Kosovo, l’Europa è ancora lontana

Antonia Battaglia

“Ci sentiamo isolati, chiusi in una situazione molto difficile”. La nuova strategia di Strasburgo per l’allargamento dell’Ue ai Balcani occidentali non ha dato alcuna prospettiva chiara a Pristina, vincolandone il futuro europeo alla normalizzazione dei rapporti con Belgrado. Un grave errore che rischia di aumentare le tensioni e i problemi interni del Paese.

È stata presentata due settimane fa alla riunione plenaria del Parlamento Europeo a Strasburgo la strategia di allargamento dell’Unione Europea ai Balcani occidentali. Il documento, intitolato ‘Una prospettiva credibile per l’allargamento ai Balcani occidentali’, indica la via per i sei paesi (Serbia, Montenegro, Bosnia Herzegovina, Macedonia, Albania e Kosovo) per l’integrazione europea, una vera road map affinché entro il 2025 i candidati compiano progressi irreversibili sulla strada dell’integrazione europea.

Ma se la strategia premia diverse realtà, essa rappresenta una grave delusione per il Kosovo. Perché se è vero che nella visione di Bruxelles le porte dell’Unione Europea si aprono sulla base del merito, in realtà l’aver concesso l’adesione all’Europa alla Serbia e agli altri Paesi nel 2025 e non aver dato alcuna prospettiva chiara e definita al Kosovo, è stato un errore dalle gravi conseguenze. La promessa fatta ai Kosovari, infatti, è solo quella di una vaga ed indicativa presa di coscienza della loro esistenza nel continente, che non lega l’Unione a nessuna azione formale.

Il documento stabilisce un percorso definito per gli altri 5 Paesi, ma per il Kosovo dichiara solo che il Paese ha “l’opportunità di un progresso sostenibile attraverso l’implementazione degli accordi di stabilizzazione e associazione (SAA) e di un avanzamento sul cammino europeo una volta che le circostanze oggettive lo permetteranno”. Nulla di più.

Se la strategia, da una parte, rappresenta una rivoluzione in fatto di politica estera europea (il Presidente della Commissione Juncker aveva indicato, ad inizio mandato, che l’allargamento non rientrava nelle priorità degli obiettivi politici della sua Commissione), la sua voluta vaghezza riguardo al Kosovo la penalizza. Assicurare, infatti, che un paese con un tale carico di problemi possa davvero rimanere ancorato alla prospettiva europea e possa non prendere la strada, pericolosa, del risentimento, dell’instabilità interna, dell’abbandono delle riforme dello stato di diritto, delle leggi anti-corruzione che l’Europa chiede, necessiterebbe di ben altra volontà politica e di azioni chiaramente definite.

È certamente vero che l’allargamento, per la prima volta in modo ufficiale, si rivolge anche al Kosovo, ma gli obiettivi sono impalpabili e legati alla normalizzazione dei rapporti con Belgrado.

Kosovo e Serbia, infatti, vengono stretti insieme dalla nuova strategia in una morsa pericolosa. Legare il futuro europeo dei due Paesi alla risoluzione dei loro rapporti come condizione sine qua non rappresenta un grave errore diplomatico: concedere al Kosovo opportunità pari a quelle concesse alla Serbia, lavorare concretamente allo sviluppo economico e sociale, al ricambio della classe politica e alla formazione delle giovani generazioni costituirebbe invece l’arma migliore per risolvere in breve tempo la questione. Condizionare l’entrata nell’Unione alla risoluzione delle dispute del confine, al contrario, rischia di aumentare le tensioni ei di creare gravi cristallizzazioni.

In vista del Summit tra i vertici dell’UE e i leader dei 6 paesi previsto a Sofia per il prossimo 17 maggio – il primo dedicato ai Balcani dopo quello di Thessaloniki del 2003, che vide la partecipazione di una delegazione kosovara capeggiata dal Rappresentante delle Nazioni Unite a Pristina che accompagnava i leaders delle due etnie – l’Unione Europea dovrebbe fare un passo avanti ulteriore rispetto all’attuale strategia generale, poco convincente, per assicurarsi di tener stretto il Kosovo agli impegni formali presi attraverso lo “Stabilisation and Association Agreement” (SAA) firmato nel 2015.

Da una parte la via dell’allargamento e di un futuro europeo per una regione che fa parte geograficamente dell’Europa e la cui stabilità e il cui stato di diritto sono fondamentali per i paesi dell’Unione, è stata una scelta di profonda consapevolezza politica, il cui merito e coraggio vanno riconosciuti a questa Commissione. Dall’altra penalizzare il piccolo stato al centro dei Balcani è una scelta poco lungimirante.

