Karol Modzelewski, combattente per la libertà e l’uguaglianza e indimenticabile amico

MicroMega

Ricordiamo Karol Modzelewski, dissidente polacco che dal 1956 si è opposto da sinistra al regime, tra i fondatori di Solidarność, combattente per la libertà e l’uguaglianza e indimenticabile amico, morto ieri all’età di 81 anni, ripubblicando questo suo intervento uscito su MicroMega nel 2017.
CONFESSIONI DI UN CAVALIERE MALCONCIO: IL MARXISMO POLACCO DALL’OPPOSIZIONE ALLA RIVOLTA

Dalla rivolta del ‘56 alla ‘piccola stabilizzazione’ di fine anni Cinquanta, dai tentativi di cospirazione degli anni Sessanta fino al carcere: un affresco vivo ed emozionante di un protagonista della storia del dissenso polacco. In queste pagine, tratte dalla sua autobiografia inedita in italiano, Karol Modzelewski ci restituisce la passione politica, l’aspirazione alla libertà, l’ingenua ma testarda convinzione di poter trasformare il regime, e infine lo scontro.

di Karol Modzelewski, da MicroMega 7/2017

Una rivoluzione da correggere

I segnali della crisi politica del partito operaio unificato polacco (il Pzpr, in Italia noto come Poup) si manifestarono subito dopo la morte di Stalin e la caduta in disgrazia di Berija. Nella crisi ebbe un ruolo importante la fuga in Occidente del colonnello Józef Światło, che al ministero di Pubblica sicurezza era a capo della sorveglianza dei membri dell’élite del Partito. Anche se le sue rivelazioni, trasmesse da Radio Europa Libera, poterono essere rigettate come propaganda nemica dai membri ortodossi del Partito, in seno all’attivo centrale 1 del Poup furono prese molto seriamente e suscitarono una bufera durante l’assemblea del 29 novembre-2 dicembre 1954, nota in quegli ambienti come «rivolta di novembre». Informazioni sui contrasti in seno al Partito in merito al ruolo che il Servizio di sicurezza (Służba Bezpieczeństwa, Sb) doveva svolgere all’interno dello Stato erano trapelate, tramite il passaparola, al di fuori della cerchia governativa, ma la loro portata fu all’inizio molto limitata. Gli echi delle dispute negli ambienti più ristretti dell’attivo di partito si diffusero però ampiamente, come cerchi nell’acqua dopo che si è gettato un sasso. In questo fermento, negli ambienti intellettuali giocarono un ruolo importante opere letterarie di aperta contestazione (in particolare il Poema per adulti di Adam Ważyk) e i testi sempre più coraggiosi degli opinionisti di settimanali come Po prostu e Nowa Kultura.

L’Università di Varsavia, dove nell’autunno del 1954 mi iscrissi alla facoltà di Storia, captava i segnali di questo cambiamento di atmosfera come un barometro molto sensibile. Da molti punti di vista era un luogo eccezionale. Nell’ambiente degli storici dettavano legge eminenti professori, politicamente indipendenti, che negli anni dell’occupazione erano stati legati all’università clandestina o al Servizio informazioni e propaganda del quartier generale dell’esercito nazionale: Tadeusz Manteuffel (direttore dell’Istituto di Storia dell’Accademia polacca delle scienze), Aleksander Gieysztor (direttore dell’istituto di Storia dell’Università di Varsavia), Stanisław Herbst, Stefan Kienewicz, Marian Małowist e sua moglie Iza Bieżuńska, Witold Kula. Il capo indiscusso di quell’ambiente, Tadeusz Manteuffel, dichiarò senza mezzi termini ad Aleksander Gieysztor, che intendeva entrare nel direttivo del movimento Libertà e indipendenza: «Adesso non faremo alcuna guerriglia, faremo solo l’università». I nostri maestri universitari non erano dei contestatori politici. Dopo la guerra, da romantici si erano trasformati in positivisti. «Preservarono la sostanza», in cui eravamo compresi anche noi, i loro allievi. Se si ergevano in difesa della libertà di pensiero e di parola, lo facevano in un ambito apparentemente modesto. Per loro si trattava di conservare uno spazio di libertà di pensiero per la ricerca, le pubblicazioni scientifiche e l’insegnamento universitario.
Nell’anno accademico 1955-56 fu soppresso il dipartimento di Storia della Scuola statale superiore di Pedagogia. Nel borsino politico della Polonia popolare era una facoltà molto quotata, una vera «fucina di dirigenti». Da lì gli studenti passarono alla facoltà di Storia dell’Università di Varsavia, rinforzando il nostro potenziale politico, che in breve si sarebbe rivelato un potenziale contestatario. Tra i colleghi che, provenienti da Pedagogia, si erano trasferiti da noi, non mancavano personaggi stravaganti, ma il più stravagante era senza dubbio Jacek Kuroń. Lo vidi per la prima volta alla riunione generale dell’Unione della gioventù polacca (Związek Młodzieży Polskiej, Zmp). Era un’organizzazione diffusa quasi ovunque nell’ambiente universitario. Stavamo pigiati in una piccola sala conferenze, ma Jacek parlò come se fosse a un affollato comizio di piazza: con ampi gesti, con voce roca e tonante, in modo originale, coraggioso e spontaneo. In quella riunione, con tutta probabilità, la nostra discussione avrebbe dovuto incentrarsi sul disgelo, senza andare oltre. Jacek lo riteneva un temporeggiamento, e parlò con uno stile che fino ad allora non conoscevo: «Nell’antichità i marinai greci percorrevano il Mediterraneo con carichi di vino e olio d’oliva. Quando una burrasca annunciava l’imminente catastrofe, rompevano le giare e versavano l’olio sulle onde schiumanti. Coperto da uno strato d’olio, il mare si calmava. Potevano allora navigare sulla superficie ormai liscia, sotto la quale però la burrasca ancora infuriava. Noi siamo come quei marinai! Discutiamo di questioni secondarie, come se non accadesse niente di speciale, eppure la burrasca si agita sotto la liscia superficie su cui navighiamo, ignari di ciò che si sta avvicinando».
Suonava un discorso pieno di pathos, un po’ come una profezia, ma poco dopo la bufera arrivò davvero. Fu scatenata dal rapporto del segretario generale del partito comunista dell’Unione Sovietica Nikita Khruščëv, intitolato: «Sul culto della personalità e le sue conseguenze», che per la maggior parte dei miei colleghi d’università fu la prima fonte di sconvolgenti informazioni sul terrore staliniano.
Quel rapporto fu presentato il 25 febbraio 1956 in una riunione a porte chiuse del XX Congresso del partito comunista dell’Unione Sovietica e non era destinato né a essere pubblicato dai media, né a essere conosciuto dalla totalità dei membri del Partito. In Polonia le cose andarono diversamente perché, durante il XX Congresso, a Mosca morì il capo del Poup Bolesław Bierut, e così la montante crisi politica del partito comunista polacco fu violentemente inasprita dalla lotta per la successione. In questa febbrile situazione, nel marzo 1956 l’ufficio politico decise di pubblicare, come documento interno al Partito, il rapporto «segreto» di Khruščëv, e di distribuirlo a tutte le organizzazioni partitiche di base nel paese (che erano molte migliaia). Nonostante l’avvertenza «ad uso esclusivo delle organizzazioni del Partito», questo equivaleva a rendere pubblico il rapporto.
Le rivelazioni di Khruščëv suscitarono negli ascoltatori un profondo shock. Per effetto di questo shock i miei coetanei, ferventi attivisti dell’Unione della gioventù polacca, cresciuti all’ombra del comunismo e dell’ortodossia marxista, ebbero una crisi di fede simile a quella che avevo sperimentato io due anni prima, quando avevo appreso la storia della mia famiglia, che fino ad allora mi era stata nascosta. Le informazioni sui crimini di massa commessi sotto il vessillo del comunismo venivano questa volta dalla fonte più autorevole: dallo stesso segretario generale del partito comunista dell’Unione Sovietica. Non c’era modo di negarle. Da quelle informazioni risultava in modo inequivocabile che la prassi era in netta contraddizione con gli ideali affermati dal sistema. Per noi era chiaro che le radici del male affondano nel sistema, e che un sistema che propaga il male deve essere abbattuto – così almeno ci era stato insegnato – dalla rivoluzione. Grazie all’indottrinamento marxista, sapevamo anche che la rivoluzione viene fatta dalla classe operaia, assistita dall’intelligencija che porta la coscienza rivoluzionaria nell’ambiente operaio. Da queste premesse ideologiche nacque il mutamento radicale del cosiddetto «revisionismo» 2.
Finché fummo revisionisti, rigettammo con indignazione quell’epiteto con cui venivamo bollati dagli ideologi che guidavano il Partito. Oggi sono incline a riconoscere che, in quella disputa ideologica, avevano le loro ragioni. All’inizio noi eravamo dei sostenitori del sistema e dei seguaci della sua ideologia. Poi ci ribellammo al sistema, perché calpestava nella pratica gli ideali che propugnava nella teoria. Volevamo abbattere il sistema in nome di quegli ideali calpestati. Eravamo davvero simili agli eretici, pronti a combattere la Chiesa in nome del Vangelo.
Lo shock provocato dalla pubblicazione del rapporto di Khruščëv scatenò in tutta la Polonia un dibattito sulla natura di un sistema che aveva perso la sua legittimazione marxista. Si fece largo la convinzione che ci si potesse opporre alle pratiche dittatoriali del potere. Senza questa convinzione, probabilmente non si sarebbe arrivati alla rivolta operaia di Poznań. La reazione di panico delle più alte autorità della Repubblica popolare polacca (Polska Rzeczpospolita Ludowa, Prl) di fronte allo sciopero generale degli operai delle fabbriche e alla grande manifestazione di piazza intaccò definitivamente la facciata propagandistica del sistema. Quando l’esercito attuò la sanguinosa repressione della protesta operaia, e il premier dichiarò che le autorità comuniste avrebbero mozzato la mano di ogni folle che si fosse levata contro di loro, non fu più possibile eludere la questione della natura classista di questo potere.
In modo meno drammatico, ma egualmente carico di conseguenze, nel 1956 si attivò politicamente l’ambiente degli operai varsaviani. Leszek Goździk, fresatore della fabbrica di automobili Fso di Żerań, che era stato eletto segretario del comitato di fabbrica del Partito, incitava alla creazione, in tutte le fabbriche polacche, di consigli operai che avrebbero dovuto sottrarre la gestione delle imprese dalle mani della burocrazia ministeriale e settoriale. In quei mesi burrascosi la stampa, che andava a briglia sciolta, diede un notevole clamore alle iniziative della Fso. Nell’ambiente ribelle dei giovani universitari, che dopo le elezioni dei delegati all’assemblea nazionale dell’attivo studentesco si presentava ufficialmente come Consiglio universitario dello Zmp, scorgemmo nella parola d’ordine lanciata a Żerań, che invitava i consigli operai a prendere possesso delle fabbriche, l’atteso segnale, il vessillo e il programma della rivoluzione che doveva porre termine alla dittatura. In settembre Jacek Kuroń, Krzysztof Pomian, Andrzej Garlicki e Bogdan Jankowski si incontrarono con Goździk e decisero di avviare una collaborazione tra le organizzazioni universitarie dello Zmp e quelle operaie all’Fso. Conformemente alla formula marxistaleninista, gli intellettuali dovevano portare la coscienza rivoluzionaria tra le file della classe operaia e così gli studenti avrebbero dovuto organizzare riunioni e dibattiti con i giovani operai di Żerań. Ancora oggi non so perché fu affidata proprio a me quella missione, che rappresentò la mia prima esperienza, in fondo formativa, di attività nell’ambiente operaio.

