Je suis l’autre. Una storia d’amore
Mariasole Garacci
Visitando la mostra Je suis l’autre. Giacometti, Picasso e gli altri. Il Primitivismo nella scultura del Novecento, alle Terme di Diocleziano fino al 20 gennaio 2019, non dobbiamo aspettarci un resoconto puntuale dell’influenza esercitata sugli artisti del Novecento dai manufatti “etnici” o “primitivi” (vedremo quanto il campo definito da questi termini sia in realtà complesso). Piuttosto, l’evocazione di una storia d’amore attraverso alcune figure simboliche, presenze quasi magiche e testimonianze minori, ma non meno suggestive, di questa relazione. Un amore, però, eterogeneo, vissuto diversamente da ognuno degli artisti europei che attinsero al bacino dell’arte altra. Un amore di quelli che, talvolta, fanno idealizzare o trascurare di capire il loro oggetto, paghi della forza e dell’emozione suscitata dalla sua sola presenza. Dunque, a dispetto del titolo quasi rimbaudiano, un amore molto concentrato sul soggetto. E che non avrebbe potuto essere altrimenti, date le circostanze del primo incontro.
A parte il caso precoce di Gauguin, morto nel 1903 nella baia di Atuana a Hiva Oa (una ribellione al mondo e alle regole occidentali cui, forse, la successiva avventura primitivista non può essere comparata), si possono individuare diversi momenti di avvicinamento e scoperta: nel 1904, quando Kirchner, Heckel, Nolde, Pechstein –gli artisti insomma che di lì a poco fondarono Die Brücke– visitarono il Museo etnologico di Dresda, in un momento in cui si riscoprivano anche gli allucinati valori formali della xilografia tedesca e, grazie a Huysmans, il contorto antinaturalismo di Grünewald; nell’estate del 1905, quando un navigatore e mercante vendette a Braque una maschera mitsogo del Gabon; nel 1906, quando Vlaminck acquistò una maschera africana in un caffè vicino Parigi; o quando, nello studio di Derain, Picasso e Matisse videro una grande maschera fang acquistata presso lo stesso Vlaminck. Per arrivare a uno degli episodi più noti: nel giugno 1907, Picasso terminò Les demoiselles d’Avignon mentre, nello stesso anno, c’era stata la grande retrospettiva al Salon d’Automne dedicata a Cézanne, il cui influsso, insieme con lo studio della scultura romanica catalana e delle teste iberiche del IV-III secolo a.C. viste al Louvre, si mescolò in Picasso con la fortissima impressione ricevuta da una visita al Museo etnografico di Parigi, da collocarsi nella fase conclusiva delle Demoiselles: “Le maschere non erano sculture come le altre. Proprio per niente. Erano oggetti magici… erano delle armi”. Un apprezzamento estetico che sfociava nella fascinazione emotiva e persino superstiziosa, in un momento della vita di Picasso a Montmartre rievocato da egli stesso nel suo romanzo La négresse du Sacre-Coeur, ambientato appunto nel 1907-1908.
Come si è visto, luogo e occasione d’incontro con l’arte “primitiva” furono, per lo più, i musei etnografici e un collezionismo privato che dalla fine del secolo precedente si era diffuso a diversi livelli. Nella seconda metà dell’Ottocento, infatti, la sistematizzazione politica ed economica del colonialismo, sotto la spinta del capitalismo finanziario e dell’esigenza di penetrare nuove e illimitate risorse, comportò un crescente afflusso di oggetti raccolti da commercianti, funzionari coloniali, missionari e antropologi. Questi, di solito, ripartivano il frutto delle loro spedizioni tra i musei, che erano disposti a comprare o che avevano finanziato l’impresa, e la commercializzazione sul mercato privato, per esempio in occasione di aste volte a ricavare nuovi finanziamenti; ciò consentì di disporre sezioni museografiche dedicate o di fondare nuovi musei pubblici e privati -organizzati con criteri eterogenei e non sempre rigorosi-, oltre che la nascita di quello che divenne un settore merceologico specifico, promosso da rigattieri e proprietari di curio shops su fino alle gallerie più eleganti, passando per mercanti e intermediari.
