L’insegnamento non è una missione ma un compito sociale

Carlo Scognamiglio

Nutro il sospetto che siano molti, moltissimi, gli insegnanti disorientati dall’imprevedibile dinamica trasformativa delle linee guida ministeriali o delle raccomandazioni europee, in merito al significato pubblico dell’istruzione. Uno smarrimento comprensibile, perché a tratti la nostra scuola appare resistente a ogni cambiamento, mentre in altre fasi tutto sembra correre, sebbene in modo scomposto. Mi interessa solo in parte, adesso, l’individuazione delle ragioni di un simile disorientamento. È però vero che sempre più, nella società a frammentazione attentiva in cui siamo immersi, è necessario fermarsi a riflettere, analizzare documenti e normative in costante aggiornamento, formarsi e confrontarsi e – come raccomanda Werner Herzog – bisogna leggere, leggere, leggere.
Sono importanti le connessioni tra passato e presente, tra politica e pedagogia, tra ragione ed emozione. Il lavoro dell’intellettuale è proprio quello di annodare i fili isolati, di approfondire e poi recuperare una visione d’insieme. E l’insegnante, mi piace ricordarlo, è – e deve rimanere – un intellettuale.
Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli, un docente e una giornalista, hanno recentemente deciso di riaprire un discorso pubblico sulla pedagogia gramsciana, con un libro intenso, edito da “L’asino d’oro” (Gramsci per la scuola. Conoscere è vivere, 2018), impreziosito da una breve ma bella prefazione di Marco Revelli.
Lavorare sui testi di Gramsci non è facile, e non è sbagliata l’idea di liberarsi dallo smarrimento di cui scrivevo in apertura, attraverso l’ancoraggio a un solido pilastro della tradizione culturale italiana, che fu egli stesso maestro, e molta cura dedicò al tema dell’educazione. È del tutto evidente l’intenzione dei due autori di ridefinire un orizzonte categoriale e ideale noto (sebbene dimenticato) per fronteggiare alcune superficialità del dibattito pedagogico contemporaneo. L’operazione, in tal senso, riesce e non riesce, nonostante la bellezza del libro. Proverò a soffermarmi su tre passaggi-chiave del testo, per poi provare a raccogliere in sintesi l’effetto.
In primo luogo, il tema dell’oggettività. Nel ripercorrere il pensiero gramsciano, Benedetti e Coccoli ricordano opportunamente la critica gramsciana al feticcio dell’oggettività. Un passo dei Quaderni dal carcere scelto dagli autori è illuminante per la sua chiarezza: «oggettivo significa sempre “umanamente oggettivo”, ciò che può corrispondere esattamente a “storicamente soggettivo”, cioè oggettivo significherebbe “universale soggettivo”» (p. 72). I gruppi sociali sono in lotta costante per la definizione dell’orizzonte di oggettività e occuparne lo spazio. È questo il teatro della battaglia delle idee, il che espone inevitabilmente il tema dell’oggettività al divenire storico. In questo senso, il pensiero gramsciano che a suo tempo si opponeva a un certo positivismo e al dogmatismo religioso, torna vivo nella società priva di senso storico in cui si costituisce il nostro attuale universo simbolico, e che nella didattica, come nella valutazione, agita il feticcio dell’oggettività come dato muto, presuntivamente neutrale. In qualche modo, l’idea gramsciana non è lontana dalla pedagogia che oggi definiamo “costruttivista”, di cui molti scrivono e che pochi pare abbiano realmente studiato. Il mito dell’oggettività, soprattutto in campo scientifico, è molto pericoloso, sia da un punto di vista politico (si pensi al ruolo determinante delle autorità scientifiche nei totalitarismi del Novecento), che da un punto di vista culturale. E Gramsci ci avverte tuttavia anche dei rischi psicologico-morali: «dalla idealizzazione della scienza nasce il paradosso di una vera e propria superstizione scientifica, che porta alla pigrizia intellettuale […] non a caso, questo dogmatismo non appartiene mai ai veri scienziati, ma è solo frutto di pessimo giornalismo e divulgazione dozzinale» (p. 74). La scuola dovrebbe esserne immune. Invece non lo è. Non lo è affatto.