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Il 24 ottobre 1956 nella piazza delle Sfilate di Varsavia 200 mila persone cantarono «Tanti auguri a te» a Władysław Gomułka. Il breve discorso con cui il leader festeggiato dalla folla invitava il popolo a tornare al lavoro, mentre la politica restava nelle mani del Partito e del governo, scatenò la nostra protesta. Tornati dalla manifestazione all’università, avevamo appena votato che saremmo passati all’opposizione quando qualcuno venne di corsa dalla strada e gridò che un nutrito gruppo di manifestanti si dirigeva verso l’ambasciata sovietica. Nonostante quello che avevamo deciso un attimo prima, raggiungemmo i manifestanti, li guidammo verso il Politecnico e li convincemmo che era necessario usare prudenza.
Ci sentivamo tra due fuochi. Il giorno prima era scoppiata la rivoluzione in Ungheria e i carri armati russi erano entrati a Budapest. Di fronte alla tragedia ungherese, c’era il diffuso timore che anche sulla Polonia potesse abbattersi una simile sventura. Condividevamo questo timore. Ci ritenevamo dei rivoluzionari, ma l’imperativo positivista di «preservazione della sostanza nazionale» ci tarpava le ali. Tra la popolazione, del resto, inclusi gli ambienti intellettuali non comunisti che ritrovavano la voce dopo che era stato loro tolto il bavaglio, prevaleva l’opinione che bisognasse accontentarsi di quanto offriva Gomułka, perché era tutto ciò che si potesse ottenere. Compativamo gli ungheresi e a maggior ragione dovevamo badare a noi stessi.
In breve fu chiaro che noi, i giovani rivoluzionari del ’56, eravamo sempre più deboli, isolati, e in fondo privi di determinazione. L’Unione rivoluzionaria della gioventù (Rewolucyjny Związek Młodzieży, Rmz), di cui eravamo i cofondatori, si presentava come un’organizzazione dinamica, con una non trascurabile forza a livello nazionale (oltre 20 mila membri), ma ebbe vita breve. L’apparato partitico all’inizio creò nelle fabbriche il suo contraltare, chiamato Unione della gioventù operaia (Związek Młodzieży Robotniczej, Zmr) e pretese che il Rmz fosse limitato all’ambiente studentesco, ma quando la cosa non riuscì e, nonostante la volontà del partito, il pluralismo politico del movimento giovanile divenne un fatto compiuto all’interno delle fabbriche polacche, le autorità cambiarono idea. Fu deciso di fondere le due associazioni (Rmz e Zmr) in un unico soggetto, l’Unione della gioventù socialista (Związek Młodzieży Socjalistycznej, Zms). Con gli attivisti dell’Unione rivoluzionaria della gioventù, che all’inizio svolsero un ruolo importante in seno alla nuova associazione, il Partito regolò i conti in poco meno di un anno.
Nello stesso lasso di tempo si riuscì a disciplinare la stampa, in cui i revisionisti avevano posizioni di forza. A questo scopo si adottarono sanzioni politiche (di norma i giornalisti revisionisti erano iscritti al Partito) e misure amministrative. Nell’ottobre 1957 le autorità chiusero il settimanale Po prostu, che era molto popolare, e le dimostrazioni degli studenti varsaviani in difesa della rivista, che durarono tre giorni, furono brutalmente represse dagli Zomo, i reparti antisommossa della polizia. I consigli operai eletti e legalizzati nel 1957 non furono sciolti, ma furono marginalizzati e ridotti all’impotenza. Nonostante le richieste del Consiglio economico 3, il sistema normativo e distributivo di gestione delle fabbriche, che non lasciava ai consigli operai alcuno spazio di decisione autonoma, fu conservato senza cambiamenti sostanziali. Nella primavera del 1958 questi consigli furono definitivamente depotenziati con la loro integrazione nella cosiddetta Conferenza di autogoverno operaio, in cui la prevalenza numerica e decisionale era dei comitati di fabbrica del Poup e dei direttivi dei sindacati, controllati dal partito.
Passo dopo passo Gomułka condusse la sua normalizzazione, liquidando tutti quei cambiamenti legati all’ottobre 1956 che non rientravano nella cornice sistemica della dittatura comunista. La cosa fu attuata al prezzo di una limitata liberalizzazione del sistema. Per effetto di questa liberalizzazione, la Repubblica popolare polacca si distinse positivamente rispetto agli altri paesi comunisti. È anche probabile che, salvando l’intelaiatura del sistema, Gomułka salvò tra l’altro anche la nostra pelle (compresa la mia). La rivoluzione a cui aspiravamo fu tuttavia liquidata ancor prima che facesse in tempo a svilupparsi. Che cosa era rimasto? Un anticipo del futuro: un patrimonio di pensiero critico, a cui ci si poteva richiamare, e l’embrione di una nuova utopia. Quel patrimonio si conservò nelle nostre teste, in un precario recesso della nostra memoria. Il pensiero politico revisionista dell’ottobre 1956 fu fissato per iscritto solo nella pubblicistica del momento, che non oltrepassò l’orizzonte dell’attualità e non ebbe carattere sistematico.
Una preziosa eccezione su questo piano fu la dichiarazione ideologica degli universitari ribelli, scritta con l’intento di iniziare un dibattito da cui sarebbe nato il programma di una nuova organizzazione rivoluzionaria. Ho conservato memoria di quel documento, perché in quel periodo mi ci identificavo, e anche perché ne ha fatto menzione a più riprese Jacek Kuroń. Del resto secondo me Jacek ne fu l’autore principale. Quel testo non fu tuttavia mai pubblicato. Circolò in forma di dattiloscritto o in fotocopia e non fu mai firmato. Solo recentemente, su mia richiesta e facendo ricorso alle mie indicazioni, Joanna Szczęsna e Wanda Lacrampe l’hanno trovato all’Archivio centrale, conservato in forma incompleta.
La «piattaforma politicoconcettuale» presentata dagli autori cominciava con una figura retorica presa di sana pianta dal pamphlet di Leszek Kołakowski Che cosa è il socialismo. Non mi sembra che allora noi fossimo già a conoscenza di quel pamphlet, ma la pensavamo in modo simile: «Vogliamo costruire il socialismo in Polonia. Per questo dobbiamo troncare decisamente con tutto ciò che nel passato è stato identificato con il socialismo, e che a nostro avviso non è socialismo». A queste parole seguivano cinque affermazioni che smascheravano ciò che «era ed è» lo stalinismo in opposizione al socialismo. Mezzo secolo più tardi, mi sembra che tre di queste affermazioni siano degne di essere riportate e commentate.

Lo stalinismo era ed è la negazione pratica del principio affermato dai comunisti secondo il quale uno Stato socialista è lo Stato della dittatura del proletariato. Il sistema statale creato dallo stalinismo è la dittatura sul proletariato, i contadini e gli intellettuali. In questo sistema il vero potere statale appartiene a un ristretto gruppo dell’apparato statale e del partito, che esercita la sua autorità in base a un sistema di coercizione ampiamente sviluppato, che prevede: una polizia politica che interferisce in tutti i campi della vita pubblica e privata; campi di lavoro che in questo sistema costituiscono anche un serbatoio di forza operaia schiavizzata; tribunali sommari che non hanno nulla in comune con la legge e la giustizia.

Lo stalinismo era ed è la negazione della tesi affermata dai comunisti secondo la quale la base del sistema socialista è la proprietà pubblica dei mezzi di produzione, e che la condizione per la sua costruzione è la socializzazione dei mezzi di produzione dei piccoli produttori attraverso la volontaria associazione in cooperative. Sotto lo stalinismo i mezzi di produzione erano solo nominalmente proprietà pubblica, mentre de facto erano amministrati da un ristretto gruppo di burocrati. Si trattava di una nascente forza sociale che, in nome delle masse, disponeva dei mezzi di produzione in modo così assoluto, che lentamente si era trasformata nel loro esclusivo proprietario. Sotto lo stalinismo la socializzazione dei mezzi di produzione dei piccoli produttori, in campagna e in città, non aveva niente in comune con la volontarietà, al contrario, si svolgeva con l’utilizzo della coercizione, economica ed extraeconomica.

Lo stalinismo era ed è la negazione pratica dei princìpi dell’internazionalismo proletario affermati dai comunisti. La discriminazione di singoli popoli dell’Urss in nome della ragion di Stato russa, la lesione e la limitazione della sovranità dei paesi del campo socialista in nome della ragion di Stato sovietica, la negazione nella pratica, tramite l’utilizzo delle baionette, dell’impossibilità [sic!] di esportare la rivoluzione sociale: tutto questo, a nostro avviso, non ha niente a che fare con il comunismo e, per di più, nuoce all’interesse del comunismo in ogni singolo paese, così come al buon nome del comunismo internazionale.

Mentre leggo oggi quelle quattro cartelle ritrovate all’Archivio nazionale, mi sembra essenziale non il fatto che allora fummo sconfitti, ma che il nostro pensiero di allora includesse – nonostante incoerenze e ambiguità – il genotipo ideale da cui anni dopo nacque la «Lettera aperta al partito».

