Jean Arp, il pescatore di perle

Mariasole Garacci

Una mostra alle Terme di Diocleziano celebra uno tra i maggiori protagonisti della storia dell’arte del XX secolo, esponente del movimento Dada di cui ricorre quest’anno il centenario della fondazione nel 1916.

Le colline intorno a Verdun sono ancora oggi segnate dai crateri scavati dalle granate tedesche durante la Grande Guerra, nella spaventosa, infinita battaglia iniziata il 21 febbraio del 1916 e conclusa il 19 dicembre dello stesso anno. In primavera, quando gli alberi che vi sono stati piantati dopo la pace tornano verdi e sui campi cresce un’erba tenera, i crateri si riempiono di leggera acqua piovana e sembrano laghetti. Ma prima del rimboscamento e della bonifica, questo sembrava un paesaggio lunare o post-atomico. Per anni, i contadini che tentavano di tornare a coltivare quei terreni sono saltati in aria sulle mine inesplose, e la terra è rimasta infertile e avvelenata dal gas e dalle tonnellate di ferro scaricate dal cielo. In nove mesi di battaglia, morirono a Verdun circa settecentomila soldati francesi e tedeschi. Tra questi Franz Marc, artista tra i più rappresentativi dell’espressionismo europeo, che con Vasilij Kandinskij aveva fondato, nel 1911, Der Blaue Reiter, di cui fece parte Jean Arp.

E’ una memoria significativa perché, mentre quest’anno ricorre il centesimo anniversario della gigantesca carneficina (celebrato da Merkel e Hollande con una targa commemorativa), e Verdun diventa il set del nuovo gioco di Play Station 4, ricorre anche il centesimo anniversario della nascita di Dada, movimento fondato nel 1916 a Zurigo, dove nel pieno della guerra avevano trovato temporaneo rifugio molti artisti ed intellettuali europei tra cui Tristan Tzara, Marcel Janco, Richard Huelsenbeck, Hans Richter e lo stesso Jean Arp. Il 5 febbraio di quell’anno veniva inaugurato in questa città il leggendario Cabaret Voltaire, dove ebbe luogo la prima serata pubblica di Dada e Hugo Ball lesse il manifesto del movimento (nel 1918 riscritto da Tristan Tzara con alcune modifiche). A Zurigo Arp aveva conosciuto, l’anno precedente, Sophie Taeuber, adorata compagna di arte e di vita, che nelle folli serate del Cabinet Voltaire intervenne come scenografa, performer e marionettista, e che fu una figura fondamentale nella ricerca artistica del marito.

Hans (o Jean) Arp, alsaziano bilingue, partecipò a molte delle avanguardie artistiche europee che nel primo ventennio del secolo scorso, in rapida successione, presero vita e si esaurirono per dissidi interni o perché travolte dalla guerra e dai nascenti totalitarismi europei. Raggruppamenti e dichiarazioni di intenti effimeri nelle loro manifestazioni immediate, ma espressione di una ricerca estremamente vitale e di inesauribile portata fino a tutt’oggi, attraverso i quali Arp mantenne sempre una pacifica e coerente autonomia individuale, mai intaccata dalle appassionanti e talvolta violente polemiche che li caratterizzavano e opponevano. Amico di Max Ernst, Sonia e Robert Delaunay, Kurt Schwitters, Alberto Magnelli, Joan Mirò, Paul Klee, partecipò a Der Blaue Reiter a Monaco, al periodico Der Sturm, poi ai gruppi Dada di Zurigo e di Colonia, a Cercle et Carré, ad Abstraction-Création, e al surrealismo di André Breton nato all’inizio degli anni ‘20 dalle ceneri di Dada.

