Kirmizi fularli: la morte di Ayse Deniz Karacagil, il Fazzoletto rosso dell’internazionale per le libertà

Dacia Maraini

Da Gezi Park alla lotta contro l’Isis. Morta a Raqqa “Cappuccio Rosso”. La giovane turca era stata condannata a 100 anni per le proteste del 2013. Fuggita, si era unita ai combattenti curdi. La sua storia raccontata da Zerocalcare.

, da il Corriere della Sera, 2 giugno 2017

È come se l’avessimo conosciuta questa ragazza piena di vita e di coraggio. Ci brucia il cuore saperla morta: una donna risoluta che non si è mai piegata, non ha mai rinunciato alle sue idee. Non so come sia morta, ma la immagino in prima linea, generosa e inarrestabile. Non perché volesse morire: non era una innamorata della morte come quei lugubri figuri che si buttano sulla folla con l’idea di esplodere uccidendo più innocenti possibile, feroci di una ferocia senza senso, per puro delirio suicida.

Ayse Deniz Karacagil amava la vita e voleva salvarla ai tanti che venivano quotidianamente perseguitati e minacciati. È morta sul fronte di Raqqa per difendere il suo popolo curdo, ma anche la nostra idea di libertà e di vita.
Lo so che in tanti perdono la vita, che in guerra parlano solo le armi e il resto è silenzio. Ma Ayse ci commuove perché aveva una generosità e un ardimento che ci viene raccontato dalle sue scelte: in prima fila quando si è trattato di protestare contro il taglio di alberi centenari a Gezi Park, Istanbul, in prima fila quando la gente è scesa in strada per chiedere libertà per il popolo curdo angariato dal regime di Erdogan, e per questo è stata in prigione, in prima fila quando ha deciso di combattere contro i terroristi dell’Isis.

Non voleva fare l’eroina, ma pure lo è diventata, finendo per rappresentare tutti noi, la nostra immaginazione, la nostra indignazione di fronte alla follia suicida dei fanatici religiosi, il nostro profondo desiderio di pace.
 
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, da La Stampa, 2 giugno 2017

Kirmizi fularli, Cappuccio Rosso, non c’è più. La ragazza-simbolo della ribellione degli studenti turchi e della lotta dei curdi contro lo Stato Islamico, è stata uccisa l’altro giorno durante un conflitto a fuoco in territorio siriano, non lontano dal confine turco. Tutti, dentro e fuori il Paese, la conoscevano per il suo berretto, da cui deriva il soprannome, e la sua storia, fatta di un desiderio di libertà per il quale non ha esitato a sacrificare la sua vita e compiere scelte estreme.

Ayse Deniz Karacagil aveva appena 24 anni e quattro anni fa aveva partecipato alla rivolta di Gezi Park, di cui in questi giorni ricorre l’anniversario, e dove l’allora premier, Recep Tayyip Erdogan, si trovò di fronte a una piazza di milioni di persone che chiedevano meno corruzione e più rispetto dei diritti fondamentali e della libertà di stampa. Una rivoluzione mancata, repressa dalla polizia e dopo la quale è iniziata una deriva autoritaria inarrestabile da parte del presidente, con il commissariamento del suo stesso partito, la repressione dopo il golpe del 15 luglio 2016 e il referendum dello scorso 16 aprile, che gli ha garantito un potere pressoché illimitato.

Ma quattro anni fa, Ayse e altre decine di migliaia di giovani, che Erdogan aveva definito «çapulcular», ossia delinquenti, hanno provato a sfruttare quella che sapevano essere l’ultima occasione per cercare di cambiare il corso degli eventi. La giovane poi era finita sotto processo per resistenza a pubblico ufficiale e associazione a organizzazione terroristica. Condannata in primo grado a 103 anni di reclusione, uscita temporaneamente dal carcere in attesa del procedimento di appello, ha preso la decisione estrema: lei, turca, di unirsi alla guerriglia curda. A quel Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, che è un’organizzazione separatista e terroristica e che nei suoi attentati colpisce non solo militari, ma anche decine di civili. Quel movimento, che persegue i suoi fini con la violenza, ma che proprio in quei mesi, insieme con i curdi siriani dello Ypg, iniziava, da solo, a contrastare l’espansione dello Stato Islamico via terra, mentre la Turchia, al contrario, era accusata di collaborare con il Califfo Al-Baghdadi in chiave anti curda e anti siriana.

Il fumettista Zerocalcare aveva incontrato Cappuccio Rosso durante il suo viaggio nel Sud-Est della Mezzaluna e in Nord Iraq e l’aveva immortalata nel suo libro Kobane Calling, dal nome della cittadina assediata per mesi e divenuta il simbolo della resistenza curda all’Isis. «È sempre antipatico puntare i riflettori su una persona specifica, in una guerra dove la gente muore ogni giorno – ha scritto sulla sua pagina Facebook -. Però se incontriamo qualcuno poi ce lo ricordiamo e quel lutto sembra toccarci più da vicino, a morire sul fronte di Raqqa contro i miliziani di Daesh è stata Ayse Deniz Karacagil, la ragazza soprannominata Cappuccio Rosso. Turca, condannata a 100 anni di carcere dallo Stato turco per le proteste legate a Gezi Park, aveva scelto di andare in montagna, unirsi al movimento di liberazione curdo invece di trascorrere il resto della sua vita in galera o in fuga. Da lì poi è andata a combattere contro Daesh in Siria e questa settimana è caduta in combattimento». Il fumettista non ha voluto aggiungere altri commenti, spiegando che l’aveva vista solo una volta e di non voler fare presenzialismo sulla sua pelle.

Ayse era consapevole della sua scelta e di tutte le contraddizioni che portava in seno. Credeva in una Turchia più aperta, più democratica, dove turchi e curdi potessero tornare a parlarsi e convivere pacificamente. «Qui si respira un’aria di resistenza – aveva raccontato nel 2014 in un’intervista realizzata a Kandil, dove il Pkk ha una delle sue basi principali -. Le donne sono unite, sono più autonome e hanno più potere decisionale». Cappuccio Rosso aveva poi auspicato che le mamme turche e quelle curde potessero iniziare a incontrarsi e a parlare. Quelle mamme che ogni anno vedono decine dei loro figli, spesso militari di leva, uccisi negli attentati del Pkk a causa di una guerra fra Stato turco e organizzazione che dura da 40 anni, che è costata oltre 45mila morti. Di mezzo c’è una minoranza, quella curda, da 20 milioni di persone, che non è ancora riuscita a vedere riconosciuti i suoi diritti e che adesso ha centinaia di militanti e simpatizzanti in carcere. La madre della giovane ha appreso della sua morte dai social. Quando Ayse decise di abbracciare la lotta armata dichiarò di capirla, aggiungendo che la violenta repressione di Gezi Park aveva spinto sua figlia ad andare a combattere nel Sud-Est del Paese o nel Nord dell’Iraq.

In quei territori caldi come una fornace in estate e freddi come un cimitero d’inverno, dagli spazi che si estendono a perdita d’occhio e che comunicano un senso di libertà. Quella che nella Turchia oggi sembra sempre più negata e dove anche il ricordo di Gezi Park diventa, di anno in anno, più sbiadito.

(3 giugno 2017)



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