L’Europa, il Recovery Fund e la necessità di ripensare il modello di sviluppo dell’economia italiana

Daniele Nalbone

intervista a Riccardo Realfonzo

Venti giorni dopo un’ e delle politiche anticrisi, riprendiamo su Micromega il dialogo con Riccardo Realfonzo, professore ordinario di economia politica all’università del Sannio, promotore il 13 marzo scorso di un documento pubblicato dal Financial Times per un piano europeo antivirus con finanziamento centralizzato. Al centro, stavolta, il Decreto Rilancio, gli investimenti pubblici e la necessità di ripensare il modello di sviluppo italiano.

Professore, iniziamo da un suo giudizio sul Decreto Rilancio varato dal Governo.

Si tratta del naturale compimento del percorso avviato con i precedenti decreti emergenziali Cura Italia e Liquidità, varati tra marzo e aprile. È il tentativo di ristorare almeno in parte imprese e famiglie per il gravissimo calo di ricavi e redditi registrati in questi mesi. Un intervento nell’insieme necessario, sebbene tardivo, con molti caratteri di intervento a pioggia ma anche qualche misura che potrà rivelarsi utile per i provvedimenti futuri, come alcune condizionalità introdotte negli aiuti alle imprese e assunzioni in settori pubblici fondamentali. Direi che è un decreto “resistenza” e che tutti speriamo possa preludere a un vero rilancio.

Il ministro Gualtieri la settimana scorsa ha affermato che si tratta di un decreto che “guarda allo sviluppo” e che “rilancia gli investimenti”. È davvero così?

Si tratta di affermazioni impegnative, che richiederanno ben altri sforzi normativi e finanziamenti per trasformarsi in realtà. Questi decreti puntano principalmente a limitare la riduzione del pil, a fare in modo che lo scossone del virus non faccia cascare il Paese troppo lontano dal vecchio sentiero. Il problema è che però quel vecchio sentiero era tutto in salita, considerata la lunga stagnazione che abbiamo vissuto nel periodo tra le due crisi, dal 2008 al 2019, e che l’economia stava entrando in recessione già prima dell’epidemia. Insomma, tornare al business as usual è difficilissimo dappertutto nel mondo, ma letteralmente impensabile in Italia. Occorre ripensare il modello di sviluppo del Paese.

A quale modello di sviluppo pensa? Quale dovrebbe essere la stella polare di un ripensamento che immagino debba essere per forza di cose radicale?

La vicenda della pandemia ha messo definitivamente a nudo i disastri prodotti dalle politiche economiche successive alla crisi del 2008. Mi riferisco soprattutto allo smantellamento del sistema di welfare e al fallimento delle cosiddette riforme strutturali. Per fare un esempio, è sotto gli occhi di tutti che la sanità lombarda, che secondo molti rappresenta il meglio del nostro sistema sanitario, si è rivelata del tutto inadeguata a fronteggiare l’emergenza pandemica, anche nel confronto con gli altri Paesi europei. Avremmo registrato molte vittime in meno se avessimo avuto una disponibilità di posti letto di terapia intensiva in linea con i Paesi più avanzati d’Europa. Aggiungo che la sanità privata, che tanto ha lucrato dai tagli alla sanità pubblica, non ha saputo fare altro che ritirarsi in buon ordine a cospetto del virus. E quel che vale in termini di sottofinanziamento della sanità pubblica vale per la scuola, l’università, l’amministrazione della giustizia, il governo del territorio. La strategia dell’austerità e delle riforme strutturali degli scorsi anni ha bloccato la crescita del Paese e come sappiamo non ha avuto successo nemmeno nel risanare i conti pubblici.

A cosa si riferisce quando parla di fallimento delle risorse strutturali?

Agli insuccessi delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni degli scorsi anni, e soprattutto al fallimento delle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro. I fautori di quelle politiche sostenevano che esse avrebbero incrementato la competitività del Paese, con effetti rilevanti in termini di crescita e occupazione. Non si è visto nulla di tutto ciò. Al contrario, come molti studi hanno dimostrato, la flessibilità del mercato del lavoro ha procurato solo deflazione salariale e bassi consumi, alimentando la stagnazione. La bassa competitività del Paese dipendeva da altri fattori: l’insufficienza delle infrastrutture materiali e immateriali presenti nei territori e la debolezza del sistema produttivo.

Abbiamo dunque registrato il fallimento delle principali politiche introdotte negli scorsi anni: l’austerità, la flessibilità del mercato del lavoro, le privatizzazioni. E allora da cosa ripartire?

