L’alcaldessa non molla. Ada Colau è di nuovo sindaca
Steven Forti
Dopo giorni di trattative la candidata di Barcelona en Comú viene confermata prima cittadina grazie all’alleanza coi socialisti e ai voti decisivi di Manuel Valls. Furenti gli indipendentisti. Per lei la strada sarà in salita ma sancisce, anche a livello simbolico, la sopravvivenza del laboratorio Barcellona e del percorso neomunicipalista delle città ribelli.
e Giacomo Russo Spena
La notte del 26 maggio, Ada Colau, visibilmente emozionata, aveva ringraziato i cittadini per l’esperienza da sindaca. Sembrava un discorso di addio. Il giorno dopo, infatti, i media nazionali ed internazionali, un po’ frettolosamente, sancivano la sua definitiva sconfitta, pur sottolineando come avesse “tenuto” – ma non a sufficienza – con il 20,7% preso alle urne.
Chi scrive, già a caldo, aveva però aperto ad un possibile scenario – fatto di alleanze – che avrebbe reso possibile una sua riconferma. Quell’ipotesi è divenuta realtà: Ada Colau è nuovamente sindaca. “Alcaldessa” è l’urlo di giubilo che proviene dal suo entourage e dai simpatizzanti di Barcelona en Comú riuniti in una plaça Sant Jaume di Barcellona dove molti indipendendisti si sono dati appuntamento per attaccare duramente Colau. Per lei ci saranno altri 4 anni per continuare quel percorso neomunicipalista (e di cambiamento) già avviato nel 2015. Nella speranza che Barcellona continui ad essere un riferimento mondiale per le politiche di giustizia sociale, inclusione e democrazia.
In molti, in Italia, si chiedono cosa sia avvenuto in queste ore: come ha fatto Colau a divenire sindaca avendo ottenuto soltanto 10 consiglieri – quando la maggioranza in consiglio comunale è 21 – e meno voti di Ernest Maragall, il candidato di Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), partito indipendentista di centro-sinistra?
Praticamente, dal voto del 26 maggio nessuno era uscito vincitore. Maragall, ex dirigente socialista e fratello di Pasqual, l’ex sindaco socialista delle Olimpiadi del 1992, era giunto primo con il 21,3% ma aveva conquistato solo 10 consiglieri, gli stessi di Barcelona en Comú. Aggiungendo i voti di Junts per Catalunya (5), formazione di destra indipendentista guidata dell’esule Carles Puigdemont, sarebbe arrivato a 15: sempre meno dei 21 consiglieri necessari. Maragall poteva governare in una condizione di minoranza, come fatto da Ada Colau nel primo mandato, ma, per la legge spagnola, il candidato della lista più votata si converte automaticamente in sindaco solo nel caso in cui non si formi una maggioranza alternativa. Qui è ritornata in scena Ada Colau. Fin dalle prima trattative l’ex portavoce della Plataforma de Afectados por la Hipoteca ha capito di essere l’ago della bilancia e ha vagliato le varie possibilità in campo. Vediamo quali e perché sono poi decadute.
Prima opzione: l’idea di “accordo di sinistra per la città” che andava dai socialisti a Erc e che aveva in Barcelona en Comú il suo perno. Era l’ipotesi che Colau preferiva e che rispondeva, in fin dei conti, alla volontà dei cittadini espressa nelle urne: le tre formazioni, difatti, dispongono di 28 consiglieri su 41 e hanno ottenuto, nel congiunto, oltre il 60% dei voti. Ma i veti incrociati tra i socialisti e gli indipendentisti di Erc l’ha resa impossibile, così come il fatto che Maragall volesse a tutti i costi la poltrona da sindaco. Una cosa, tra l’altro, piuttosto strana visto che in questi ultimi giorni Erc è arrivata ad accordi con i socialisti in altri comuni della Catalogna. Però a Barcellona non hanno voluto, perdendo un’occasione forse unica per rompere la politica dei “blocchi” (indipendentisti vs anti-indipendentisti) e ricostruire i ponti di dialogo abbattuti negli ultimi tempi per risolvere la crisi catalana.