In che modo, però, questi oggetti etnografici –così diversi, così estranei, così esotici; che non trovavano corrispondenza con le tradizionali categorie di giudizio artistico- entrarono nell’immaginario e nel panorama del pubblico occidentale? Come potevano essere assimilati all’interno di una cultura visiva strutturata e consolidata come quella europea? La domanda è importante, perché è qui che si annida il carattere del rapporto degli artisti con l’arte “primitiva”. Di oggetti che erano stati prodotti nell’ambito di culture straniere, probabilmente con scopi sociali e religiosi precisi, non si poteva dire con esattezza neanche in che posizione si collocassero nell’equilibrio tra espressione artistica e funzione, ammesso che in questo campo tali categorie estetiche fossero valide. Lo scarso corredo di informazioni con cui giungevano dai luoghi d’origine certamente facilitò la loro collocazione in uno statuto epistemologico debole e soggetto alla risemantizzazione -ciò che avvenne da parte degli artisti-, quando non a una mistificazione generata da un tipico etnocentrismo europeo o, nel migliore dei casi, a un inconsapevole pregiudizio derivato, se vogliamo, da una kantiana idea di “bello universale”. Ecco, a quest’ultimo proposito, cosa si legge in un saggio pubblicato nel 1894:
“La consonanza tra le creazioni artistiche dei popoli più rozzi con quelle dei popoli più istruiti si estende non solo in ampiezza, ma anche in profondità. Per quanto strane e inartistiche appaiano talvolta a prima vista le forme dell’arte primitiva, non appena le si esamina più da vicino, si scopre immancabilmente che sono improntate alle stesse leggi che governano anche le più alte creazioni dell’arte. E non solo i grandi principi estetici dell’euritmia, della simmetria, del contrasto, dell’intensificazione, dell’armonia, sono trattati dagli australiani e dagli eschimesi allo stesso modo degli ateniesi e dei fiorentini ma, come abbiamo ripetutamente dimostrato –soprattutto a proposito della decorazione del corpo- anche quei dettagli che di solito sono considerati il risultato del più capriccioso arbitrio, appartengono ai beni estetici comuni dei popoli più distanti dalla civiltà. Tale circostanza non è certamente priva di significato per l’estetica. La nostra indagine ha infatti dimostrato ciò che l’estetica ha sinora solo congetturato: e cioè che, almeno per il genere umano, vi sono condizioni universalmente efficaci per il piacere estetico e, di conseguenza, leggi universalmente valide per la creazione artistica”[1].
Ma torniamo alla risemantizzazione di questi oggetti da parte degli artisti che se ne innamorarono. Come accennato innanzi a proposito dei primi incontri con maschere e statue africane, questa passione è spesso da contestualizzare nell’ambito di una rivalutazione di momenti dell’arte del passato sfuggiti alla canonizzazione dell’arte “alta”: tecniche artistiche minori, arte popolare, arte del medioevo e arte antica pre- o post-classica (come, ad esempio, le statuette cicladiche). Se, ad esempio, si pensa agli esiti di tutta una linea della produzione picassiana, oppure a Brâncuși, o a certi pensieri di Giacometti, si può, diciamo così, chiudere idealmente il cerchio della fuga nel primitivismo affermando che l’esplorazione di questo vasto ed eterogeneo repertorio nutrì di nuova linfa anche la relazione con la stessa arte classica.
E, per converso, a proposito degli scambi in un senso e nell’altro che nei c
asi più felici sempre si verificano tra episodi e momenti della storia dell’arte e in generale della sensibilità umana, vale davvero la pena di fare un’ultima digressione ricordando la conclusione di un breve saggio di qualche anno fa, Futuro del ‘classico’ (Einaudi 2004), in cui Salvatore Settis scriveva: “Il ‘classico’ può e deve essere la chiave d’accesso a un ancor più vasto confronto con le culture ‘altre’ in un senso autenticamente ‘globale’ […]. Evocare l’altro-da-sé che è dentro di noi (il ‘classico’) può allora essere un passo essenziale per intendere le alterità che sono fuori di noi (le altre culture), se sapremo ripetere con piena consapevolezza le parole di Rimbaud: ‘Je est un autre’”.
Dunque, l’altro (e, in fin dei conti, se stessi) è ciò di cui si ha bisogno per liberarsi da una cultura che in quel momento a molti parve sovrastrutturale, esaurita, costrittiva; e l’altro (se stessi) è ciò che gli artisti cercarono in forme espressive subalterne o alternative che con il loro impatto onirico, allucinatorio e spaventoso consentivano di esplorare un livello primigenio, originario, in cui stati d’animo e visioni fluivano liberamente. Tutto un mondo non studiato scientificamente, ma mitizzato e usato. E che si estendeva non soltanto a un’alterità geografica o temporale, ma anche all’espressione infantile e all’arte dei malati mentali, dove le barriere formali non sono state ancora innalzate o sono ormai crollate.
