L’enigma delle elezioni regionali

Michele Martelli



Le elezioni regionali di settembre incombono enigmatiche e minacciose sulle sorti della Repubblica italiana. E tali sono, a mio parere, per almeno tre motivi.

1) Per l’assetto istituzionale dello Stato. I 4 livelli in cui lo Stato italiano è diviso e stratificato, Governo centrale, 20 Regioni, 14 Città metropolitane e circa 8 mila Comuni, scossi dall’emergenza Covid, hanno scoperto le loro fragilità, limiti e insufficienze. La cui sintesi è la non-chiarezza sulle rispettive attribuzioni di poteri. Per legge, le Regioni possono limitatamente al loro territorio di competenza legiferare e pianificare. Non emettere ordinanze. L’Anci ha ceduto i poteri decisionali dei Comuni (relativi al confinamento) al governo centrale, che li ha a sua volta in parte ceduti alle Regioni, che si sono scatenate con un profluvio di circa 70 ordinanze, diverse e contraddittorie tra loro e tra l’altro spesso in difformità dai decreti del governo. A un certo punto, sembrava non si capisse chi comandava chi e in merito a che cosa.

Penso al rimpallo di responsabilità tra l’imbelle Regione lombarda, dominata dal duo cabarettista Fontana-Gallera, e il governo nazionale, rappresentato dalla figura del Presidente del Consiglio Conte seduto al suo scrittoio, cogitabondo e penna in mano, chino sulle sue carte – forse per stilare i suoi Dpcm? –, o alle premeditate «disobbedienze» di questo o quel Presidente di Regione, alla neoeletta forzitaliota Santelli che apre in anticipo bar e ristoranti calabresi per turisti fantasma, al piglio da «Sceriffo» di De Luca presidente della Campania, che voleva chiudere le frontiere agli untori lumbard e mandare l’esercito contro le movide, o al rifiuto del ruolo di «Vice-sceriffo» del sindaco di Napoli De Magistris, pronto a minacciare contro il governo perfino una Repubblica partenopea. Del tutto assenti invece le Città metropolitane, di recente istituzione e non ancora in piena funzione.

Nonostante tutto, dal governo e da molte Regioni la crisi Covid è stata affrontata e risolta con successo. Ma dall’innegabile, seppur relativo, caos legislativo e istituzionale è rispuntato il dibattito sul Titolo V. C’è chi dice che 20 regioni sono troppe, meglio ridurle a poche Macro-Regioni, magari 10: si spera che nessun terrapiattista della politica vorrà risuscitare gli Stati preunitari, il Regno delle due Sicilie, o quello della Sardegna, o, chissà, lo Stato pontificio. E c’è chi sostiene che le Regioni vanno abolite, perché inutili, o utili solo a corrotti e corruttori, fonte di malasanità e malaffare. Meglio potenziare i Comuni e le Città metropolitane, le uniche istituzioni a tu per tu con l’umore e i bisogni della gente. Sorge un dubbio: passata la sbornia secessionista di Bossi, allucinato dal dio Po e da un’immaginaria inesistente Padania, qualcuno vorrà ora forse tornare all’Italia tardo-medievale e rinascimentale dei Comuni e delle Signorie?

2) Per il risultato elettorale. A metà settembre si vota in 6 Regioni. Se, oltre che in Veneto e in Liguria, per ipotesi vincesse anche in Toscana, Marche e Puglia, il Cd potrebbe vantare il bottino di ben 16 Regioni, mentre il Centrosinistra (Cs) rimarrebbe confinato in Emilia-Romagna e in Campania, oltre che in Lazio, dove non si vota. Un’ipotesi da scongiurare: in Emilia-Romagna sono bastate le Sardine per «legare la Lega». Ma in caso contrario, il governo resisterebbe all’urto? L’unico antidoto efficace sarebbe, come è opinione di molti, oltre ad un’agurabile mobilitazione della società civile, un’alleanza elettorale e programmatica organica di Cs tra Pd, M5s e Leu, ma finora, che è già tardi, sembra ancora inscritta nel libro dei sogni. Dunque, la tenuta del governo Conte, per questo e per altre diverse concause, è a forte rischio settembrino. E lo è per il tipo di campagna elettorale del Cd a trazione Salvini, strumentalmente e spocchiosamente finalizzata solo a dare la spallata al governo: una nuova farsesca «marcia su Roma».