Tornando alla lotta per l’egemonia, quella che negli scacchi si definirebbe la conquista del centro, per imporre il proprio gioco all’avversario, Gramsci considera la lingua come uno dei principali territori di conflitto. La lingua si sedimenta nella storia e assume i tratti e le funzioni del dominio. Ampio spazio è assegnato a questo tema nel libro di Benedetti e Coccoli. Ne sono facili esempi contemporanei il sistematico ricorso a termini mutuati dall’inglese o dal lessico economico e tecnologico. Ma la lingua e il sistema dei segni sono al tempo stesso il mezzo e il messaggio. Il linguaggio e i suoi simboli, dalle emoticon alla comunicazione professionale, non escluso lo slang didattico-burocratico, sono oggi egemonizzati da intellettuali organici non al potere politico, ma alle élite finanziarie e industriali. Chi controlla la lingua, Gramsci lo spiega bene, controlla la coscienza. Questa verità era nota in precedenza alla Chiesa, lo appresero meglio i totalitarismi, lo gestiscono con sottile qualità i nuovi poteri. Non si può separare la lingua dalla concezione del mondo. Anche su questo, l’attualità di Gramsci è straziante. Quale sguardo sul mondo si edifica sul nostro lessico didattico e sulle nostre scelte sintattiche? Perché definiamo discorsi, programmi, progetti, solo attraverso schemi, tabelle, elenchi puntati? Siamo ancora capaci di pensare in modo circolare, cioè di comprendere la complessità?
Un altro aspetto a cui gli autori sembrano tenere molto, è una certa critica sviluppata da Gramsci nei confronti della scuola attiva, a sostegno di una più solida definizione di scuola creativa. L’attivismo pedagogico è assai romantico, ma un certo spontaneismo non considera che specialmente nei primi anni di formazione, lo studio – che non è un comportamento naturale – deve essere imposto con il rigore della disciplina. La spontaneità non è natura, è sempre storia, cioè legittimazione storica dell’esistente, in cui si è immersi e da cui si è mossi. Solo un’iniziale forzatura può portare l’individuo a stare nel flusso storico in modo attivo e non passivo. Scrive Gramsci: «occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza» (p. 175). Ogni richiesta di facilitazioni, ogni allentamento di questa disciplina e questo sforzo fisico, priva l’alunno di una libertà nel futuro. Questo nei primi anni di scuola. Al liceo è invece auspicabile far raggiungere agli studenti maggiore autonomia e libertà nel lavoro, anticipando la dimensione della ricerca scientifica, attraverso lo studio laboratoriale e seminariale. Gramsci è sorprendentemente moderno, la sua didattica liceale è avanzata. Ma c’è qualcosa, nella tradizione pedagogica europea, cui Gramsci non intende rinunciare, e a cui attribuisce enorme valore, a suo parere messo a rischio dalla troppo precoce separazione dei percorsi di istruzione, nel loro orientamento verso la preparazione al lavoro. Ne sono simbolo e strumento lo studio del greco e del latino, a suo parere non ancora realmente sostituibili con discipline di pari potenza educativa. Lo studio delle lingue morte, proprio perché inerti, sebbene così radicalmente connesse alla nostra identità e genesi storica, significa per i giovani apertura allo studio disinteressato. Non si deve intendere con ciò uno studio privo di interesse, ma tale da non essere sviluppato in vista di un fine esterno, perché l’interesse si dovrebbe collocare nello «sviluppo interiore della personalità, la formazione del carattere attraverso l’assorbimento e l’assimilazione di tutto il passato culturale della civiltà europea» [1]. Il paradosso, osserva Gramsci, è che l’indirizzare allievi fin da piccoli verso abilità, che oggi forse definiremmo “competenze”, o capacità tecniche, viene presentato come elemento democratico di innovazione sociale. Di fatto, e questo è il punto, esso è funzionale alla replicazione delle differenze sociali, per cui assume il tratto dell’oligarchia. In una scuola veramente democratica, a tutti dovrebbe essere garantita una formazione adatta a dirigere, o quanto meno a controllare chi dirige. Tale approccio necessita pure di conservare una metodologia solo apparentemente arida e mnemonica, ma che deve essere capace di costruire nei ragazzi, attraverso una peculiare rigidità grammaticale, una postura fisica e intellettuale indispensabile per poter almeno aspirare a una prosecuzione degli studi. Nonostante il fascino filosofico dell’attivismo pedagogico di un Rousseau – che dal canto suo correttamente replicava a un ottuso gesuitismo – non bisogna mai dimenticare il valore di un certo rigore metodologico: «si ha a che fare con ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza anche fisica, di concentrazione psichica su determinati soggetti che non si possono acquistare sena una ripetizione meccanica di atti disciplinati e metodici» [2]. Pochi studenti diverranno degli scienziati, ma se nessuno di essi sarà stato abituato al sacrificio del lavoro, nessuno sarà in grado di mantenere la determinazione di uno studio applicato per sedici ore al tavolino.