All’inizio ci fu, certamente, la reazione degli artisti di fine Ottocento all’accademismo, che non consentiva più di viaggiare nell’angoscia, nel sogno, nei sensi. Viene qui in mente la riflessione di Agamben in L’uomo senza contenuto (Quodlibet 1994): quando l’artista smette di identificarsi con la materia narrata, con i contenuti, con la concezione generale del suo tempo (indipendentemente da quanto tormentato questo rapporto possa essere), ebbene, qui avviene una lacerazione, una scissione irreversibile. E’ quella morte dell’arte che Hegel aveva preconizzato. Si incrina l’identità tra il soggetto e la concezione in cui è immerso, che lega quello al “determinato modo di esposizione della sostanza, in lui stesso immanente”. L’arte non ha più una forma adatta, e neanche un contenuto: è in una impasse. O, meglio, è ora soltanto nella libertà totale del soggetto. E ciò, credo, a sua volta si può collocare in un momento già tardo di quel ritrarsi dai temi religiosi o morali verso la sfera dell’introspezione e dell’irrazionale, iniziato molto prima e descritto nella sua fase romantica da Giuliano Briganti ne I pittori dell’immaginario. Arte e rivoluzione psicologica (Electa Editrice 1977).
Un ritrarsi nelle regioni dell’inconscio e dell’espressione non mediata dall’Io, intraviste, si è già accennato, nell’arte dei folli e dei bambini, nel contesto della fede nel principio di Gestaltung (l’impulso innato in tutti gli esser umani all’espressione artistica fine a se stessa). Molti artisti guardarono con grande interesse ai disegni e alle sculture infantili: tra questi Kandinskij, Matisse, Klee, Larionov, Mirò, Jorn, Appel, e Dubuffet. A quest’ultimo, ma anche a Ernst e ai surrealisti, si attribuisce poi il costituirsi della cosiddetta art brut –o, come si definisce oggi, outsider art– in seguito a letture fondamentali per l’epoca come il volume Bildnerei der Geisteskranken, dello psichiatra e collezionista Hans Prinzhorn (pubblicato nel 1922). Con quelli che si ritenevano i caratteri dell’arte etnica -evidentemente non decifrati, a causa di quella risemantizzazione e mitizzazione su cui mi sono già soffermata-, l’arte dei folli e dei bambini sembrava avere in comune alcune peculiarità: una devianza, rispetto alla tradizione occidentale, dalla funzione sociale dell’arte; il simbolismo; la tendenza alla miniaturizzazione o alla megalizzazione; l’oscenità; la deformazione e l’ibridazione delle forme naturali. E, ancora, la tendenza a descrivere le cose analiticamente, abbandonando la sintesi di cui il linguaggio visivo, a differenza di quello verbale, beneficia.
Tutto questo era e resta estremamente importante, perché faceva vacillare il ruolo dell’artista nella società, la fede nella specificità dei suoi mezzi espressivi e dei suoi scopi, e dunque la sua “autorità”. Benché oggi, come giustamente osserva il curatore della mostra Francesco Paolo Campione, lo sviluppo delle scienze antropologiche e la consapevolezza della pari dignità delle culture umane abbiano messo “a nudo il meccanismo ideologico dell’esclusione, relegando per sempre in soffitta il ‘primitivo’ e tutti i suoi compagni di avventura a favore di nuove sensibilità e paradigmi intellettuali più complessi e articolati”, l’amore di artisti come Picasso, Matisse, Derain, Chaissac, Mirò, Kirchner, Ernst e altri fu, ad ogni modo, coraggioso e fertile (o, se si vuole guardarla dal punto di vista dello statuto dell’artista come “classe”, distruttivo).
La mostra romana è stata da alcuni criticata per la scarsità di opere di primo piano degli artisti contemporanei, di cui, è il caso di Picasso e Giacometti, sono in effetti presenti pezzi minori o meno noti. Mi pare, invece, che la mostra sia godibile (presenti, fra gli altri, Derain, Marini, Chaissac, Mirò, Arp, Kirchner, Ernst, Crippa, Scarpitta, Masson, Dubuffet, Baj, Braque, Manzoni, Richier, nonché l’incredibile opera sola di quel Francesco Toris degente nel manicomio di Collegno, realizzata nel 1905) e che svolga chiaramente la sua tesi, sebbene avrebbe potuto beneficiare, io penso, di prestiti da parte del Museo nazionale preistorico etnografico Luigi Pigorini, con vantaggio reciproco. Come di consueto per questa sede, poi, il prezzo del biglietto (12 euro l’intero) non consente la visita delle Terme di Diocleziano: ulteriore occasione mancata di tentare una sinergia nell’offerta culturale della città. Molto interessante il catalogo della mostra, specie per gli utili saggi e per l’antologia critica di testi originali di artisti, antropologi e saggisti.
Je suis l’autre. Giacometti, Picasso e gli altri. Il Primitivismo nella scultura del Novecento
A cura di Francesco Paolo Campione e Maria Grazia Messina
Fino al 20 gennaio 2019
Roma, Grandi Aule delle Terme di Diocleziano – Via Enrico de Nicola, 76
Orario: dal martedì alla domenica, dalle 9.30 alle 19.30 (la biglietteria chiude alle 18.30)
Catalogo Electa
MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.