù, di Budda e del dio greco Poseidone. Mentre l’Europa democratica ha già dimenticato l’assassinio di Theo van Gogh da parte di un «giustiziere dell’islam» che ha trovato blasfemo il suo cortometraggio Sottomissione.

La lista del passato sarebbe lunga, oltre che vergognosa. Ora la Oxford University Press (non è omonimia, si tratta proprio dell’università nata oltre un millennio fa, quella di Wyclif, Guglielmo di Occam, Bacone, Swift, Hobbes, Wilde, Shelley) ha deciso di proibire nei suoi cataloghi qualsiasi libro che menzioni il maiale e la carne di maiale. «Vade retro Peppa Pig!» allora e tanto per cominciare. Progresso occidentale.

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Gli ateniesi per empietà condannarono a morte Socrate, ma nelle Rane di Aristofane Eracle e Dioniso (v. 236: «da tempo il mio deretano è in sudore e presto curvandosi dirà…»: è la cosa più lieve!), due tra le massime divinità greche, si scambiano empietà e oscenità, sghignazzano sull’Ade, sui Misteri e su ogni aspetto del Sacro. Della morte di Socrate i suoi concittadini dovettero pentirsi presto, della libertà di blasfemia mai. Potremmo passare a Rabelais. E ad altri grandi. Questa è l’identità occidentale.

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La libertà deve essere eguale, altrimenti è privilegio. La libertà di ciascuno ha il limes – confine invalicabile – nell’eguale libertà dell’altro. Assoluta è solo la libertà di fronte alla quale gli altri sono sudditi. La libertà eguale non può dunque, per sua natura, essere illimitata. Ma quali sono i limiti della libertà eguale? Poiché al di qua di tali limiti, ogni limitazione sarebbe vulnus inguaribile alla libertà stessa.

Il razzismo nega alla radice l’eguale dignità degli appartenenti al genere Homo sapiens, perché rende addirittura impossibile argomentare qualsiasi libertà. I fascismi sono i regimi recentissimi che, in coerenza assoluta con la loro ideologia, hanno fatto strame di tutte le libertà democratiche (a differenza dei comunismi che tali libertà hanno negato contraddicendo quanto proclamato).

L’esaltazione del razzismo e dei fascismi non può dunque far parte della libertà d’espressione 3.

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Dice papa Francesco, ormai – ahimè – l’unico leader globale occidentale: «Non si può provocare, non si può insultare, non si può prendere in giro la fede degli altri». Facciamo bene attenzione, perché questo è l’argomento che sta diventando egemonico nelle democrazie, malgrado (e contro) i milioni di francesi che hanno sfilato gridando: «Je suis Charlie». E che le mette a repentaglio.

Se la libertà di ciascuno deve fermarsi dove comincia l’eguale libertà dell’altro, non può essere consentita la libertà di offendere ciò che per qualcuno è sacro. Libertà di critica sì, libertà di offesa no. Sembra un sillogismo, ma è una fallacia, una conclusione abusiva che nega la logica, oltre che la libertà.

Per cominciare: chi decide cosa sia critica e cosa sia offesa? Wojtyła e Ratzinger hanno tuonato in ogni enciclica che l’illuminismo, con la pretesa di rendere l’uomo autos nomos (legislatore di se stesso, anziché ricevere la legge da Dio), è la causa e la radice dei totalitarismi del secolo scorso, poiché ha aperto la strada alla pretesa smisurata della sovranità (senza la quale la democrazia non è neppure pensabile, però!) e dunque al baratro del nichilismo di cui nazismo e stalinismo saranno il prodotto. «Dal frutto conoscerete l’albero…» eccetera. Cosa c’è di più insultante per ciascuno di noi? Cosa c’è di più fanatico che imputare lager e gulag a Voltaire e Hume? Cosa c’è di più oltraggioso per la democrazia?