Ribellione e utopia

La pubblicistica, la politologia e la storiografia ripropongono periodicamente la discussa questione se la Repubblica popolare polacca dopo il 1956 fosse un paese totalitario o autoritario. Non intendo sminuire tale dibattito, perché nonostante tutto si tratta di un tema essenziale. Mi sembra tuttavia che abbiamo a che fare con una commistione di due ordini diversi, che non giova né alla teoria, né alla pratica. Totalitarismo e autoritarismo sono concetti teorici creati dai politologi.

Niente ci costringe a considerare il grande terrore dell’epoca staliniana come un indicatore concettuale del totalitarismo. Il terrore passò, fu persino condannato, ma le strutture del potere non subirono alcuna trasformazione sostanziale. Vigeva ancora un ordine monocentrico. Il sistema si basava ancora su un controllo onnicomprensivo, più propriamente sull’onnipotenza del partito unico nei confronti dello Stato, dell’economia, della società e delle sue organizzazioni, partito che agiva sulla base del cosiddetto centralismo democratico, cioè della sottomissione gerarchica al Comitato centrale e ai suoi organi, plasmando anche le decisioni più importanti di tutte le istituzioni, gli uffici, le aziende e le organizzazioni sociali. Per molti teorici della politica tutto ciò è un motivo fin troppo sufficiente per classificare la Polonia di Gomułka come Stato totalitario. Perché allora mi è più vicina la posizione che si oppone a questo schema e sostiene che la Polonia dopo il 1956 era ormai un paese diverso?
Perché, rispetto ai politologi, ciò che importa – chiedo scusa – è la mia pelle. A differenza dei teorici, che si occupano delle tipologie dei regimi dittatoriali, io ho passato complessivamente otto anni e mezzo in prigione, sotto Gomułka, Gierek e Jaruzelski. La differenza tra ciò che ho vissuto allora e le pratiche investigative, giudiziarie e penitenziarie staliniste, è sbalorditiva. Forse è un punto di vista troppo personale, ma non posso accettare che sia privo di significato, in ogni caso non per me.
Questa differenza, a cui attribuisco tanto peso, era dovuta principalmente (anche se non esclusivamente) all’effetto della rottura con il terrore staliniano. La cessazione e la condanna del terrore di massa furono un duraturo effetto della destalinizzazione in tutto l’impero sovietico. Da questo punto di vista la Polonia non fece eccezione, sebbene si distinguesse per la coerente realizzazione dei cambiamenti. Dopo il 1956 la repressione a carattere politico colpiva solamente chi, nella sua attività di opposizione, aveva oltrepassato i limiti ed era entrato in aperto conflitto con il sistema. Lo Stato non aveva la pretesa di interferire in ciò che i cittadini pensavano e dicevano sul piano privato. Chi non si ribellava poteva dormire tranquillo. Oggi è difficile immaginare l’enorme sollievo con cui allora furono accolti questi cambiamenti, in apparenza modesti. Bisogna aggiungere che furono proibite le torture fisiche durante le indagini, fu rispettata in generale l’autonomia dell’avvocatura e, quando si esercitavano pressioni politiche sui magistrati, lo si faceva in punto di diritto, se non altro per mantenere le apparenze.
Un’eccezione assoluta nell’ambito dell’impero sovietico fu il fatto che, dopo l’ottobre 1956, le autorità della Prl permisero ai contadini di ritirarsi dalle cooperative agricole, e da quel momento non tentarono più di imporre la collettivizzazione dell’agricoltura. Un’altra eccezione in confronto agli altri paesi comunisti era costituita dalla situazione della Chiesa. I brutali tentativi di sottomettere il clero ai diktat delle autorità comuniste, culminati con l’arresto e la prigionia del primate polacco nell’autunno del 1953, furono condannati e accantonati. Nonostante ricorrenti tensioni e pressioni, nella Prl la Chiesa cattolica rimase una grande istituzione indipendente. Questo ebbe conseguenze fondamentali (tuttora riconosciute) nella vita pubblica e nel panorama della cultura polacca.
Una peculiarità polacca legata al 1956 fu infine l’atteggiamento tollerante dello Stato nei riguardi delle persone di cultura, degli studiosi e degli accademici. Potrebbe sembrare che la benevolenza dall’alto delle autorità politiche nei confronti degli intellettuali fosse il capriccio del padrone, ma il gruppo di Gomułka considerava la concessione agli intellettuali di considerevoli libertà nell’esercizio della loro professione come una valvola di sicurezza: che si agitino pure, visto che debbono farlo, nelle loro pubblicazioni a bassa tiratura, nei seminari universitari e nelle sale teatrali, ma che non invadano i campi dell’attività politica, riservata al partito. Jerzy Grotowski era inizialmente uno degli attivisti più radicali all’interno dell’Unione rivoluzionaria della gioventù, ma capì di essere stato sconfitto e si diede al teatro d’avanguardia, che comunque la gente semplice non capisce; e allora benissimo, che metta pure in scena i suoi spettacoli e si ricopra di gloria. Il decreto ministeriale del 1956 e la successiva normativa sull’insegnamento universitario, varata nel 1958, garantivano ampie autonomie alle università. La Polonia era l’unico paese comunista in cui i rettori e i decani venivano scelti dai professori. In realtà questi sapevano che per quelle cariche non era opportuno scegliere delle persone che il Partito riteneva avversari politici, ma anche il Partito sapeva che era inutile imporre, per la carica di rettore o decano, dei candidati che non avevano il sostegno dell’ambiente universitario. Vigeva la pratica del compromesso. Per le scienze umanistiche polacche, gli anni 1956-1968 furono un periodo in cui il raccolto si rivelò abbondante.
Dopo il marzo 1968 fu soppressa l’autonomia delle università e l’ambiente scientifico subì irrimediabili perdite, ma dopo poco la rivolta operaia nelle città costiere e il cambio al vertice del governo portarono un’effettiva attenuazione, anche se stavolta non garantita giuridicamente, della politica delle autorità statali nei confronti degli intellettuali. Il concetto di autonomia rimase però vivo. Dopo la caduta del comunismo l’autonomia dell’università fu inserita nella Costituzione. Fu una decisione molto felice, perché anche nella Polonia libera i diversi gruppi al potere hanno la tentazione di tenere al guinzaglio ministeriale gli studiosi e l’università.
I cambiamenti successivi all’ottobre del ’56, grazie ai quali la Polonia si distingueva positivamente tra tutti i paesi comunisti, si conservarono fondamentalmente perché potevano accordarsi con i princìpi fondamentali della dittatura. Ai revisionisti, soprattutto ai giovani radicali, questo non poteva bastare. Provammo a opporci quando Gomułka mise a tacere la stampa chiassosa e polemica, le organizzazioni giovanili e i consigli di fabbrica, ma fu un’opposizione debole e priva di coordinazione.
Nel marzo 1957 mi iscrissi al partito. Era il risultato di una mia riflessione matura, anche se vale la pena ricordare due persone che mi suggerirono di prendere questa decisione. Erano Jacek Kuroń e Antoni Mączak. Jacek mi spiegò che la battaglia tra i sostenitori delle trasformazioni democratiche e coloro che volevano conservare l’eredità istituzionale dello stalinismo si sarebbe risolta in seno al partito, dunque dovevamo essere lì se volevamo partecipare a quella battaglia. Condividevo la sua opinione senza riserve.

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Nel 1956 la nostra audacia rivoluzionaria non si spingeva ancora fino al punto di esigere il multipartitismo, come nella democrazia borghese (cioè occidentale). Nell’estate del 1957 i colleghi ordirono un complotto che avrebbe dovuto portare al cambiamento della direzione del Comitato varsaviano dello Zms. Nell’assemblea plenaria di settembre si arrivò alla revoca dei dirigenti di allora e alla scelta di una nuova segreteria, che includeva: l’ex capo dell’Unione rivoluzionaria della gioventù Józef Lenart, Eugeniusz Noworyta, Zdzisław Kuksewicz e me. Ciò accadde in mia assenza, perché trascorsi il mese di settembre in Francia, su invito dei cugini di mia madre. Quando lessi su Le Monde della chiusura del settimanale Po Prostu e delle manifestazioni studentesche a Varsavia, cambiai il biglietto del treno e tornai in Polonia, ma il fumo dei gas lacrimogeni era ormai già svanito. Gli incidenti erano iniziati con una manifestazione di protesta nel cortile della grande Casa dello studente di piazza Narutowicz. Gli organizzatori della manifestazione erano due membri dello Zms di Varsavia: Janusz Gilas e Leszek Gronostaj. A peggiorare le cose, avevano stampato i volantini che invitavano a partecipare alla manifestazione usando il ciclostile del comitato varsaviano dello Zms, il che determinò la perquisizione dei locali dell’organizzazione. Tutti i membri della segreteria furono convocati alla sede varsaviana del Partito, dove fummo costretti a leggere (sul posto!) le bozze di stampa dell’ultimo numero di Po Prostu, che era stato interamente confiscato dalla censura. Quella lettura doveva convincerci che la rivista era scivolata su posizioni contrarie al Partito e che dunque era stata giustamente soppressa. Due o tre dei miei colleghi rivelarono un’opportuna flessibilità della spina dorsale, ma la situazione della sezione varsaviana dell’Unione della gioventù socialista doveva essere sanata a fondo. Credevamo ingenuamente che la questione si sarebbe risolta in modo democratico con un voto sulle divergenti posizioni nella sessione plenaria del comitato varsaviano dell’Unione. Il partito stabilì tuttavia che la decisione in merito dovesse essere presa dai suoi iscritti in seno allo Zms.

Alle riunioni del gruppo ognuno di noi diceva ciò che riteneva opportuno. Era non solo lecito, ma richiesto. Gli scontenti dovevano sfogarsi a porte chiuse, affinché poi si potesse proibire loro di esprimere opinioni inopportune al forum plenario. La maggior parte dei nostri colleghi aveva paura e docilmente rientrava nei ranghi. A criticare la chiusura del settimanale Po Prostu e l’attacco dei reparti antisommossa contro gli studenti furono dunque solo tre partecipanti alla riunione: Józef Lenart, Zdzisław Kuksewicz e io. Nella risoluzione finale, in osservanza alla disciplina di partito, ci veniva proibito di ripetere, in presenza dei non iscritti al partito, le nostre critiche alla sessione plenaria del comitato varsaviano dello Zms. Ci era permesso solo dare le dimissioni da membri della segreteria. Potevamo motivarle con una formula laconica, e di fatto enigmatica, che parlava di divergenze di opinioni sopravvenute tra noi e la maggioranza dei compagni. All’assemblea plenaria del comitato varsaviano dello Zms i nostri colleghi non iscritti al partito guardavano a noi come a dei leader. Invano. Eravamo membri del partito e la disciplina di partito ci aveva chiuso la bocca.