Seconda opzione: accettare la proposta di Esquerra Republicana di entrare a far parte di un governo targato Maragall. Si sarebbe trattato di un esecutivo caratterizzato dall’indipendentismo – Maragall fin dal primo momento ha ripetuto che la sua priorità era convertire Barcellona nella capitale della Repubblica catalana – e da posizioni meno radicali (sul piano urbano e sociale) rispetto a quelle proposte da Barcelona en Comú, dove Ada Colau avrebbe fatto da “ruotino” del sindaco Maragall. È bene ricordare che Erc governa da un lustro la regione con la destra catalana di Convergència Demòcratica de Catalunya (ora Junts per Catalunya), formazione infestata di scandali di corruzione, applicando dure misure di austerity. Per di più, un vice-sindaco non ha nessun peso nella giunta: è il sindaco chi sceglie le priorità e la linea politica, oltre ad avere visibilità nazionale e internazionale. Dopo aver consultato gli attivisti di Barcelona en Comú con una votazione interna (solo il 28% ha votato per un accordo di governo con Erc), Colau ha scartato questa possibilità.
Riguardo all’indipendentismo e le posizioni dell’alcaldessa, è bene ricordare che Colau, che si è sempre dichiarata anti-nazionalista, si è spesa, anche nel suo discorso dopo la rielezione, a favore del dialogo politico e della liberazione dei politici indipendentisti sotto processo a Madrid: una posizione coraggiosa, ma tacciata di “equidistante” dagli opposti estremismi. Chi cerca una soluzione politica e dialogata alla crisi catalana rischia di rimanere schiacciato tra l’incudine e il martello, non è una novità, purtroppo. Lo si è visto con Barcelona en Comú nell’ultimo biennio.
Terza opzione: l’opposizione. Fregarsene delle possibili alleanze per il governo della città e stare all’opposizione di un esecutivo in minoranza di Erc con Maragall sindaco. La volontà di Colau di proseguire un percorso, già iniziato e che ha ottenuto ottimi risultati, ha impedito il concretizzarsi di questa strada, che sicuramente sarebbe stata la più comoda (ma forse, a lungo termine, la più controproducente).
Ha prevalso la quarta opzione – quella intrapresa e voluta, tra l’altro, dagli attivisti che si sono espressi tramite una votazione interna a Barcelona en Comú: il 71% ha votato a favore dell’accordo con il Psc – di un nuovo governo di sinistra, capeggiato da Colau, con il sostegno dei socialisti. Su ciò ha pesato anche il nuovo scenario politico spagnolo dopo le amministrative di maggio con il pessimo risultato di Unidas Podemos e la sconfitta delle confluenze municipaliste in molte città dove avevano governato negli ultimi quattro anni (Madrid, Saragozza, Pamplona, La Coruña, Santiago de Compostela, Ferrol, Badalona). Dopo il 26 maggio di “città ribelli” sono rimaste solo Cadice e Valencia, per quanto in questo secondo caso in modo peculiare (un’alleanza tra i regionalisti valenzani di Compromís e i socialisti, senza Podemos che non è entrato nel consiglio comunale). Mantenere Barcellona era dunque fondamentale anche in una logica spagnola per evitare che il ciclo del cambiamento si chiudesse definitivamente.
Il fatto, però, è che i voti dei consiglieri eletti di Barcelona en Comú (10) e del Psc (8) non erano sufficienti per raggiungere la maggioranza assoluta (21). Ma il giorno successivo alle elezioni, lasciando tutti a bocca aperta, Manuel Valls aveva dichiarato che avrebbe regalato i su
oi voti a Colau – se avesse siglato un accordo con i socialisti – per evitare che Barcellona cadesse in mano degli indipendentisti. E così è stato: nella sessione di investitura hanno votato a favore di Colau i 10 consiglieri di Barcelona en Comú, gli 8 del Psc e 3 provenienti dalla lista di Manuel Valls. È bene precisare che la lista di Valls, Barcelona pel Canvi – Ciutadans, è una lista capitanata dall’ex premier francese a cui Ciudadanos, il partito di Albert Rivera, si è sommato e ha dato appoggio. Valls ha scelto la metà dei candidati della lista tra figure indipendenti con un passato in diverse formazioni politiche (tanto a sinistra come nel centro-destra).