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Non basta. Molti credenti immaginano che gli atei, privi di fede, siano spiritualmente meno ricchi. Se non lo pensassero, del resto, non prenderebbero sul serio la fede, che è il dono incommensurabile, poiché ne va della salvezza eterna. Noi atei siamo esistenzialmente menomati, poiché incapaci di attingere il trascendente (anche di questo nelle encicliche si trova traccia).

Potrei sentirmi offeso di essere considerato un minorato spirituale, esattamente come un credente può sentirsi offeso della mia fermissima convinzione che ogni religione sia superstizione: la presenza reale, corpo e sangue, di un profeta ebreo giustiziato sotto l’imperatore Tiberio, in pochi grammi di impasto di acqua e farina, è stravaganza – offensiva per la ragione – più allucinante che credere a oroscopi, congiunzioni astrali e fattucchiere. E storicamente assai più pericolosa, come secoli di crociate, roghi e notti di san Bartolomeo ci ricordano.

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Se il criterio dell’offesa diventa il paradigma della libertà, a decidere sarà la suscettibilità. Ma la tua libertà trova un limite nella mia eguale libertà, non nella mia suscettibilità, per definizione soggettiva e presso ciascuno diversa. Io sono libero di irridere la tua fede, perché con il mio scherno non ti impedisco affatto di praticarla, e tu resti libero di irridere le mie convinzioni, ma non puoi impedirmi di praticarle, benché la tua sensibilità le viva come offensive: libertà simmetrica.

Diversamente, non solo ogni credente diventa titolare di un diritto di censura, ma a decidere dei limiti della libertà sarebbero alla fine i fondamentalismi di ogni confessione. Non è un paradosso. Si ragioni freddamente: una volta accettato il divieto dell’offesa per ciò che è vissuto come sacro, tanto maggiore sarà la suscettibilità del credente e tanto più ampia la sfera delle espressioni che per lui costituiscono non solo offesa ma addirittura sacrilegio. Maggiore la suscettibilità (che è massima nel fanatismo!) e maggiore il diritto a far tacere gli altri, questo il risultato della logica che nelle parole di papa Francesco sembra così ragionevole di ecumenica tolleranza.

Più grave ancora: il criterio della suscettibilità, inerente alla categoria della «offesa», crea un meccanismo sociale che incoraggia la surenchère: più sono intollerante più ho titolo a far tacere, dunque vengo premiato in termini di potere se faccio lievitare il mio cruccio per la critica (naturale in ciascuno) dapprima in risentimento, poi in rabbia e infine in fanatismo, dando libera stura (anziché civile repressione) alla pulsione di onnipotenza che si annida in ciascuno di noi.

Non basta: se è giusto censurare ciò che offende ogni religione, a fare legge saranno l’ipersuscettibilità degli ebrei, dei cristiani, dei musulmani, ma anche ogni idiosincrasia dei testimoni di Geova, dei mormoni, di quanti adorano il Grande Manitù (tra i nativi americani c’è un bel ritorno alle radici), dei fedeli al Verbo di Scientology, e molto altro ancora. Tutto ciò che ognuna di queste fedi (comprese le loro varianti più integraliste, ovviamente) trova molesto diventa legittimo oggetto di anatema e ostracismo. Cosa resta della libertà di critica dopo questo bel rogo di libertà «offensive»? Ogni pretesa di Verità ha diritto di mettere il bavaglio a ciò che vive come ingiuria. Ma per centinaia di milioni di uomini furono sacri Stalin e Mao, e la «supremazia bianca» è dogma di fede del Ku Klux Klan: guai a chi li critica! La logica del «non si può offendere» è spietata, non consente un «on, off» secondo i propri comodi.