La mostra romana ospitata dalle Terme di Diocleziano propone una numerosa selezione di opere provenienti prevalentemente dalla collezione della Fondation Arp di Clamart in Francia (dove l’artista visse per molti anni e morì nel 1966) e dalla Fondazione Marguerite Arp di Locarno; sono presenti inoltre diversi prestiti dal Centre Pompidou di Parigi, dal Heinrich Gebert Kulturstiftung di Appenzel, dalla Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro a Venezia, e altri dal Musée d’Art Moderne et Contemporain di Strasburgo (città natale di Arp), dalla Collezione Intesa San Paolo di Milano, dal Museo d’Arte Moderna Pagani di Castellanza, e dal Musée de Meudon. E’ possibile percorrere l’arco cronologico di tutta la carriera di Arp, dagli inizi fino al 1965, attraverso quarantaquattro sculture in gesso, marmo, pietra calcarea, ottone, bronzo e Duralumin, e nove lavori tra gouache, cartoni dipinti, olii su tela e le sue note composizioni di forme lignee sovrapposte. E’ purtroppo assente, invece, l’opera grafica di questo artista.

L’allestimento della mostra, che ha riscosso reazioni diverse e perplessità tra il pubblico dei visitatori, è stato ideato da Francesco Venezia, architetto e docente che progettò la nuova Gibellina dopo il terremoto del 1968, recentemente intervenuto nel dibattito sul tema della ricostruzione dopo un sisma. Il carattere dell’allestimento di una mostra di scultura contemporanea nei vasti e spogli ambienti delle Terme di Diocleziano è sempre una scelta che fa parlare di sé, e che ha un ruolo evidentemente molto importante. In occasione della mostra di Auguste Rodin del 2014, avevamo visto il rapporto tra il non finito “michelangiolesco” dello scultore parigino, il nitore dei suoi marmi, e le alte e oscure volte laterizie del IV secolo d.C. filtrato dalle strutture in tubi Innocenti dell’argentino Didier Faustino, con la suggestiva impressione di trovarci in un grande atelier d’artista; nel 2015 gli imponenti e sensuali bronzi biomorfici di Henry Moore dialogavano direttamente con l’enorme spazio di queste aule antiche, mentre le strutture espositive restavano, per così dire, silenziose. Questa volta, si è scelto di rinunciare al dialogo con lo spazio circostante, creando uno spazio fittizio che finisce per camuffarlo, caratterizzato da strutture di legno che in qualche modo ricordano, ma in dimensioni maggiori, alcuni componenti dell’arredo interno della casa-atelier a Clamart. Un allestimento che soffre di un certo protagonismo, e che costringe a un affastellamento delle sculture, sistemate talvolta quasi a ridosso degli ingombranti espositori su cui sono disposte le opere di formato minore. La visione delle opere dai diversi punti di vista è, quindi, ostacolata dalla oggettiva mancanza di spazio per quanto riguarda le sculture più grandi, mentre per quelle poggiate sui ripiani si è privilegiata una disposizione che ricorda una sequenza irregolare di metope.

Una sezione che merita particolare attenzione è quella dedicata alla già ricordata Sophie Taeuber, di cui sono esposti diciotto lavori. Scultrice, pittrice, tessitrice, coinvolta in prima persona nel dadaismo zurighese e in seguito partecipe del costruttivismo di Cercle et Carré, Taeuber si espresse prevalentemente nelle cosiddette “arti applicate”, la cui distinzione dalle “arti maggiori” cominciava ad essere scardinata nel nuovo rapporto tra intuizione artistica, oggetto e vita totalmente rifondato dalla rivoluzionaria estetica dadaista. Un sodalizio, quello tra Taeuber e Arp (raccontato nel saggio in catalogo di Lea Mattarella), che influenzò profondamente quest’ultimo contribuendo a mantenerlo sempre in equilibrio tra la sorvegliata astrazione di lei e le seduzioni del surrealismo più onirico e irrazionale. “Scostavi le tue sfere intransigenti/ per cogliere un fiore/ risuonavi da un punto di luce”: sono versi scritti da Arp ricordando la moglie perduta accidentalmente nel 1943, in cu
i sembra di vedere quelle luminose geometrie, sospese come sfere musicali nello spazio siderale, composte negli anni ’20 da Vasilij Kandinskij, che nel lavoro di Taeuber dichiarava di avvertire “un senso affinato della misura”. In una poesia dedicata alla compagna, Arp scrisse: “Sophie sognò innumerevoli favole di cerchi”, con cui aveva immaginato “di trasformare il mondo, di semplificarlo, di abbellirlo”.