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Quando studiavo all’Università di Varsavia, e anche molto più tardi, quando divenni professore, gli studenti venivano formati come se, una volta diplomati, dovessero diventare tutti degli studiosi. Questo assicurava un livello molto alto di preparazione e si rivelava utile nel mercato del lavoro. Al terzo anno bisognava scegliere un seminario, e insieme la specializzazione. La mia scelta cadde sul medioevo. Era proprio l’ottobre del 1956. Mi iscrissi al seminario di Aleksandr Gieysztor. Frequentai le lezioni, partecipai alle letture comuni e alle analisi dei documenti medievali e con il passare del tempo diventai medievalista. È una specializzazione molto impegnativa. Esige che le si dedichi così tanto tempo, inventiva e attenzione, che rimane molto poco per altre attività. Rapportarsi alle tracce scritte di antiche culture, decifrare i loro codici di comunicazione, penetrare in una mentalità diversa dalla nostra mi affascinava e mi assorbiva a tal punto che dovetti scegliere tra il ruolo dell’attivista e quello dello storico. Non si poteva essere contemporaneamente l’uno e l’altro. Ero un attivista, soprattutto nei periodi di grandi scosse e tensioni. Ma a parte questo ero uno storico e a questa occupazione ho dedicato la parte principale della mia vita. Jacek Kuroń, a cui ero legato da una profonda amicizia, e a volte da iniziative comuni, diceva sempre con ironia che ero un «politico della domenica».

Posso confermarlo, ma alla fine degli anni Cinquanta non fui solo io a parcheggiare in deposito il treno della rivoluzione. La cosiddetta «piccola stabilizzazione» consisteva, tra l’altro, nel fatto che ci permetteva di vivere. I soldati e gli ufficiali della dismessa rivoluzione si trovarono delle nicchie in cui potevano realizzare le proprie aspirazioni professionali e sopravvivere senza perdere la faccia. La sorte più dura toccò a Leszek Goździk. Alla fine del 1957 il vertice del partito trovò il pretesto per sollevare dall’incarico di primo segretario del comitato di fabbrica quel riottoso capo degli operai di Żerań. Leszek tornò allora da dove era venuto, in fabbrica al suo posto di fresatore. Rimase tuttavia assai popolare. Quando nel primo trimestre del 1959 fu deciso dai piani alti di licenziare 50 fresatori, mentre dal piano per il trimestre successivo risultava che si dovessero assumere 49 persone, Leszek a una riunione propose che nessuno fosse licenziato e che invece tutti accettassero una temporanea riduzione del salario. La squadra appoggiò la proposta, ma i vertici si spaventarono di fronte allo spettro della solidarietà operaia. Per loro Goździk rappresentava una minaccia, dunque fu licenziato e si proibì a tutte le fabbriche della zona di assumerlo. Anche la sua vita privata stava andando a pezzi. Leszek decise di ricominciare da zero. Fece i bagagli e alla stazione di Varsavia chiese alla cassiera un biglietto per la stazione più lontana, oltre la quale i treni non andavano. Così si ritrovò a Świnoujście. Poco dopo si sposò, restaurò con degli amici un vecchio cutter e si diede alla pesca. Il mare divenne la sua nicchia. Al Congresso di Solidarność del 1981 Leszek fu uno degli ospiti d’onore. Un giornalista francese gli chiese perché non si unisse a quel movimento. Goździk rispose: «Perché in mare ci sono molti pesci da pescare». Il giornalista osservò che lì si potevano pescare pesci più grossi. «Certo», replicò Leszek, «ma in mare sono freschi». Solo nel 1989 tornò alla vita pubblica, nella politica municipale.
Per gli intellettuali era più facile trovare una nicchia. Krzysztof Pomian fu forse il più illustre allievo di Leszek Kołakowski e si dedicò alla carriera universitaria. Nel caso di Jerzy Grotowski è difficile parlare di una nicchia. Il teatro fu la sua vocazione e oggi sono pochi quelli che sanno che Grotowski, prima di diventare un regista d’avanguardia, era un autentico attivista rivoluzionario. La nicchia di Jacek Kuroń furono gli scout, in particolare il circolo Walter 4, da lui fondato e guidato in seno all’Unione degli scout polacchi. In quest’area la tolleranza delle autorità si rivelò piuttosto scarsa e di breve durata, anche se all’inizio Jacek poté spiegare le ali.
La mia nicchia, o piuttosto la mia vita professionale, divenne la medievalistica. Nel marzo del 1959 mi laureai e Gieysztor mi propose di rimanere all’università. Non c’erano posti di assistente, dunque all’inizio approfittai di una borsa di studio del ministero dell’Istruzione per l’Istituto di storia dell’Università di Varsavia. Facevo lezione come assistente e iniziai a prepararmi al dottorato; in fin dei conti era qualcosa di simile a un tirocinio da assistente. Nell’aprile del 1961, su raccomandazione di Gieysztor, ottenni una borsa di studio annuale dalla Fondazione Giorgio Cini e andai a Venezia.
Il soggiorno in Italia fu una tappa fondamentale nel mio percorso di storico medievalista, ma al tempo stesso mi diede un impulso che mi spinse di nuovo sulla strada della contestazione politica. Nella seconda metà degli anni Sessanta, quando mi ero già incamminato per la via che mi avrebbe portato in prigione, l’Sb faceva di tutto per scovare nelle mie attività qualche traccia di influenza straniera, meglio ancora se trotzkista, che risalisse al periodo del mio soggiorno in Italia. Questi sforzi non derivavano da una disinteressata ricerca della verità, ma dalle esigenze dettate dai giochi di potere tra le cricche ai vertici del Partito. Tuttavia, indipendentemente dal ruolo che lo spauracchio del trotzkismo aveva nelle fantasie dei potenti del Cremlino, e di conseguenza negli intrighi dei loro vassalli polacchi, la visione del mondo dell’Sb non riusciva semplicemente ad accettare che una persona potesse essere spinta alla contestazione dalle condizioni di vita della Polonia comunista, se confrontate con la realtà della democrazia occidentale.
Non potevo non notare come in Italia l’aperta critica al governo, alla Democrazia cristiana e persino al sistema stesso, si esprimesse pubblicamente e senza la minima paura delle conseguenze. A Venezia partecipai a una riunione del Pci cittadino dedicata alle conclusioni del XXII Congresso del partito comunista dell’Urss, e presi persino la parola durante la discussione. Non fu però l’eurocomunismo a impressionarmi, ma la banale constatazione che l’attività di quel partito, che non solo era d’opposizione, ma che si presentava ufficialmente come anticapitalista, era una componente abituale del panorama politico. Lo sapevo, naturalmente, già prima di partire per l’Italia, ma una cosa è la teoria, altra cosa è vederlo con i propri occhi e toccare con mano. Partecipai a una riunione dei giovani studenti universitari nella grande aula Ca’ Giustinian, dove il capo dell’associazione italiana degli studenti, un oratore calmo, competente e molto abile, fece a pezzi il progetto governativo di riforma dell’istruzione superiore. Vidi lo sciopero organizzato all’Università di Venezia contro il progetto del governo e vidi il rettore Siciliano, per altro un democristiano, uscire dall’università, mettersi seduto in mezzo agli studenti sulle scale dell’edificio principale e accettare una discussione tra pari. Tutto questo era – mi scuso per l’espressione – normale. Nessuno pensava che per questo il sistema sarebbe crollato. Non è dunque che mi schierai contro la Repubblica popolare polacca perché in Italia avevo incontrato qualche trotzkista, molti eurocomunisti, vari socialisti e democristiani. Nessuno mi aveva donato la pietra filosofale. La cosa essenziale, che mi spinse alla ribellione, fu vedere che la libertà era all’ordine del giorno – la libertà quotidiana, quella di cui hanno paura i seguaci della «vera» libertà. Vidi come funziona una democrazia liberale, che eravamo abituati a chiamare «borghese». Vidi come approfittavano di questa libertà il partito comunista, i socialisti, le organizzazioni studentesche di sinistra e i sindacati, tutti soggetti che in nessun modo si potrebbero definire borghesi. Vidi tutto questo e provai invidia. In questo consiste il cosiddetto effetto dimostrativo.
Questo fenomeno agì con tutta la sua forza solo dopo il mio ritorno in patria. Non è che non conoscesi la Polonia comunista, ma il contrasto tra la quotidianità di un paese libero e la vita nella Prl al tempo della «piccola stabilizzazione» mi fece l’effetto di una profonda umiliazione. Le autorità ci consentivano di vivere tranquillamente, lavorare e persino pensare e dire la nostra, a patto che non fosse in pubblico, ma nell’intimità delle nostre case. Ci eravamo a tal punto abituati a questo giogo, che quasi non lo avvertivamo più. In quel momento sentii che era insopportabile. Fu un impulso molto forte che mi spinse a tornare su una strada che avevo abbandonato per vivere una vita tranquilla. Purtroppo non potevo più considerare la rinuncia alla libertà nella vita pubblica come una norma di vita.
La prima persona a cui mi rivolsi fu Jacek Kuroń. Nel 1956 lo consideravo un leader e devo dire che tra i capi universitari di allora fu proprio lui a esercitare la maggiore influenza sul mio modo di pensare. Ci incontrammo di nuovo subito dopo il mio ritorno dall’Italia (cioè nella primavera del 1962) e riscontrai con piacere che ci intendevamo a meraviglia. Non ho dubbi che quella fosse una soddisfazione reciproca. Ci accordammo sulla direzione da prendere e decidemmo di ricominciare da dove ci eravamo interrotti: all’università. A partire dal novembre 1962 appartenevo ai cosiddetti «giovani quadri» scientificodidattici dell’Università di Varsavia, dove iniziai il quadriennio degli studi di dottorato. Nel mio caso questo significava anche far parte dell’organizzazione universitaria di partito e di quella dello Zms. Jacek allora lavorava al quartier generale dell’Unione degli scout polacchi e formalmente non aveva legami con l’università, ma tra gli studenti universitari c’era un gruppo di «walteriani», i ragazzi del suo circolo scout. Sullo sfondo del marasma politico di quel tempo, si distinguevano per l’anticonformismo e la profonda convinzione che bisognasse lottare per migliorare il mondo.
L’università è in genere il luogo dove si dovrebbe sviluppare la discussione; a quei tempi però il carattere dominante della sua vita intellettuale e politica era una silenziosa stasi. Bisognava cambiare, creando, sotto gli auspici del comitato universitario dello Zms, il Circolo politico di discussione. Con questa idea mi recai a colloquio con i leader competenti dello Zms e del partito presso l’università. Trovai comprensione assoluta e ricevetti il via libera. In questo caso il mio interlocutore per lo Zms fu Aleksander Smolar, mentre per il partito fu Włodzimierz Brus. Ai miei occhi erano persone dell’establishment che, anche se aperte e illuminate, stavano comunque dall’altra parte della barricata. Come potevo sapere che sei anni dopo si sarebbero trovati entrambi fuori dal partito, e che Smolar sarebbe persino stato in prigione con me?
Divenni presidente del Circolo di discussione e probabilmente per questa ragione fui scelto come membro del comitato universitario del Partito. Lo presi come un ombrello protettivo che (finché durava) avrebbe potuto nascondere la mia vera attività in seno al Circolo di discussione. Riuscii a ottenere il permesso di far partecipare liberamente alle discussioni anche persone esterne all’università. Era importante soprattutto per Jacek Kuroń, i cui interventi divennero la maggiore attrazione degli incontri del Circolo. Ma prima di tutto l’impulso alla discussione era dato dagli studenti, all’inizio soprattutto dai pupilli di Jacek, i walteriani, che erano perfettamente preparati alla vita pubblica. In breve il Circolo attrasse come un magnete gli spiriti inquieti di tutti i dipartimenti dell’università.
La nostra attività era attentamente sorvegliata dall’Sb, che inviava allarmati rapporti al Comitato centrale del partito. Il Circolo politico di discussione della gioventù universitaria (questa la sua denominazione ufficiale) durò un anno, dal novembre del 1962 al novembre del 1963, quando fu chiuso. Nel corso di quell’anno, tuttavia, attorno ad esso si era radunato un ambiente di numerosi giovani dotati di pensiero critico, che non volevano in nessun modo darsi per vinti. Decidemmo così di agire in occasione di una conferenza elettorale dello Zms universitario, fissata per il marzo 1964. Lì avevamo la maggioranza, perché in genere i partecipanti alle riunioni del circolo erano i membri più attivi dello Zms nei rispettivi dipartimenti e dunque ottennero il mandato di delegati senza difficoltà. Il regolamento elettorale prevedeva che due terzi dei componenti del nuovo comitato universitario fossero proposti dal comitato uscente, e che in sala ne potesse essere eletto al massimo un terzo. Per presentare un candidato oltre questo limite, bisognava indicare per quale posizione lo si proponeva e poi eleggere chi doveva essere inserito nella lista. Questo sistema escludeva dunque le iniziative provenienti dal basso, a meno che quelli «dal basso» non riuscissero a organizzarsi. Noi eravamo però preparati e ci eravamo accordati su come votare, così eliminammo facilmente tutti i membri del vecchio comitato.
Il partito non poteva certo tollerare tanta sfrenata democrazia all’interno della sua organizzazione giovanile. In aggiunta, l’atmosfera si surriscaldò a causa della lettera di protesta contro l’inasprimento della censura scritta dal 34 insigni intellettuali e indirizzata al primo ministro il 14 marzo 1964. Il 14 aprile si svolse nel cortile dell’università una piccola manifestazione di sostegno agli autori della lettera. Gli organizzatori della manifestazione non avevano legami con noi, dovemmo tuttavia prendere una posizione, che non era concorde con quella del partito. Si arrivò allo scontro, durante il quale il comitato universitario dello Zms chiese la riapertura del Circolo di discussione, mentre il secondo segretario del comitato universitario del partito, Jan Detko, pretese da noi che annullassimo le nostre deliberazioni e condannassimo gli organizzatori della manifestazione del 14 aprile. Convocò a tale scopo il gruppo di partito del comitato universitario dello Zms e, quando neanche tra di loro riuscì a ottenere la maggioranza, tirò fuori dalla tasca un foglio e lesse la decisione dei vertici del partito, i quali ci ordinavano di sottometterci alla loro volontà sotto la minaccia di sanzioni disciplinari. In questa situazione demmo le dimissioni dalle cariche alle quali eravamo stati eletti qualche settimana prima. Fui anche espulso dal comitato universitario del Partito. Eravamo alla fine. Era chiaro che in quel sistema un’azione indipendente era possibile solo al di fuori delle regole che vigevano nel Partito e nelle organizzazioni sociali a lui subordinate. Cioè era possibile solo fuori dalla legalità.