Da un programma di investimenti pubblici coerente con un disegno complessivo di politica industriale che, da un lato, metta al centro il welfare e le infrastrutture sociali e, dall’altro, spinga le imprese a compiere un salto tecnologico e dimensionale. Bisognerebbe attrezzarsi immediatamente per elaborare un piano in questa direzione. Inviterei tutti a rileggere il libro di Giorgio Fuà e Paolo Sylos Labini, “Idee per la programmazione economica”, del lontano 1963: il mondo radicalmente cambiato, ma c’è ancora da quella lettura c’è ancora da imparare. Tra l’altro sappiamo bene che gli investimenti pubblici nella sanità, nella scuola, nella ricerca, nella manutenzione del territorio e nell’ambiente hanno un moltiplicatore particolarmente elevato, e quindi impattano molto positivamente sulla crescita e sull’occupazione.

Parlando di investimenti, il governo è al lavoro sulle semplificazioni che dovrebbero agevolare sia quelli pubblici che privati.

Alcune semplificazioni burocratiche sono necessarie e in tanti rievocano il modello di intervento snello introdotto per il ponte di Genova. Io preferisco parlare di riforma della pubblica amministrazione e della necessità di rimpolparla con energie fresche, considerato quanto è stata impoverita dai blocchi del turnover degli scorsi anni. Soprattutto direi che a riguardo circola una leggenda che è necessario sfatare, secondo la quale le risorse per gli investimenti pubblici non sono mai mancate e i cantieri non procedono per la burocrazia. I dati ufficiali raccontano una storia diversa. In tutto il periodo dopo la crisi del 2008, la quota del pil dedicata agli investimenti pubblici è risultata sempre inferiore alla media europea. Ad esempio, nel 2019 l’Italia ha dedicato il 2,3% del pil agli investimenti pubblici contro una media europea del 3%. Questo significa che nel solo 2019 l’Italia avrebbe dovuto spendere dodici miliardi di euro in più per stare in linea con la media europea. E nell’intero periodo tra le due crisi l’Italia ha accumulato un deficit di investimenti pubblici di quasi 120 miliardi di euro. Un gravissimo sottoinvestimento dovuto ai tagli delle politiche di austerità, altro che burocrazia. Certo è che senza una stagione di investimenti pubblici la crescita non si rimetterà in moto. Ci potrà essere un rimbalzo contenuto ma non certo un processo di crescita duraturo.

Ma dove trovare i fondi? Nel documento “For an anti-virus plan”, che lei ha promosso il 13 marzo sul Financial Times, faceva riferimento a finanziamenti centralizzati da parte dell’Unione Europea. Questi strumenti sono stat
i introdotti? E cosa ne pensa della proposta franco-tedesca sul Recovery Fund? È la soluzione ai nostri problemi?


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Fino ad oggi i Paesi europei hanno dovuto fare tutto da soli per finanziare gli interventi anticrisi e gli strumenti introdotti dall’Europa – dal MES al SURE fino alla BEI – sono tutti prestiti. Il ricorso ad essi impatterebbe negativamente sulle finanze pubbliche, per quanto a costi un po’ più bassi rispetto ai finanziamenti ottenuti con nuove emissioni di titoli del debito pubblico. E noi già ci troviamo con un debito pubblico che – come dicevo nella nostra – salterà dal 135% del pil di fine 2019 a un valore di fine 2020 compreso tra il 154% e il 163%, a seconda delle diverse previsioni sulla contrazione del pil. L’Europa avrebbe dovuto ricorrere alla monetizzazione della spesa da parte della Banca Centrale Europea, ma non c’è volontà di procedere in questa direzione. L’ultima speranza per un finanziamento senza nuovo debito pubblico è proprio legata al Recovery Fund. La proposta franco-tedesca sembra andare in una buona direzione perché fa riferimento alla emissione di titoli di debito comune da parte della Commissione Europea e a un massiccio ricorso a grants, ovvero sostegni a fondo perduto, senza incremento del debito dei singoli Paesi. Le risorse però appaiono troppo limitate e soprattutto spunta l’idea di condizionare le erogazioni a chiari impegni dei Paesi beneficiari su “sane politiche economiche” e “riforme ambiziose”. E questo può essere davvero molto pericoloso. Certo è che le risorse per gli investimenti pubblici sono indispensabili, con o senza sostegno europeo. Occorre assolutamente innescare una crescita adeguata.

Una crescita adeguata?

Mi riferisco al tema della sostenibilità del debito pubblico italiano. A seguito della repentina impennata del debito che si verificherà quest’anno, per evitare di dovere scegliere tra nuove politiche di austerità e l’Italexit occorre una crescita sostenuta. Solo se il tasso di crescita nominale dell’economia raggiungerà il livello del costo del debito riusciremo a stabilizzare il rapporto tra debito e pil, fermando la corsa verso il default. Ma servono investimenti pubblici, un lucido disegno di politica industriale e tante risorse.

(19 maggio 2020)





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