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Per le religioni non è provocazione solo la satira, può esserlo anche una legge democratica. Tale per centinaia di milioni di islamici quella francese sul velo, tale per milioni di cristiani quelle che in gran parte dell’Occidente consentono alla donna di abortire. Negli Usa ci sono stati (e prevedibilmente ci saranno ancora) omicidi di medici e infermieri che avevano garantito il rispetto della legge. Cristiani fanatici? Comunque cristiani, che si sentivano mortalmente offesi da quelle leggi. Ma non erano fanatici, bensì sommi pontefici, Joseph Ratzinger e san Giovanni Paolo, che hanno bollato l’aborto come «il genocidio dei nostri giorni», e dunque come SS postmoderne medici e infermieri che lo praticano, se le parole hanno un senso (e le parole di un papa sono macigni).

Francesco non ha solo sposato il divieto di prendere in giro ogni fede. Ha esemplificato che «se un grande amico dice una parolaccia contro mia mamma, gli spetta un pugno, è normale». Normale tra bulli e teppisti, o nel machismo d’antan. Ma il pugno di Francesco diventa kalashnikov nel fanatico islamico, come è stato revolver nel cristiano antiabortista. Se a decidere sul diritto di critica è la suscettibilità alla critica, la stessa suscettibilità ha diritto a decidere la pena.

Questa logica oscurantista mette in mano alla benevolenza del fanatico se il bestemmiatore della fede meriti un pugno, i mille colpi di frusta con cui nell’ignavia dell’Occidente l’islam moderato (sic!) dell’Arabia Saudita sta torturando a rate settimanali Raif Badawi, o la raffica di pallottole. Escalation di una medesima logica, che ha sentenziato: i blasfemi se la cercano. En passant, Francesco: e l’altra guancia?

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Una volta vissuta l’esperienza tragica dei fascismi, che hanno annientato le libertà, sarebbe assurdo, ai limiti del masochismo, che altre generazioni debbano rischiare nuovamente di «sortir de la paille les fusils, la mitraille» per riconquistarle nel sangue e nella sofferenza. Tenendo ben fermo che l’antisemitismo è razzismo, ma l’antiebraismo riguarda una religione (benché il nazismo abbia voluto farne l’amalgama) e l’antisionismo una politica.

Non si tratta, dunque, del «pas de liberté pour les ennemis de la liberté», poiché la praxis di Saint-Just ha dimostrato il pericolo che si occulta nell’accattivante frase. Si tratta del diritto/dovere dell’Europa di non dimenticare i morti e i calpestati che i fascismi (non «i nemici della libertà» in astratto) hanno coerentemente e strutturalmente prodotto a milioni, e impedire il brodo di coltura che può farne rinascere il virus. Con leggi ad hoc, e/o con un più efficace e onnipervasivo tabù morale e sociale: starà alle varie democrazie deciderlo. Quanto al resto c’è il codice penale che sanziona l’istigazione a delinquere, dunque all’omicidio (e massime al terrorismo), o la diffamazione, che deve essere però personale, non può riguardare idee e fedi.

Senza perifrasi, allora: la Repubblica laica e la «laicità» di Francesco sono incompatibili, e soprattutto tertium non datur. Tra l’illuminismo di massa di «Je suis Charlie» e la libertà papale di «je suis chaque religion», l’Europa deve scegliere. Aut, aut. Questa Kulturkampf è già in mezzo a noi.

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Se l’Europa non sceglie la strada libertaria, e non l’accompagna con l’impegno instancabile per l’eguaglianza sociale, si illude di potersi salvare dal fanatismo, perché ne avrà legittimato l’alambicco e alimentato la fucina.

L’eguale libertà deve esserlo anche materialmente, socialmente. Ma questo è l’altro capitolo dello stesso discorso – che troppi preferiscono ignorare.

NOTE

1 Questo blocco e il successivo sono apparsi, con modifiche minime, come commento di apertura sul sito www.micromega.net l’8 gennaio 2015 e tradotto su Libération.

2 «Charlie? Li trovo coglioni! E anzi masochisti. Gli piace farsi del male, probabilmente anche quando fanno l’amore».

3 Questo e i successivi 6 blocchi costituiscono, con differenze minime, soprattutto nella disposizione dei paragrafi, un articolo in uscita su Philosophie magazine il 19 febbraio.

(19 novembre 2015)



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