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Io e Jacek non pensavamo di poter tenere a lungo l’avamposto della libertà politica nell’ambito di un sistema da cui essa era esclusa. Decidemmo di creare un gruppo di persone determinate a elaborare insieme un programma comune che desse vita a un’organizzazione rivoluzionaria clandestina. Questo gruppo iniziò la sua attività il 14 marzo 1964, osservando le regole della cospirazione (o piuttosto di quelle che ci sembrava fossero le regole della cospirazione). Jacek e io convincemmo a collaborare con il nostro gruppo anche Szymon Firer, operaio levigatore all’Fso di Żerań, dove nel 1956 era stato a capo dello Zmp. Szymon disse che potevamo contare sulla collaborazione di altri sei operai della fabbrica, che a loro tempo erano stati con Goździk, ma non accettò di portare nessuno di loro ai nostri incontri. E per fortuna: lui era l’unico ad avere il fiuto del cospiratore. Tra noi c’era un agente dell’Sb, intelligente e molto attivo. I suoi rapporti sono oggi una fonte davvero preziosa per gli storici che studiano quell’epoca, mentre al tempo in cui li scrisse erano molto preziosi per i servizi di sicurezza.
Fin dall’inizio della nostra comune collaborazione, nel gruppo avevamo deciso che il programma che sarebbe venuto fuori doveva essere ciclostilato e furtivamente introdotto nelle università e nelle fabbriche. I ciclostili, anche quelli più primitivi, nella Prl erano sotto lo stretto controllo della polizia. Se si voleva stampare in segreto, bisognava guardare da qualche altra parte. Proposi a Jacek di chiedere aiuto ai trotzkisti polacchi. Se ne trovarono subito due (Kazimierz Badowski di Cracovia e Ludwik Hass di Varsavia) a cui sapevo che era stato recapitato di contrabbando dal Belgio un ciclostile abbastanza moderno e non registrato da nessuna parte.

All’inizio di novembre ottenni da Badowski 95 matrici e la promessa che avrebbe consegnato il ciclostile al nostro corriere, che si sarebbe fatto vivo quando saremmo stati pronti per stampare. Il corso degli eventi non lascia dubbi sul fatto che nel 1964 l’Sb si fosse efficacemente infiltrato nel nostro gruppo. Non si può tuttavia negare che i nostri primi passi sulla via della cospirazione furono vergognosamente imbarazzanti. A rovinarci furono la nostra comprensibile mancanza di esperienza e l’ingenua fiducia che nutrivamo nei confronti di chiunque nel passato fosse stato in prigione per motivi politici. Il 14 novembre del 1964 fummo tutti fermati; durante le perquisizioni degli appartamenti i funzionari trovarono il dattiloscritto originale e una copia del programma che io e Jacek avevamo preparato. Era una versione provvisoria, ancora incompleta. Le matrici che avevo avuto da Badowski si salvarono, perché le avevo sistemate da una persona completamente estranea alla situazione, ma dopo il nostro arresto furono distrutte, perché non costituissero una prova aggravante.
Non fummo portati in una regolare prigione, ma al ministero dell’Interno. Al piano più alto c’erano delle stanzette che a prima vista sembravano uffici, forniti di scrivania, due sedie e un divano, solo che la finestra aveva le imposte chiuse con un lucchetto. Alla porta non c’era lo spioncino, ma quando nella stanza non c’era l’ufficiale inquirente la porta restava aperta e il corridoio era presidiato da un poliziotto. Non eravamo in isolamento, perciò potei sentire l’ufficiale inquirente che imprecava contro Szymon Firer (nei paesi della dittatura del proletariato gli operai erano sempre trattati in modo rozzo e incivile) e Szymon rispondere a tono gridando: «Allora mi dica, chi diavolo sono io, un accusato, un testimone o che altro?». Riuscii anche ad accordarmi velocemente con Jacek, a gesti, mentre un poliziotto lo accompagnava al bagno, sul fatto che ci saremmo dichiarati gli unici autori del programma.
Dopo 48 ore, invece di arrestarci ci liberarono tutti. Al momento di uscire, un funzionario anziano, incanutito sotto le armi, mi disse in tono paternalistico: «Via, signor Modzelewski, una cospirazione del genere è da prendere e buttare al cesso». Le sue parole mi fecero molto male, perché sapevo che era la pura verità.
Le indagini formalmente proseguivano, ma ai piani alti del partito fu presa la decisione che politicamente fosse meglio non istituire un processo, ma solo espellere i colpevoli dal Partito e dall’università. Il 27 novembre, quando il comitato universitario si riunì per discutere delle nostre attività clandestine e applicare le decisioni prese, il disagio dei nostri colleghi universitari – membri di quella sezione di partito – saltava agli occhi. Entrambi ci dichiarammo a favore della misura di espulsione, perché nel nostro manifesto consideravamo il Partito come il pilastro centrale della dittatura e il suo strumento. Dichiarammo la nostra volontà di combattere la dittatura, dunque il Partito. Non restava altro che la separazione. Dicendo quelle cose non facilitammo affatto il compito dei nostri colleghi del comitato universitario. Jacek non esitò nemmeno a utilizzare parole crude: «Siete entrati in casa mia con la polizia, avete requisito i miei appunti, e adesso volete fare il processo a ciò che penso». Dopo molti anni, mi sembra sia ora più interessante e degna di riflessione tanto la situazione, quanto il modo di pensare che avevano allora i nostri colleghi, compagni di partito che io e Jacek (tra di noi, naturalmente) definivamo sdegnosamente «liberali».
Erano in genere dei moderati revisionisti, che contavano su una graduale democratizzazione del sistema e, in vista di questa evoluzione, consideravano la propria attività nelle file del Partito come una missione. Il fatto che noi avessimo passato il Rubicone, e avessimo rifiutato la prospettiva di un lavoro organico all’interno del Partito, era per loro scioccante ed equivaleva ad agire a discapito del «bene comune». Era diffusa la convinzione che il Partito fosse l’unica associazione di tutti coloro che erano cittadini a pieno titolo, e che solo nelle sue file si potesse condurre un’efficace attività pubblica. «Non c’è salvezza al di fuori della Chiesa». In questo senso la scelta che avevamo fatto, rompendo con il Partito, era comparabile non tanto all’eresia, quanto all’apostasia. Restava solo il cordone ombelicale ideologico che ci legava al marxismo e all’utopia marxista.
Articolammo la nostra abiura per iscritto, inizialmente in un manifesto, la cui prima redazione ci fu confiscata il 14 novembre 1964 dall’Sb, e successivamente nella cosiddetta «Lettera aperta al Partito». La delibera di espulsione fu distribuita alle organizzazioni di partito delle facoltà. Si svolsero alcune riunioni sull’argomento, però i loro membri non avevano accesso al nostro testo, ma solo al rapporto che lo condannava e alla delibera del comitato universitario. Questo creò lo scontento di quei membri del Partito che ritenevano fosse stato loro negato il diritto a informarsi e a giudicare per proprio conto. Alla facoltà di Storia partecipai a una di queste riunioni e nel mio lungo intervento riassunsi il nostro testo. Feci lo stesso alla riunione del comitato universitario dello Zms, che doveva votare sulla mia espulsione dall’organizzazione. In conseguenza di ciò, mi venne in mente che potevamo combattere a viso aperto e riprodurre il nostro manifesto in forma di lettera aperta a tutti i membri del Partito e dello Zms dell’università, a cui era stato impedito di informarsi correttamente sulla questione. Jacek accettò l’idea senza esitazioni. Nella massima segretezza redigemmo un manoscritto (io scrissi a mano tre copie, servendomi della carta carbone), che successivamente battei due volte sulla macchina da scrivere di mia madre, inserendo ogni volta sei copie di carta velina. Avevamo dunque quattordici esemplari battuti a macchina e tre scritti a mano. Poco, per un testo che fece così tanto rumore in Polonia e nel mondo. Il 18 marzo 1965 lasciammo un esemplare della «Lettera aperta» al comitato universitario del partito e uno allo Zms, il resto fu distribuito clandestinamente. Alle sei del mattino del giorno seguente fummo arrestati nei nostri appartamenti, e nel luglio del 1965, dopo un processo a porte chiuse, il Tribunale di Varsavia condannò me a tre anni e mezzo di carcere, Jacek a tre anni.