E’ parsa infatti insopportabile a Pristina questa blanda presa di coscienza dell’urgenza di una prospettiva definita: la strada appare molto ardua per un paese il cui status rappresenta ancora una questione difficile per ben cinque Paesi membri dell’Unione che non hanno ancora riconosciuto la sua indipendenza; un paese i cui leaders in diversi casi hanno una storia pesante sulle spalle e che, stretti tra la politica aggressiva di Belgrado e le incertezze europee, non possono guardare al di là del momento presente.

Sono diversi i punti difficili da affrontare in Kosovo al momento. Il primo è la questione del riconoscimento dello status: il 17 febbraio si sono festeggiati 10 anni di indipendenza, ma i sentimenti della popolazione e della classe politica erano poco festosi. Ci si chiedeva, a Pristina, cosa ci fosse da festeggiare perché i sentimenti dominanti sono quelli di forte demotivazione e frustrazione.

La questione della liberalizzazione dei visti non è risolta: i kosovari non possono viaggiare, a causa del mancato riconoscimento dello status. Il Kosovo è un paese in cui il 35 per cento della popolazione ha meno di 24 anni: giovani con aspirazioni europee molto forti, iper-connessi digitalmente, assetati di studio, prospettive, innamorati dell’idea dell’Europa, ma delusi nelle loro aspettative dalle difficoltà della prospettiva europea e dalla mancata risoluzione di problemi interni connessi ad un complicato ricambio della classe politica.

I rapporti europei appaiono deludenti e la leadership kosovara si lamenta del fatto che alla Serbia, con la quale il Kosovo ha in piedi il dialogo formale che si svolge a Bruxelles sotto l’egida dell’Alto Rappresentante dell’Unione per la politica estera, la Commissione Europea conceda tutto in termini di prospettiva di ingresso nell’Unione.

La Serbia è un paese con delle innegabili e gravi difficoltà interne, che svolge un ruolo capitale nella regione: la strategia della Commissione chiede ad ambedue le entità di risolvere il problema legato al confine, ma il Kosovo cosa ha da guadagnare senza indicazioni sul suo futuro?

“Ci sentiamo isolati, chiusi in una situazione molto difficile”, ha detto Bekim Çollaku, Capo di Gabinetto del Presidente del Kosovo Hashim Thaci, incontrato pochi giorni fa a Pristina. Secondo Çollaku, ex Ministro dell’Integrazione Europea, solo l’Unione Europea può risolvere con coraggio la questione del Kosovo e dare una prospettiva europea accompagnando il Paese nel processo di normalizzazione delle proprie istituzioni. Deludere ulteriormente le aspettative vorrebbe dire rimandare la risoluzione di una questione che rappresenta un ostacolo di enorme portata per lo sviluppo di tutti i Balcani.

“L’Unione Europa non ha un approccio univoco alla questione del Kosovo e ciò non deve rappresentare una scusa per lasciare il Kosovo senza una prospettiva reale di entrata nell’Unione. Non ci può essere stabilità nei Balcani se non si offrono le stess
e opportunità a tutti i paesi candidati ed aspiranti candidati. Un approccio che faccia una distinzione tra corridori di prima classe e chi rimane nelle retrovie è sbagliato”, ha aggiunto Çollaku.

Le tensioni inter-etniche sono normalizzate: chi scrive ha potuto constatarlo di recente recandosi a Mitrovica Nord e Sud, ed in altre zone serbe come Gračanica. Un progresso incredibile rispetto a quanto accadeva 15 anni fa. Le due etnie e le persone vivono in un clima di normalità. Il problema non è più quello dei rapporti tra i serbi, gli albanesi, i rom e le altre minoranze: il problema pare esser diventato di nuovo Belgrado e le strumentalizzazioni politiche che controllano i processi.

Nenad Rašić, uomo politico e leader dell’opposizione serba, incontrato nella cittadina serba di Gračanica, a pochi chilometri da Pristina, ha espresso la sua grande delusione per il presente del Kosovo. “Il Kosovo non ha nulla da festeggiare per il decimo anniversario dell’indipendenza. I Serbi del Kosovo sono manipolati da Belgrado e ignorati da Pristina. A cosa possiamo aspirare? Cosa ci aspetta?” ha dichiarato Rašić.

Mitrovica è una città di confine tra due stati, non tra due etnie. Perché le persone hanno contatti, lavorano insieme. È la politica a divederle e non il contrario. Il ponte sul fiume Ibar è diventano un simbolo: un mausoleo per le persone, ma la differenza e la distanza politica e amministrativa tra le due parti della città sembra incolmabile.

Le targhe delle auto con la scritta Republic of Kosovo (RKS) non vanno a Mitrovica Nord: si scende dalla macchina, si toglie la targa e si guida senza o, come ha fatto chi scrive, si lascia la macchina a Sud e si va a piedi.