Su questo aspetto, specialmente in relazione alla fase iniziale della vita scolastica, segnata dunque da una dose non trascurabile di coercizione, è necessaria una riflessione aggiuntiva. È certamente vero che, specialmente per le classi sociali subalterne, il rigore nell’insegnamento parrebbe garantire maggiori chance per il futuro. Tuttavia, bisogna essere storicisti fino in fondo, e cogliere le profonde differenze che caratterizzano il nostro tempo, rispetto a quello di cento anni fa. Troppo profonde sono le distanze culturali, di costume, di immaginario o delle aspettative. Le nuove generazioni riescono oggi a manifestare una totale estraneità al senso del dovere per il dovere, perché le nuove strutture sociali sono funzionaliste. Per quanto futili, soltanto degli obiettivi tangibili sono oggi in grado di destare la percezione della necessità di uno sforzo. Per ragioni psicologiche e sociali che sarebbe incongruo voler ripercorre in questo contesto, i più giovani (e non solo) riescono a esprimere il meglio delle proprie capacità di attenzione e motivazione solo se riescono a inserire il proprio percorso in una struttura esistenziale di successo individuale. Anche immediato, anche piccolo. Ma è chiaro che il rinforzo sociale o riconoscimento (il livello reputazionale), si schiaccia sul bisogno affettivo e diventa il motore trainante nella didattica. In tal senso, specialmente con le classi disagiate, la dimensione proattiva della valutazione deve essere prevalente, al fine di generare, specialmente nei bambini, l’apprendimento del comportamento di studio.
Naturalmente non è semplice, perché a volte si rischia di dover assumere linguaggi e stili dominanti per costruire percorsi di consapevolezza. Non è facile, ma direi che è l’unica strada percorribile. In tal senso, il richiamo a Gramsci può essere utile solo per una breve riflessione. C’è un lavoro tutto da elaborare e sperimentare.
Il penultimo capitolo de libro è dedicato alla figura di Don Milani, qui qualificato come “anti-Gramsci”, forse con una punta d’esagerazione. Gli autori hanno il merito di evidenziare – cosa assai rara di recente – i grandi limiti dell’esperienza di Barbiana, trascrivendo puntualmente alcuni tra i passi più trascurati della Lettera a una professoressa, e onestamente inaccettabili sotto molti punti di vista. Certamente il modello didattico di quella esperienza, così provocatorio e contrastivo rispetto alla scuola istituzionale, non potrebbe essere seriamente riproposto in alcuna modalità. Ma anche qui, storicizzare è importante. Quella vicenda di cinquanta anni fa apostrofava una scuola che in gran parte ereditava un corpo docente formatosi e spesso costituitosi in epoca fascista, molte volte mediocre e autoritario, o entrambe le cose insieme. Quella degli anni Cinquanta e Sessanta era una scuola profondamente classista, e non di rado manifestava disprezzo nei confronti degli studenti scolasticamente e socialmente più deboli. La reazione anti-autoritaria del Sessantotto ha avuto un valore in sé, a prescindere dalle approssimative risposte che ha saputo fornire. Credo inoltre che l’odierno modello di inclusione scolastica, se meglio assestato, e liberato da una certa eccessiva medicalizzazione, possa rispondere bene all’esigenza formativa implicita in un’idea di scuola democratica. A tal proposito gli autori riescono molto bene a disegnare la contrapposizione tra la pedagogia di Gramsci e quella del prete di Barbiana, quando osservano: «la Lettera di don Milani ha plasmato una riconoscibile e diffusa tipologia di insegnante, quella del docente che interpreta la professione unicamente come una missione e, per questo, non può di certo rapportarsi con gli studenti a quel livello di “medesimezza umana” di cui parla Gramsci» (p. 253). Ecco, questo è il punto decisivo, quello da cui ripartire. Insegnare non è una missione, ma un compito sociale, come lo è istruirsi. Insegnare è un lavoro, come lo è studiare. Insegnanti e studenti giocano ruoli diversi ma di pari dignità morale. In una scuola veramente democratica, non ci sono missionari né pecore smarrite, solo persone.
NOTE
[1] A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, in La formazione dell’uomo, a cura di G. Urbani, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 397
[2] Id.

(7 maggio 2019)






MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.