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«Secondo la dottrina ufficiale, viviamo in un paese socialista. La tesi si basa sull’identificazione tra la proprietà statale dei mezzi di produzione e la proprietà sociale. L’atto di nazionalizzazione attribuiva l’industria, i trasporti e le banche alla proprietà sociale, e i mezzi di produzione basati sulla proprietà sociale sono per definizione socialisti. Questo ragionamento è apparentemente marxista. In realtà qui si introduce nella teoria marxista un elemento di fondo che le è estraneo: un’interpretazione giuridicoformale della proprietà. La proprietà statale può nascondere i più diversi contenuti di classe a seconda del carattere classista dello Stato. […]
La proprietà statale dei mezzi di produzione è solo una forma di proprietà. Appartiene a quei gruppi sociali a cui appartiene lo Stato. In un sistema di economia nazionalizzata […] il potere politico si lega al potere esercitato sui processi di produzione e di ripartizione.
Chi detiene il potere nel nostro Stato?».

Così iniziava il primo capitolo della «Lettera aperta», intitolato «Il potere della burocrazia». Un incipit che era al tempo stesso il nostro biglietto da visita. Bollando il sistema vigente come pseudosocialismo, davamo prova del nostro attaccamento agli ideali socialisti. Denunciando come «argomenti solo in apparenza marxisti» quelli della retorica ufficiale, che nascondeva la natura del sistema, proponevamo l’utilizzo del marxismo come strumento di un’analisi critica che mettesse invece a nudo la sua reale natura. Per scoprire in quali mani si trovassero realmente lo Stato cosiddetto «popolare» e i mezzi di produzione statalizzati, ci facemmo guidare dagli ideali socialisti e utilizzammo come bussola il marxismo. Iniziammo dai meccanismi del monopolio del potere, chiamati ufficialmente «ruolo guida del partito», e dalle regole monolitiche dell’organizzazione interna del partito unico, chiamate «centralismo democratico». Di quei meccanismi e di quei princìpi avevamo una conoscenza non solo libresca. Li avevamo sperimentati sulla nostra pelle, perciò la nostra analisi, secondo l’opinione concorde delle autorità non ufficiali dell’epoca, era piuttosto convincente. Ci portava alla conclusione che la «burocrazia politica centrale», come avevamo chiamato l’élite partiticostatale che era al potere, disponeva arbitrariamente, al di là di ogni controllo sociale, «dell’insieme dei mezzi di produzione statalizzati, decide le dimensioni dell’accumulo e del consumo, la direzione degli investimenti, […] la ripartizione e lo sfruttamento dell’intero prodotto sociale».
Successivamente, sulla base delle statistiche ufficiali del Gus 5, conducemmo un’analisi della dinamica del reddito nazionale e dei salari reali. La conclusione era che nel nostro sistema, così come nei paesi capitalisti, il salario corrispondeva al reddito minimo di sussistenza. Lasciando da parte il triennio in cui le retribuzioni erano cresciute a causa dell’indebolimento della dittatura dopo la crisi politica del 1956, i salari restavano – grosso modo – allo stesso livello, cioè molto basso, mentre la crescita economica era accompagnata dallo sviluppo dell’industria pesante, da cui dipendeva il potenziale militare del paese. Ciò era in contraddizione con la dichiarata attenzione per i problemi del mondo del lavoro, e si legava invece alla mancanza di una qualsiasi opposizione, al fatto che gli ambienti operai erano privati della possibilità di organizzarsi in sindacati indipendenti dal partito al governo e dal datore di lavoro statale, e inoltre alla spietata repressione delle rivendicazioni salariali, soprattutto quelle che avvenivano in forma di sciopero. «Questo significa», concludevamo, «che l’operaio è sfruttato. Egli produce per sé il minimo di sussistenza, e per lo Stato tutta la potenza che è contro di lui. Il prodotto del suo lavoro gli si ritorce contro come una forza estranea e nemica, dunque non gli appartiene».
Le due ultime frasi erano una deliberata parafrasi delle parole di Karl Marx sull’alienazione del lavoro. Anche la nostra conclusione era formulata nello spirito marxista: dopo aver strappato dalle mani della borghesia i mezzi di produzione, la burocrazia politica aveva preso il posto del suo predecessore. Dominava gli operai e il prodotto del loro lavoro, dunque era la nuova classe dominante. Al polo opposto della struttura sociale si trovava l’antagonista della burocrazia dominante: la classe operaia. Il resto della società ruotava attorno all’asse costituito dal conflitto di queste due classi antagoniste.
Da questa prospettiva esaminavamo i segnali della crisi economica e sociale del sistema, che si potevano scorgere alla metà degli anni Sessanta. Pensavamo che i grandi conflitti generati da quella crisi avrebbero preso la forma dello scontro tra i governi dittatoriali della burocrazia e una classe operaia che si ribellava. La lettura degli annuari statistici (a cui forse attribuivamo un peso eccessivo) e degli indicatori del nuovo piano quinquennale ci faceva giungere alla conclusione che negli anni 1966-70 si sarebbe verificata una considerevole diminuzione dei salari reali, che avrebbe «spinto la classe operaia a insorgere contro la burocrazia e il sistema in difesa della propria esistenza materiale e spirituale».
Nel dicembre del 1970 scontavamo la nostra ormai seconda pena detentiva (stavolta per gli eventi del marzo 1968). Seppi dell’aumento dei prezzi degli alimenti, della rivolta operaia nelle città costiere e della caduta di Gomułka e del suo gruppo da un altoparlante appeso nella mia cella che trasmetteva i giornali radio polacchi. Ben presto, attraverso gli spessi muri dell’istituto di pena di Wołów, quello per i recidivi, mi giunse l’eco delle congratulazioni per le mie esatte previsioni. Non credo che i complimenti fossero giustificati. La rivolta operaia del 1970 schiacciò Gomułka, innalzò al potere Gierek, provocò cambiamenti sostanziali nella politica delle autorità ed ebbe conseguenze sociali la cui portata si rivelò nell’agosto del 1980, ma in sé non fu ancora una rivoluzione. Noi nel 1965 invece eravamo davvero convinti che la rivoluzione operaia bussasse alla porta.
Il nostro programma iniziava per forza di cose dal punto in cui, dopo la crisi del 1956, si era interrotto l’Ottobre polacco: dall’autogoverno operaio. Proponevamo di affidare la gestione delle fabbriche nelle mani dei consigli operai. La pianificazione dall’alto e il sistema centralizzato di produzione e distribuzione dovevano essere eliminati e il controllo dell’economia nazionale doveva essere esercitato tramite meccanismi di mercato, servendosi di strumenti di interventismo economico. Qui si può scorgere l’influenza del programma riformatore presentato alla sua prima seduta (e poi rimasto sulla carta) dal Consiglio economico nel 1957, e forse anche del modello jugoslavo; per noi tuttavia la cosa più importante non erano le idee degli economisti e i risultati delle riforme economiche, ma il bisogno di emancipazione dell’operaio nella fabbrica. «Se sul posto di lavoro l’operaio diventa uno schiavo», scrivevamo, «allora la libertà al di fuori del posto di lavoro diventerebbe subito una libertà occasionale, cioè una libertà fittizia».
Proponevamo anche la creazione di una rappresentanza nazionale delle maestranze operaie, cioè di un consiglio centrale di delegati operai che avrebbe preso le decisioni cruciali in materia di economia nazionale. «Se queste decisioni restassero al di fuori del controllo della classe operaia, essa non sarebbe più padrona né del prodotto che ha fabbricato né del proprio lavoro», scrivevamo con la logica ferrea dei visionari. «L’autogoverno operaio limitato al piano della singola fabbrica diventerebbe inevitabilmente una finzione, che coprirebbe il potere della direzione e il dominio della nuova burocrazia all’interno dello Stato».
Eravamo coscienti del fatto che nessuna democrazia, e dunque neanche la democrazia operaia, è possibile in un sistema monopartitico. Chiedevamo perciò il pluralismo, cioè la totale libertà di formazione di partiti politici, l’abolizione della censura e di ogni limitazione della libertà di parola, di stampa e di riunione, la completa libertà di ricerca e di espressione artistica. All’interno del nostro progetto anarcosindacale di uno Stato di consigli operai, inserimmo così il modello delle libertà civili desunto dalla pratica delle democrazie occidentali. Eravamo però scettici, e persino un po’ sprezzanti, nei confronti del parlamento, sottolineando che nella Repubblica popolare polacca era un simulacro, e negli anni Trenta non aveva impedito la trasformazione della II Repubblica in uno Stato autoritario. Nella nostra idea di democrazia operaia, al parlamento toccava nel migliore dei casi un ruolo di secondo piano, dal momento che il potere sull’economia spettava al sistema dei consigli operai.
Di fronte a questi consigli e allo Stato, gli operai dovevano però avere la possibilità di difendersi. Questa doveva essere garantita, come scrivevamo nel programma, da «sindacati completamente indipendenti dallo Stato, legittimati allo sciopero economico e politico». Ricordo con soddisfazione che proprio questa frase, tratta dalla «Lettera aperta», fu citata nell’istruzione del procuratore generale della Prl Lucjan Czubiński, che nel novembre del 1980 indicava agli organi inquirenti il percorso da seguire nella lotta alla minaccia controrivoluzionaria.