Mitrovica Nord non sembra più far parte del Kosovo, la divisione appare forte e netta. Sono in tanti quelli che hanno raccontato di questo sentimento di isolamento e abbandono da parte di Belgrado, della difficoltà per i serbi del Kosovo di immaginare un futuro nel Kosovo a maggioranza albanese (e non per tensioni inter-etniche ma per mancanza di lavoro e di prospettiva) e dell’impossibilità di continuare a vivere in una zona che appare priva di orizzonti, senza diritti, e con poca rappresentanza reale ed efficace a livello istituzionale.

I serbi del Nord del Kosovo vorrebbero poter avere rappresentanza nel dialogo tra Pristina e Belgrado. Minoranza nella minoranza, vorrebbero poter portare alle istituzioni europee la loro voce, i loro bisogni che, a detta di molti, vengono ignorati da Pristina e strumentalizzati da Belgrado.

E quando manca la prospettiva, lo stallo politico diventa immediato. Tenere il Kosovo legato ad una mera eventualità non farà che aumentare il deficit di democrazia, la povertà (i fondi europei che arrivano nella regione sono oggetto di grande attenzione da parte della criminalità organizzata), le difficoltà di ordine interno e non darà quella scossa necessaria ai fini di un reale cambio di passo politico interno.

A Mitrovica la gente vive tra una presenza internazionale che non riesce più a far fronte a una situazione di corruzione dilagante ed istituzioni kosovare la cui autorità ha valore solo fino al Ponte sul fiume Ibar.

Solo un’Europa ambiziosa e lungimirante può operare questo cambiamento profondo, uscendo dalle logiche stringenti del cauto impegno burocratico e accompagnando il processo con un profondo intervento politico.

Mimoza Ahmetaj, ex Ambasciatore del Kosovo a Bruxelles ed ex Ministro dell’integrazione Europea, è più positiva e sottolinea che tuttavia la strategia recentemente pubblicata da Bruxelles “resta comunque una buona notizia perché riconosce il Kosovo in quanto Paese e avvia il processo di riconoscimento del Kosovo da parte della Serbia, con la demarcazione di un confine”.

Critico nei confronti dell’Unione Europea resta Albin Kurti, capo del partito di opposizione Vetëvendosjei, figura chiave della storia del Paese, detenuto anni in una prigione di Belgrado durante l’era Milosevic. Questione fondamentale, secondo Kurti, è il nuovo tribunale per i crimini di guerra.

L’Unione Europea, infatti, ha imposto alle autorità kosovare la creazione delle Kosovo Specialist Chambers, un tribunale locale per i crimini di guerra che nasce da un report del 2011 del Consiglio d’Europa. Il Tribunale dovrà giudicare i crimini commessi dagli albanesi negli anni 1998-2000.

Una iniziativa che ai Kosovari è sembrata terribile: un tribunale etnico, imposto dalle istituzioni estere, che non ha un equivalente per l’altra etnia e che avrà come solo outcome il rafforzamento del sentimento di condanna di una parte della popolazione rispetto all’altra.

Un’operazione di scarsa lungimiranza, perché se la necessità di giudicare i crimini di guerra è uno dei fondamenti dello stato di diritto, essa non avrebbe dovuto esser realizzata esclusivamente su base etnica ma estesa ad ambedue le principali etnie del Kosovo. Una mossa che umilia ulteriormente un Paese che al momento non ha futuro, non ha rappresentanza politica internazionale, è stretto tra problemi interni molto gravi e risente del colpevole atteggiamento dei paesi occidentali che hanno preferito mantenere uno status quo politico pericoloso pur di non perdere una stabilità di comodo e di facciata, che permettesse loro un controllo sulla regione.

Florina Duli-Sefaj, Presidente del think-thank “Kosovo Stability Initiative” sottolinea la mancanza di unione interna all’Unione Europea come questione alla base della mancanza di determinazione della strategia europea per i Balcani. “L’Europa non agisce come un corpo unico” – dice Duli-Sefaj – “e la prova di questo è il fatto il Kosovo è stato messo in panchina. La strategia che l’Unione Europea ha pubblicato aumenterà il potere degli autocrati nella regione, specialmente in Serbia”.

Si parla di elezioni anticipate, perché il Governo dell’attuale premier Ramush Haradinaj, da sempre vicino agli Stati Uniti, non pare essere all’altezza della difficile situazione interna. Una sola cosa appare, a questo punto, in grado di aiutare il Kosovo e non saranno le riforme decise a tavolino ma una azione politica determinata e lungimirante, che indichi una prospettiva futura per questo piccolo stato e che lo accompagni nella sua azione di cambiamento politico interno slegata dal futuro della Serbia. Il Kosovo ha bisogno di fiducia e di prospettive, e che l’Europa cambi il suo punto di vista concedendo non solo delle mere speranze, ma indicando in modo chiaro la certezza del punto di arrivo del processo di cambiamento richiesto.

(24 febbraio 2018)





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