E alla poesia di Arp è dedicato, nel catalogo di questa mostra romana, un intervento di Andrea Cortellessa che ne delinea caratteri, fortuna e ricezione, a cui fa seguito la riproduzione dell’inserto Poesie di Hans Arp pubblicato nel 1961 su “il verri”. Arp non fu il solo tra i suoi compagni ad esprimersi sia con le arti visive sia con la poesia (si pensi a Duchamp, Picabia, Schwitters, Ernst, Dalì, Carrington, Savinio), ma ciò che merita particolare attenzione è, insieme alla sperimentazione linguistica e a quel fenomeno di permutazione di segni e significati tipici della poesia dadaista e di quella surrealista (toccate, ça va sans dire, dalle suggestioni della psicanalisi), la sostanziale uniformità di tematiche nei due linguaggi usati da Arp. Ad esempio, il recupero della dimensione infantile e delle favole tradizionali (forse eco dell’esperienza del Blaue Reiter) è rispecchiato nei due esemplari in mostra di Tête de lutin, dite “Kaspar” del 1930, e in una poesia in lingua tedesca del 1909, Kaspar is tot.

Affiora, qui, l’interpolazione onirica delle forme e dei significati: nel folklore della Francia settentrionale, il lutin era un folletto dal berretto rosso capace di cambiare forma, una creatura ctonia legata alle profondità della terra, quindi alla morte ma anche alle regioni più profonde dell’inconscio. Nel titolo di queste sculture lo si sovrappone a Kaspar Hauser, fanciullo misterioso e innocente, testimone del mondo della chimera, dell’irrazionalità, dell’irregolarità, come nella poesia Kaspar is tot (“Kaspar è morto”, e la memoria va alla poesia di Verlaine dedicata al “povero Gaspard”). Con il folletto Kaspar, è morta la nostra fantasia, il nostro legame di contiguità e affinità con il naturale. Si trova, nella poesia di Arp, un sentimento della natura irrazionale e sublime affine a quello del Romanticismo tedesco, ed è significativo che, in una serata del Cabinet Voltaire, Arp scegliesse di leggere un passo del diario di Albrecht Dürer, tra i padri del sentimento romantico della natura, che sembra un oroscopo della cifra stilistica dell’artista alsaziano: “Giacché veramente l’arte si cela nella natura, chi riesce a strapparla, la possiede”. Torna, ancora, il lutin, anima personificata della natura, di cui conosce e custodisce l’intimo segreto, e creatura metamorfica.

E’ qui che si trova un nodo fondamentale della scultura di Arp, la ragione di quel biomorfismo e continuo andamento germinativo delle sue creature (si pensi, per citare solo alcune opere in mostra a Roma, a Concrétion humaine del 1934, a Pépin Géant del 1937, a Croissance del 1938 e alla sua versione in bronzo del 1960) basato sul sentimento di una parentela nascosta, di una continuità tra le forme del naturale che esiste veramente, non è solo una forma interpretativa a posteriori prodotta dalla nostra intelligenza, e che fonda la parentela amorosa, da recuperare, tra noi e le cose della natura. "Nel contenente del naturale che è il mondo, infatti, la vicinanza non è una relazione esterna tra le cose, ma il segno di una parentela perlomeno oscura", scrisse Foucault a proposito delle forme della similitudine su cui si basava la lettura antica del mondo e, tra l’altro, la magia. Una vicinanza per cui gli occhi sono stelle, il sangue scorre nelle vene come l’acqua nei fiumi e nei ruscelli, come la linfa nei rami degli alberi. Convenientia, aemulatio, analogia, simpatia. I confini tra le forme e i viventi, così come tra i linguaggi e i piani di lettura, sono polimorfi, instabili e precari. Questa forse l’interpretazione da dare a una poesia di Arp del 1933, L’aria è una radice, che vale citare per intero perché rivela la poetica della sua scultura:

“les pierres sont remplies d’entrailles. bravo.

bravo. les pierres sont remplies d’air.

les pierres sont des branches d’eaux.

sur la pierre qui prend la place de la bouche

pousse une feuille-arête. bravo.

une voix de pierre est tête à tête et pied à pied

avec un regard de pierre.

les pierres sont tourmentées comme la chair.

les pierres sont des nuages car leur deuxième

nature leur danse sur leur troisième nez.

bravo. bravo.

quand les pierres se grattent des ongles

poussent aux racines. bravo. bravo.

les pierres ont des oreilles pour manger l’heure

exacte”.