Infine proponevamo la totale eliminazione della polizia politica, e in pratica anche la soppressione dell’esercito regolare, di cui sarebbero rimaste solo l’aeronautica, la marina militare e le unità speciali che utilizzavano tipi di armi tecnologicamente avanzate, poiché in questo caso era indispensabile la presenza di personale altamente qualificato. Il resto, cioè quella che allora si chiamava fanteria, e che adesso sono le forze di terra, doveva essere sostituita da una comune milizia operaia. La nostra motivazione era che un esercito regolare «separa la forza armata dello Stato dalla società, in un modo che rende possibile in ogni momento rivolgerla contro la società stessa». Era possibile utilizzarla per le sanguinose repressioni delle proteste di massa (ci rifacevamo agli eventi di Poznań del 1956) e anche per un colpo di Stato. Finché le forze armate erano organizzate in un esercito regolare, «la cricca dei generali può rivelarsi sempre più forte di tutti i partiti e i consigli operai».
Il pensiero cristiano come sistema di valutazione del mondo non può fare a meno della visione escatologica del Regno di Dio in terra. Solo alla luce di questo Regno futuro si può individuare e condannare tutto il male del mondo. La critica marxista del capitalismo sarebbe impensabile senza la visione utopistica di una futura società senza classi, in cui l’umanità sarà libera da ogni oppressione e ingiustizia. L’utopia contrappone un ordine ideale a un mondo ingiusto. In questo modo indica un orizzonte assiologico, crea un sistema di valori senza il quale la critica rivoluzionaria della realtà fattuale è impossibile. L’orizzonte assiologico dell’utopia è irraggiungibile, ma è indispensabile per avere una visione più acuta. Il capitolo programmatico della «Lettera aperta» era – nonostante tutta la sua goffaggine – un’utopia di questo tipo e svolse questa funzione nel nostro sguardo critico sul sistema.
Nella seconda metà degli anni Sessanta gli intellettuali che avevano letto la «Lettera aperta» tenevano le distanze dai nostri postulati programmatici, ma in larga misura condividevano la nostra critica del sistema. Il linguaggio marxista di quella critica non li disturbava. Al contrario: in quell’epoca il pensiero sovversivo arrivava più facilmente al destinatario se era formulato in categorie marxiste. Oggi è diverso. La terminologia marxista è scoraggiante. Io stesso ho difficoltà a leggere le mie parole di mezzo secolo fa. Mi disturba il nostro dottrinarismo di allora. Tuttavia so che il revisionismo, cioè la variante eretica del marxismo, non è solo un frammento importante della mia personale biografia, ma anche l’anello che ci lega a una storia comune.
Una categoria chiave del marxismo era il concetto di dominio di classe. Nell’ideologia e nella propaganda ufficiali ci si serviva di questa categoria per giustificare il sistema di potere comunista. I privilegi e le storture che si manifestavano in quel sistema venivano sminuiti, e l’assoggettamento dei governati era considerato una difesa necessaria di fronte al capitalismo occidentale. La cosa peggiore infatti era il dominio classista degli sfruttatori, a cui la statalizzazione delle fabbriche e delle banche aveva posto fine. Dopo l’eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione, nessuna diseguaglianza né oppressione avrebbe più avuto i tratti del dominio di classe. Oggi vediamo in questo ragionamento un gioco di parole, un comune sotterfugio, ma all’epoca della mia giovinezza esso paralizzava ogni contestatore.
Il primo che osò profanare il tabù linguistico di questa neolingua fu il dissidente jugoslavo Milovan Đilas. In un libro scritto alla metà degli anni Cinquanta confutava l’equivalenza tra eliminazione della proprietà privata ed eliminazione delle classi. Con stile da pubblicista, senza addentrarsi in sottigliezze sociologiche, Đilas affermava semplicemente che la burocrazia politica, nei paesi governati dai comunisti, «dispone dei mezzi di produzione statale e li utilizza», ne è dunque il proprietario, è cioè la nuova classe dominante. Nella «Lettera aperta» facemmo propria l’idea di Đilas e cercammo di darle una giustificazione. Traemmo ispirazione anche dal lavoro di Stanisław Ossowski Struttura di classe e coscienza sociale, pubblicato nel 1957. In questa monografia il grande sociologo polacco notava che i criteri di divisione di classe possono essere diversi, a seconda dei mutamenti storici che si verificano nel sistema dei rapporti sociali. Il criterio del diritto legale di proprietà dei mezzi di produzione rispondeva ai fondamenti dell’ordine sociale del capitalismo ottocentesco, ma non necessariamente aderisce alle condizioni di sistemi precedenti e successivi. Ai nostri tempi il ruolo principale è svolto dal potere, soprattutto quando diventa onnipotente ed è monopolizzato da un solo gruppo sociale.

La deduzione che nei paesi comunisti la burocrazia politica avesse preso il posto della borghesia e che fosse la nuova classe dominante mirava al cuore stesso del sistema, dal momento che lo delegittimava sul terreno della sua stessa ideologia. Restavamo sempre nell’ambito del revisionismo, perché propugnavamo la ribellione in nome di valori che il sistema promuoveva nella teoria e calpestava nella pratica. Era tuttavia una versione radicale del revisionismo. Non si trattava più di correggere il sistema, ma di abbatterlo. La differenza tra «correggere» e «abbattere» non è un’inezia.

Come se non bastasse, ci appellavamo alla classe operaia, scorgendovi la forza che avrebbe dovuto abbattere il dominio della burocrazia e seppellire il sistema. Era un punto particolarmente sensibile per il partito unico al potere, che si spacciava per l’avanguardia della classe operaia e su questo slogan aveva in larga parte basato il proprio sentimento di legittimità, mentre in realtà aveva una paura mortale delle rivolte operaie. Tre anni e mezzo di prigione possono sembrare una condanna sproporzionata rispetto a quattordici esemplari di un dattiloscritto. Prendendo però in considerazione il contenuto di quel dattiloscritto, posso riconoscere che tre anni e mezzo furono – per quel sistema – una reazione quasi modesta. Il comunismo alla polacca era molto più mite del suo prototipo sovietico. Ho dei validi motivi per fare questa valutazione.

In precedenza – al tempo della destalinizzazione di Khruščëv – una grande rivolta operaia si era verificata nella Repubblica democratica tedesca nel 1953, sotto forma di uno sciopero generale e di impressionanti manifestazioni di piazza a Berlino Est, che però furono soffocate dall’esercito sovietico di stanza nel paese. Gli ambienti operai giocarono un ruolo fondamentale anche in Ungheria nell’ottobre e novembre 1956, ma nel mondo di allora il destino della rivoluzione ungherese era segnato ed essa fu sanguinosamente repressa dall’invasione sovietica.

In questo quadro, la Polonia restava cronicamente l’anello più debole dell’impero sovietico. Fin dal 1956, le proteste di massa si ripetevano ciclicamente, ma l’Unione Sovietica, nonostante i preparativi e le minacce, non si decideva a intervenire in armi nel nostro paese. Ad eccezione del marzo 1968, nei grandi conflitti sociali in Polonia furono gli ambienti operai delle grandi fabbriche a sollevarsi contro il partito e a scontrarsi con la milizia e l’esercito. Così fu a Poznań nel giugno 1956, a Danzica, Gdynia, Stettino ed Elbląg nel dicembre 1970 e a Radom, Ursus e Płock nel giugno 1976. La stessa cosa si può dire dei grandi scioperi, che si diffusero nel paese nel luglio e agosto del 1980, al tempo della rivoluzione di Solidarność del 1980-81, durante gli scioperi contro la legge marziale nel dicembre del 1981, infine durante gli scioperi di maggio e agosto del 1988. Questi ultimi furono in verità meno estesi di quelli del 1980, ma dai generali che governavano il paese furono considerati un preoccupante segnale d’allarme e, in una mutata situazione internazionale, provocarono la loro decisione di cercare un compromesso con l’opposizione.

***

La «Lettera aperta» fu più nota all’estero che in Polonia. Tenevo in mano le edizioni francese, italiana, tedesca, svedese e giapponese – ce n’erano altre di cui avevo sentito solo parlare, come la ceca e l’inglese, e altre che ignoravo. Il nostro testo era stato pubblicato principalmente, anche se non esclusivamente, da effimere case editrici della sinistra radicale negli anni 196669. Era il tempo della rivolta giovanile in Europa e in America. I giovani si ribellavano sia contro il conformismo della società borghese, sia contro il conformismo dei partiti comunisti burocratizzati e della loro mecca moscovita. Il manifesto di due marxisti ribelli di Varsavia destò grande interesse e simpatie tra i contestatori occidentali. Il giovane Daniel CohnBendit, di fronte a un giudice in un processo (non ricordo più se in Francia o in Germania), alla domanda: «Come si chiama?» rispose con orgoglio: «KurońModzelewski». Il giudice naturalmente non capì che cosa volesse dire, e «Dany il Rosso» dovette spiegarglielo. Per i giovani che nel 1968 e nel 1969 alzavano le barricate nelle strade delle città universitarie dell’Europa occidentale, la «Lettera aperta» era una lettura obbligatoria. Pensavo a tutto questo con autentica invidia: perché lì e non da noi?