Lo ha dimostrato il caso emiliano-romagnolo e ancor prima quello dell’Umbria. Comizi vuoti, demagogici, selfie a ripetizione, bacioni, rosari e crocifissi sbandierati ai quattro venti (ah, il novello sanfrancesco sposato e divorziato!], e il bullismo squadristico al citofono dell’abitazione privata di un giovane malcapitato. Parole d’ordine? Non «All’armi siam fascisti», o almeno non ancora, ma, più prosaicamente, «questo è un testo nazionale», «giorni contati per Conte» «avviso di sfratto al governo». Esemplare il fu manifesto elettorale della Lega in Umbria, dove si leggeva a sinistra in alto e in piccolo «Salvini premier», in alto a destra e in grande «Stavolta voto Lega», e in basso «Lega Salvini Umbria», sotto lo spadone sguainato di Alberto da Giussano: mancava però, guarda caso!, il nome di Tesei candidata.

Come il leggendario Alberto, mai esistito ma infuriato dal rosso, liberò la Lombardia dall’Imperatore Barbarossa, così la sua spiritistica reincarnazione, Capitan Salvini, ora si appresta a liberare l’Italia dal Presidente Conte ai suoi occhi più rosso che giallo. Ma mi chiedo: dopo «la festa della libertà del popolo umbro» celebrata a Terni da Salvini da Giussano il giorno della vittoria, il 28 ottobre 2019, alla Presidenza della Regione umbra chi siede, il finto liberatore o la Tesei? Chi sarà il salvatore dell’Umbria: l’ombra nera stanca e girovaga del Capitan Sfracassa? Ma per chi si votava in Umbria (come in Abruzzo, Emilia-Romagna, Sardegna ecc.) per «Salvini premier» o per Tesei? Si chiamano elezioni amministrative regionali, non elezioni politiche nazionali. Perché confondere i due livelli del tutto distinti e inconfondibili? Al lettore l’ardua risposta.

3) Per gli effetti sulla Costituzione Repubblicana. La Costituzione, mai interamente realizzata, ma ininterrottamente indebolita prima dalla destra Dc e dal golpismo e stragismo nero, poi dal picconatore Cossiga e dal giovane Segni, infine dal Partito-Azienda del Caimano e dai due infausti tentativi referendari renzusconiani (per fortuna sventati!), – quindi salvata sul piano formale, è stata però di fatto sostituita, soprattutto nell’ultimo ventennio, dalla cosiddetta Costituzione materiale: partiti e coalizioni personali, leggi ad personam, decretazione continua, esautoramento del Parlamento, emarginazione delle opposizioni, servili deputati «signorsì» nominati dall’alto, attacco all’indipendenza della magistratura, editti bulgari e uso indegno di tv e talk show, e chi più storture antidemocratiche destrorse e fastistoide ha più ne metta.


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Un cambiamento lento, molecolare, quasi impercettibile, che si è riflesso anche sulla stampa e nel linguaggio politico delle campagne elettorali. Berlusconi premier, Salvini premier? Ma così si omette che non è l’elettorato a scegliere il candidato alla guida del governo, bensì, ad elezioni concluse, il Capo dello Stato, che sottopone la sua scelta al voto parlamentare. Si direbbe che l’Italia è sì ancora formalmente una Repubblica parlamentare, ma di fatto sia già purtroppo una Repubblica (semi)presidenziale nonché (semi)federale: ecco perché si usa sempre più chiamare, con un’anglomania che non è solo linguistica, Premier il Presidente del Consiglio, e Governatori i Presidenti di Regioni.

A Pangloss l’illusione che il governo Conte sia il migliore dei governi possibili, ma non è nemmeno il peggiore. Dunque come si risolverà l’enigma delle Regionali? Un’eventuale vittoria del Centro-destra, anzi della Destra-centro, dove, stando ai sondaggi, avanzano i FdI, tutti figli e nipoti fascistoidi dell’Almirante repubblichino, unita alle contraddizioni interne dell’attuale maggioranza parlamentare, potrebbe causare la caduta del governo e nuove elezioni politiche. Annibale o Brenno è alle porte? C’è da sperare solo nelle leggendarie Oche del Campidoglio?

(8 luglio 2020)





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