Jugoslavia, memorie del Paese che non c’è più

Angelo d’Orsi

Jugonostalgia. La parola indica quell’insieme di sentimenti, pensieri, e una profondissima disillusione, che si agita nel cuore e nella mente di chi ha conosciuto e amato quello strano capolavoro che fu la Jugoslavia di Josip Broz Tito, che, alla fine di un’aspra guerra di liberazione antifascista e antinazista, la rifondò sotto forma di Repubblica Federativa nel 1945, che poi, nel 1963, divenne Repubblica Socialista Federale. Un capolavoro in quanto il maresciallo Tito seppe dosare centralismo e autonomia, alle singole etnie, che oggi, dopo la distruzione della Federazione sono diventati altrettanti Stati, o micro-Stati, che si sforzano, tra dramma e farsa, di costruirsi una individualità.

Come si sa quel mosaico di culture lingue e religioni fu cancellato dopo la caduta del Muro, non tanto per una implosione interna quanto per effetto di interventi esterni, a cominciare dalla Germania di Kohl e dal Vaticano di Wojtila, che innescarono un processo decennale di conflitti, che insanguinarono popoli e famiglie, spezzarono ciò che era stato unito, frammentarono molecolarmente un Paese, misero padri contro figli, fratelli contro fratelli, mogli contro mariti.

Abbiamo ricostruzioni storiche, memorie personali, testimonianze che ci hanno fatto conoscere questa vicenda truce, uno dei frutti avvelenati del 1989; ma proprio la sua gravità e la sua complessità fanno sì che ogni nuovo contributo, quale che sia il suo registro (letterario, storiografico, politologico…), sia il benvenuto. Come questo testo – tra memorialistica e narrativa – di Dunja Badnjevič (Come le rane nell’acqua bollente, Bordeaux Edizioni, 2019, 159 pp.) che costituisce uno dei più dolenti e amari messaggi d’amore per la Jugoslavia, non scevro tuttavia di spirito critico, che nasce anche dall’esperienza binazionale dell’autrice, interprete autorizzata del governo jugoslavo in Italia.

Dunja finisce per entrare nel mondo del PCI, e stabilisce rapporti significativi con la dirigenza del partito, e anche con esponenti del mondo intellettuale di area comunista. Ne fornisce frammenti di memoria, che non mancano di aspetti interessanti, talora nuovi, spesso anche divertenti: come quella volta che Berlinguer ricevette i complimenti della delegazione jugoslava all’ultimo congresso del PCI (Milano, 1983), e l’aggettivo “emozionante” usato dal capo delegazione fu tradotto malamente dall’interprete, diventando “divertente”. Berlinguer ne fu molto sorpreso: “è la prima volta che mi definiscono divertente. Dovrebbero sentirlo quelli che mi dipingono sempre con la faccia lunga e luttuosa! Che bello!”.

Gli episodi narrati sono numerosissimi, lungo gli anni di interpretariato politico, un ruolo, e non solo un mestiere, che l’autrice ha svolto con crescente competenza, via via che la sua conoscenza della lingua italiana migliorava, vivendo se stessa come un ponte che collegava le due sponde dell’Adriatico, un collegamento tra i comunisti italiani e quelli jugoslavi, gli uni e gli altri anomali rispetto all’ortodossia russo-sovietica. In questa attività Dunja mise passione politica, oltre che impegno scientifico, e visse le vicende ora esaltanti, ora mortificanti di una storia di cui si sentiva parte: in sintesi, l’autoritarismo di Tito in patria, autoritarismo spesso dittatoriale, che lei aveva sperimentato da vicino, con la deportazione del padre spedito in quell’isola-prigione che era Goli Otok (la cosiddetta “Isola nuda”, su cui aveva pubblicato un bel libro, da Bollati Boringhieri nel 2008); ma anche la lungimiranza di quel leader in politica estera, con la scelta dei “Non allineati”, l’allontanamento dall’URSS, il che comportò anche una feroce repressione dei “filorussi”, ossia degli ortodossi del socialismo reale: tra i quali appunto il padre dell’autrice, un importante diplomatico, che era convinto che non si dovesse mai voltare la spalle alla “patria del socialismo”, la Russia, a qualunque costo.

La nostalgia per il proprio Paese, la Jugoslavia socialista, emerge anche nel confronto con l’Italia, le sue disfunzioni, su vari piani. La Jugoslavia era uno Stato che assicurava una buona istruzione, del tutto gratuita, ma severa; garantiva assistenza sanitaria e sociale; favoriva la diffusione della cultura, come dello sport: piscine e teatri erano assai diffusi; le librerie erano sempre affollate e si leggeva molto più che in Italia.

I viaggi di ritorno a Belgrado, la città natale della BadnJevič, negli anni più recenti erano altrettante pugnalate: tutto ciò che allora, sotto Tito, funzionava benissimo – dall’Università agli ospedali – ora era in rovina, o quasi; e si avvertiva nella società, un clima generale di sfiducia, di diffidenza, di latente conflittualità. Non tutto andava certo per il meglio fino al 1980, l’anno della scomparsa di quel padre della patria, e l’autrice sa tenere a bada il rimpianto governandolo con la fredda osservazione della realtà, quella di ieri, del passato socialista, comparata a quella di oggi, quando il capitalismo trionfa, a scapito di tutto e tutti. E la poesia del volontarismo nella illusione della costruzione del socialismo, riemerge, in squarci in cui si parla di politica, di sport, di teatro: una espressione tipica erano le Brigate del lavoro, in cui migliaia di giovani offrivano la loro opera nei campi più diversi, travolti dalla generosa utopia della edificazione della “patria socialista”, una patria multietnica in cui il socialismo, appunto, avrebbe favorito l’integrazione, salvaguardando le specificità dei diversi popoli del mosaico jugoslavo.

Le guerre degli anni Novanta, frantumarono definitivamente quelle speranze, o illusioni che fossero. E quel Paese fu distrutto, e ancora ci si chiede perché. L’auto-interrogazione dell’autrice sul Paese che non c’è più, ma anche sul partito che non c’è più assume nel finale un tono di profonda mestizia. “Provo nostalgia per le sicurezze che avevano i giovani una volta – la scuola, il lavoro, la casa, i figli, la pensione, la salute – e che oggi non esistono più. Per la certezza che un domani sarebbe stato migliore per i miei nipoti, più di quanto non lo sia stato per la nostra generazione. E invece accade tutto il contrario” (p. 131).

(13 dicembre 2019)





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