Mentre a livello nazionale si stanno limando le differenze tra il Psoe di Pedro Sánchez e Unidas Podemos di Pablo Iglesias per un governo delle sinistre (vedremo di che tipo a inizio luglio quando si terrà la sessione di investitura a Madrid: governo di coalizione, di cooperazione o monocolore del Psoe con un appoggio esterno di Unidas Podemos), così Colau a Barcellona ha siglato un accordo coi socialisti, per poi approfittare del “regalo” di Valls. I tre consiglieri di Ciudadanos eletti nella lista di Valls, infatti, non hanno appoggiato Colau, ma hanno votato scheda bianca. I voti a favore sono giunti dall’ex premier francese e da altri due consiglieri indipendenti della sua lista, Celestino Corbacho (ex ministro socialista con Zapatero e sindaco per 14 anni di L’Hospitalet de Llobregat, nell’hinterland di Barcellona) ed Eva Parera, una ex senatrice di Unió Democràtica de Catalunya, partito democristiano che si è alleato ai socialisti in Catalogna negli ultimi anni. Valls avrebbe sostenuto Colau per responsabilità e perché considerata un male minore.
La decisione di Valls, tra l’altro, ha creato non poche tensioni con Rivera e la dirigenza di Ciudadanos che nel resto della Spagna, tranne qualche eccezione, si è alleata con il Partido Popular e l’estrema destra di Vox. Vedasi i casi di Madrid e Saragozza. Per di più, Rivera ha detto chiaramente a Sánchez che in chiave nazionale può scordarsi un voto a favore o un’astesione del suo partito. Valls, vicino al presidente francese Emmanuel Macron, ha giocato invece le sue carte leggendo con intelligenza il nuovo scenario politico europeo. Non è un caso che Sánchez il 27 maggio, meno di 24 ore dopo le elezioni amministrative spagnole, si sia riunito a Partigi con Macron e che il presidente francese, la scorsa settimana, abbia avvisato Ciudadanos che degli accordi di governo con Vox sarebbero stati considerati contro natura per un partito liberale e che potrebbero comportare l’espulsione del partito di Rivera dall’Alde.
Sicuramente la nuova giunta Colau si caratterizza per non essere filo-indipendentista, per quanto l’alcaldessa continui a difendere il dialogo tra Barcellona e Madrid e la celebrazione di un referendum sullo stile scozzese. Gli indipendentisti la accusano di peste e corna e di essersi alleata col diavolo, ovvero Manuel Valls. Barcelona en Comú replica spiegando che non esiste nessun accordo con Ciudadanos né con Valls che infatti non avrà ruoli in giunta e che gli unici compromessi andranno siglati coi socialisti di Jaume Collboni, con cui, tra l’altro Colau aveva governato già tra la primavera del 2016 e l’autunno del 2017.
Di certo, la situazione è complicata. Inutile negarlo. Ma è presto per dare giudizi definitivi. Colau ha approfittato della situazione, facendo un uso accorto di pragmatismo e realpolitik, per assicurarsi i voti necessari per il suo progetto neomunicipalista ma – seppur anche nel primo mandato governava in una situazione non facile, ossia di minoranza – ora tocca capire quanti compromessi dovrà intraprendere e quanto dovrà annacquare del suo programma radicale. Era, però, l’unico modo per rimanere in sella: tra la morte sicura e un progetto in salita, l’alcaldessa ha scelto il secondo. Non c’erano alternative spendibili per salvare il “laboratorio Barcellona”, quel laboratorio politico decantato da un po’ tutto il mondo progressista: da Bernie Sanders a Pepe Mujica, da Naomi Klein a Dilma Rousseff, da Bill de Blasio a Noam Chomsky. Ora sta all’alcaldessa mantenere la barra dritta e non tradire il proprio elettorato (e le speranze internazionali).
(16 giugno 2019)
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