È una buona domanda, perché costringe a una riflessione approfondita. Mi chiedo se i nostri lettori occidentali comprendessero la «Lettera aperta» nello stesso spirito con cui noi l’avevamo scritta. C’è sempre posto per dubbi del genere, ma non bisogna esagerare. Portando la cosa sul piano degli equivoci, aggireremmo un problema che richiede una seria riflessione. Per prima cosa, penso che ai nostri lettori occidentali ci legasse una somiglianza culturale, una forma di sottotesto, per la quale il testo stesso è un segnale di richiamo. Persone come il già ricordato Daniel CohnBendit, Bernard Guetta o Lionel Jospin intuirono che la nostra «Lettera aperta» restituiva al pensiero marxista il suo antico fascino ribelle. Non c’erano equivoci possibili: questa era davvero la nostra intenzione. Per di più, ho avuto occasione di constatare che anche oggi sono legato ai miei lettori di allora da un comune senso di disagio nei confronti del mondo contemporaneo e dei suoi assiomi.
I miei lettori di sinistra del 1968 presero strade tra loro diverse. Accanto a quelli che rimasero sul terreno della democrazia, ci furono quelli che scelsero la strada della violenza. Non mi capitò mai l’occasione di parlare con dei terroristi. Mi imbattei però – per un puro caso – in quelli che, nella lotta per i propri ideali, erano pronti a utilizzare la violenza in una versione soft. In Italia avevano preso il nome di «autonomi» (non si trattava in questo caso di autonomia nazionale o territoriale, ma di azione indipendente). Si distinguevano dalle Brigate rosse per la tecnica di lotta, invece di usare le pistole utilizzavano catene di bicicletta. Nell’ottobre del 1978, quando le magnanime autorità della Prl mi concessero il passaporto per un viaggio privato in Italia, per tre settimane feci un giro di conferenze sul medioevo italiano in varie università. Era uscito infatti il volume Storia d’Italia 6, in cui era stato inserito il lavoro con cui avevo ottenuto l’abilitazione. Il mio viaggio coincise con le azioni di protesta delle organizzazioni studentesche. A Pisa, il raduno di un gruppo di delegati di queste associazioni fu disperso non dalla polizia, ma dagli autonomi, che non potevano sopportare che al dibattito fosse stato ammesso un rappresentante dei giovani del Pci. Con lo slogan «Non c’è libertà per i revisionisti» (cioè per i moderati del Pci), gli autonomi tirarono fuori le catene dai giacconi e trasformarono la sala in un campo di battaglia. Allora ero a Padova, ma venni a sapere di quel raduno dai racconti degli studenti che erano venuti da Pisa.
A Padova tenni una conferenza sull’Editto di Rotari del 643. Sulla parete opposta dell’aula universitaria si vedeva una scritta fatta con lo spray: «Sparo ergo sum». «Sparo» al posto di «cogito». Ancora oggi non so se l’intenzione di quella scritta postcartesiana fosse sarcastica o se si trattasse invece di un elogio del terrorismo. Forse l’ambiguità era voluta.
Da Padova mi recai a Venezia per motivi sentimentali. A suo tempo vi avevo trascorso un anno con una borsa di studio e volevo rivedere la città a cui erano legati tanti ricordi della mia giovinezza. Su raccomandazione di alcuni amici fui ospitato da una giovane e simpatica veneziana, che viveva in una casa di quattro stanze con il suo fidanzato. Era un uomo di circa trent’anni, con i capelli lunghi e la barba sfatta, vestito con studiata trascuratezza: si vedeva che veniva da una famiglia borghese benestante e aveva idee molto di sinistra. Il giorno seguente al mio arrivo mi chiese come mai conoscessi così bene l’italiano. Risposi che diciassette anni prima ero stato lì con una borsa di studio per un anno.

– E poi?
– Poi non sono più venuto.
– Perché?
– Perché non avevo il passaporto.
– E perché non avevi il passaporto?
– Perché ero in contrasto con le autorità.
– Su che cosa?
– Con un amico avevo scritto una lettera aperta al partito comunista.

Il giovane si rianimò:

– Sei Kuroń?
– No, sono Modzelewski.
– Ragazzi, è fantastico! Vieni qui al bar dietro l’angolo, ho un appuntamento con degli amici, saranno contenti.
Al bar dietro l’angolo c’erano tre ragazzi, anche loro di circa trent’anni, anche loro trasandati nel vestire, con i capelli lunghi e la barba sfatta.
«Ragazzi, lui è Karol Modzelewski!», disse senza premesse il fidanzato della mia padrona di casa.
Gli altri mi accolsero con un sonoro «Ooh!» e iniziarono subito a subissarmi di domande molto dettagliate sulla «Lettera aperta». Sembrava che l’avessero studiata a fondo e la conoscessero a menadito. Sentivo, senza volerlo, la vanità gonfiarsi nel mio petto. Commosso di avere a che fare con una cerchia di interlocutori così devota, anche se esigua, risposi alle loro domande, dopo di che io stesso domandai loro se appartenessero a qualche organizzazione. «Sai», iniziarono a spiegare, «c’è adesso in Italia un nuovo movimento, gli autonomi…».
Lo sapevo. Sentii che la vanità si stava sgonfiando dentro di me con un sibilo, come quando si buca un pallone. L’uomo propone e Dio dispone. A volte troppo lontano da ciò che si è proposto.*

(traduzione di Francesco Groggia)

NOTE
1 Il termine «revisionismo» è qui utilizzato nel significato che aveva in ambito strettamente marxista e si riferisce ad ogni tentativo di revisione dei fondamenti ideologici del marxismo, n.d.t.
2 In A.D. Sakharov, Sakharov Speaks, Vintage Books, New York 1975, pp. 55114; tr. it. di C. Bianchi, Progresso, coesistenza e libertà intellettuale, Etas Kompass, Milano 1968.
3 Contenuto in una raccolta emblematica degli intellettuali riformatori, «Inovo nedano» (Non esiste altra via), pubblicata a Mosca nel marzo 1988; tr. it. di B. M. Vannutelli in A.D. Sacharov, Il mondo fra mezzo secolo: pace, progresso e diritti dell’uomo, SugarCo, Milano 1992.
4 In Ch. Gati, The Bloc that Failed: SovietEast European Relations in Transition, Indiana University Press, Bloomington 1990, p. 178.
5 Z. Mlynář, Le froid vient de Moscou, Gallimard, Paris 1978.
6 Molti di loro, prima di trasferirsi a Praga, avevano lavorato nel dipartimento dei paesi dell’Est europeo sotto la direzione di Andropov.
7 Pravda, 11 luglio 1990.
8 M. Kundera, «Český úděl»; V. Havel, «Český úděl?», Literární Noviny, 52, 1/2007.
9 P. Berman, «Les révoltes de 1968. Une fraternité incohérente», in F. Fejtő, J. Rupnik (a cura di), Le Printemps tchécoslovaque 1968, Complexe, Bruxelles 1999, p. 267; cfr. anche il suo libro dedicato all’eredità intellettuale e politica del 1968: P. Berman, The Tale of Two Utopias, W.W. Norton & Company, New York 2000; tr. it. di P. Arlorio, F. Salvadori, S. Testa, Sessantotto: la generazione delle due utopie, Einaudi, Torino 2006.
10 M. Šimečka, Le rétablissement de l’ordre, La Découverte, Paris 1979; tr. it. di L. Kámen, Lezioni per il ristabilimento dell’ordine: contributo alla tipologia del socialismo reale, edizioni e/o, Roma 1982.
11 Espressione che significa «elezioni truffa», era uno degli slogan del Sessantotto parigino, n.d.t.
12 In Student (Praga), 10 aprile 1968.
13 M. Kundera, prefazione al romanzo di J. Škvorecký, Miracle en bohême, Gallimard, Paris 1978, p. 4. E Kundera aggiunge: «Il maggio parigino metteva in discussione la cosiddetta cultura europea e i suoi valori tradizionali. La Primavera di Praga fu la difesa appassionata della tradizione culturale europea nel senso più ampio e comprensivo del termine (difesa tanto del cristianesimo come dell’arte moderna, in quanto negati entrambi, in parallelo, dal potere). Noi tutti abbiamo lottato per avere il diritto di seguire questa tradizione, minacciata dal messianismo antioccidentale del totalitarismo russo». (Il romanzo di Škvorecký è uscito in Italia nel 2001 per i tipi di Fandango, con il titolo Il Miracolo, nella traduzione di G. Dierna, ma senza la prefazione di Kundera, n.d.t.).
14 M. Hauner in Student (Praga), 24 aprile 1968.
15 Intervista concessa all’autore nel maggio 1978 e pubblicata in L’Autre Europe, n. 20, 1989, pp. 115117.
16 R. Richta, Civilizace na rozcesti, Svoboda, Praga 1968, La Civilisation au carrefour, Anthropos, Paris 1969; tr. it di G. Colorni, P. Pescetti, Civiltà al bivio, le conseguenze umane e sociali della rivoluzione scientifica e tecnologica, Franco Angeli, Milano 1968.
17 Il movimento del marzo 1968 in Polonia parte dalla protesta contro il divieto di rappresentare la pièce di Mickiewicz Gli Avi.
18 V. Havel, «La citoyenneté retrouvée», introduzione a F. Fejtő, J. Rupnik (a cura di), op. cit., pp. 1113.
19 Student, 10 aprile 1968.
20 Si noti che il libro simbolo dei «situazionisti», La società dello spettacolo di Guy Débord, è stato pubblicato a Praga solo di recente: la critica sessantottina ebbe scarsa eco in Cecoslovacchia, nel 1968 come durante la normalizzazione. Soltanto oggi alcuni dei suoi aspetti diventano pertinenti.
(29 aprile 2019)



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