Un amore per il mondo primigenio e pacifico della natura, che lascia Arp estraneo, ad esempio, alle metafore erotico-meccaniche e volutamente blasfeme di Picabia o del Duchamp di La Mariée mise à nu par ses célibataires, même, e che è invece legato al suo interesse per l’antichità, altro aspetto della sua ricerca. Non si tratta, ovviamente, dell’antichità classica che il Rinascimento e la tradizione accademica avevano elevato a canone normativo, ma di quella, ad esempio, delle statuette cicladiche, le cui forme si riconoscono in Squelette d’oiseau, scultura in gesso del 1947 che coniuga l’elemento naturale, in un certo senso la materia prima delle forme organiche (ossa animali come purificate e polite dalla sabbia e dal mare) con le forme di quest’arte arcaica. Tra natura naturans e antichità, poli e archetipi delle creature di Arp perennemente germinanti e metamorfiche, anche la figura umana, canone classico per eccellenza, è una forma del naturale in continuo divenire, una manifestazione del principio vitale, come potrebbe esserlo una nuvola: è il caso di Hommage à Rodin, bronzo del 1938, sensibile reminiscenza delle figure dello scultore parigino, e della scultura in pietra calcarea del 1950 intitolata Evocation d’une forme humaine, lunaire, spectrale.

Anche il racconto mitologico, che nella tradizione occidentale aveva raggiunto punte eccelse di virtuosismo (si pensi ad Apollo e Dafne di Bernini) tentando di rappresentare in termini fisici ciò che era contrario alle leggi naturali così come le conosciamo, viene trasfigurato e ridotto, per metonimia, al suo movimento, alla sostanza dell’episodio: in Ganymède del 1954, il rapimento in volo del giovane amato da Zeus è un moto d’aria circolare in rapida ascensione; in La poupée Demeter del 1961, Demetra è germoglio e spiga di grano che oscilla al vento. Per lo stesso procedimento di riduzione, il corpo adolescente di una kore greca è il fusto di un giovane albero in un Torse del 1961, e la relazione tra le figure ondulate di Les Trois Grâces è armoniosa e tenera come l’accordo tra queste tre divinità.

“Disegno ciò che riposa, si muove, sale, matura, cade. Modello frutti che riposano, nuvole che vagano e salgono, stelle che crescono e cadono, simboli della trasformazione eterna della pace infinita”. Forse non ci sono parole migliori di qu
este usate dallo stesso Arp per descrivere la sua arte. Così, nel Berger des nuages, grande bronzo del 1953, sembra di vedere un’immagine dell’artista stesso, che come Klee e Mirò fu generoso di incanti e di sogni, seppe nutrire e condurre in salvo, come il pastore fa con le nuvole nei campi del cielo, polimorfe bellezze, segreti, stelle, piume, lune e folletti. Le perle di cui andare a pesca in un mondo devastato dalla guerra, dal ferro e dal fuoco dell’uomo tecnologico.

Jean Arp

Museo Nazionale Romano – Terme di Diocleziano, Roma, ingresso Piazza della Repubblica

Fino al 15 gennaio 2017

Orario: tutti i giorni dalle ore 9.00 alle 19.30, chiuso il lunedì. La biglietteria chiude un’ora prima

Biglietti: intero € 10, ridotto € 8 per visitatori da 6 a 26 anni/titolari di apposite convenzioni/gruppi di almeno 15 persone, ridotto speciale € 5.50 perscuole/possessori biglietto Museo Nazionale Romano, area archeologica centrale, circuito Caracalla-Quintili-Metella/Touring Club/FAI

Mostra a cura di Alberto Fiz, catalogo Electa con testi di Alberto Fiz, Pietro Bellasi, Estelle Pietrzyk, Daniéle Cohn, Lea Mattarella, Andrea Cortellessa, Nanni Balestrini, George K.L. Morris.

http://archeoroma.beniculturali.it

(5 novembre 2016)



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