L’Italia siamo noi. La sinistra e l’identità nazionale

Jacopo Custodi

L’identità nazionale sta tornando di moda in politica, ed è spesso utilizzata dalla destra e dai conservatori. Ma la nazione è sempre una comunità immaginata ed i valori legati all’appartenenza nazionale non sono mai predeterminati. Può quindi la sinistra reimmaginare l’Italia senza concedere niente al nazionalismo di Salvini o dei rossobruni?

*

Il ritorno della nazione

Dalla fine della seconda guerra mondiale in avanti, l’identità nazionale non ha avuto un ruolo molto importante nella politica dei maggiori paesi europei, Italia inclusa. Un senso condiviso di appartenenza alla comunità nazionale faceva certamente parte della coscienza popolare, ma i riferimenti alla nazionalità svolgevano un ruolo marginale nell’articolazione dei conflitti politici. Altri tipi di identità, come la religione e la classe sociale, creavano un senso di appartenenza dall’impatto politico molto più forte rispetto a quello scaturito dall’identità nazionale. Non a caso i due più grandi partiti italiani, la DC e il PCI, si rifacevano rispettivamente a queste due identità. Negli anni più recenti la situazione è però cambiata: la globalizzazione economica e l’individualismo del mercato hanno sradicato molte identità tradizionali e favorito la perdita di valori comunitari, a cui si è aggiunto il vuoto ideologico scaturito dallo sgretolamento del marxismo-leninismo e dell’identità di classe. Globalizzazione, flussi migratori, terrorismo e erosione dello stato sociale hanno così creato terreno fertile per una rinascita dell’uso politico dell’identità nazionale. Infine, il ricordo degli orrori commessi dai nazionalismi nella prima metà del ventesimo secolo ha iniziato a dissolversi, perdendo importanza nella memoria collettiva.

Con lo scoppio del cosiddetto ‘populismo di destra’ nei paesi occidentali, rappresentato in Italia da forze quali la nuova Lega di Salvini, il ritorno della nazionalità in politica è emerso in modo chiaro. Leader come Matteo Salvini e Marine Le Pen hanno ripoliticizzato l’identità nazionale, rivendicando di parlare ‘in nome della nazione’ e rispolverando l’uso politico del nazionalismo nel dibattito interno ai loro paesi. Tutto ciò ha favorito in vari paesi europei una tendenziale ristrutturazione dello spazio politico che in parte trascende l’antica dicotomia destra-sinistra. Da un lato forze liberali cosmopolite, tanto di centro-destra quanto di centro-sinistra, relativamente progressiste sui temi civili (diritti LGBT, aborto ecc.) e neoliberiste e anti-welfariste in economia; dall’altro forze xenofobe e nazionaliste, autoproclamatesi paladine della comunità nazionale e della tradizione. Queste ultime uniscono spesso una difesa ‘di sinistra’ dello stato sociale insieme a temi fortemente ‘di destra’, quali l’esclusione dei migranti e delle persone di etnia Rom, oltre ad un conservatorismo sociale su sessualità, famiglia, criminalità e sicurezza. Secondo il famoso sociologo Colin Crouch, è questa la nuova polarizzazione politica che sta prendendo piede in vari paesi del mondo occidentale. Il cosmopolitismo neoliberale ed il nazionalismo tradizionalista si stanno imponendo come i due poli dello spazio politico contemporaneo, cercando di rimpiazzare (o per lo meno subordinare) i conflitti ideologici del secolo passato.

La nazione è una comunità immaginata

Sostenere che l’identità nazionale è tornata a giocare un ruolo importante nel conflitto politico, ci porta ad una seconda domanda: cos’è una nazione? La tesi a cui sono giunti vari studiosi del nazionalismo, è che le nazioni in quanto ‘entità concrete’ semplicemente non esistono. Non esistono caratteristiche comuni che permettano di formulare una definizione generale di nazione che valga per ogni caso specifico. Né la comunanza etnica o linguistica, né l’esistenza di tradizioni o culture condivise reggono davanti all’indagine storica. Nazioni come la Svizzera o il Belgio hanno varie lingue ufficiali, altre come il Brasile o gli Stati Uniti sono un crogiolo di etnie diverse, e la somiglianza culturale esiste molto più a livello locale che su scala nazionale. La cultura piemontese ricorda più quella francese che quella siciliana. Cos’hanno in comune Trento e Napoli? Ben poco, se non fosse per un sistema condiviso di norme e leggi che costituisce il nostro assetto politico-istituzionale. È per questa ragione che il celebre filosofo tedesco Jürgen Habermas ha difeso l’importanza di un ‘patriottismo costituzionale’. Secondo Habermas, l’unica forma possibile di identificazione collettiva nazionale è sui valori e le norme che sono alla base del nostro sistema politico. Quella di Habermas è una posizione basata su un ragionamento razionale, ma non riesce a spiegare perché centinaia di milioni di persone nel mondo, incluso un numero crescente di Italiani, vedono nell’identità nazionale un elemento importante nel definire loro stessi. Questa identità nazionale non si basa su leggi, norme o costituzioni, ma su qualcosa di più profondo, di emotivo. Si fonda su un sentimento di appartenenza ad una comunità. Ecco perché Benedict Anderson, in un suo celebre libro sul nazionalismo, ha sostenuto che le nazioni altro non sono che comunità immaginate. Sono immaginate per il semplice fatto che perfino “gli abitanti della più piccola nazione non conosceranno mai la maggior parte dei loro compatrioti, né li incontreranno, né ne sentiranno mai parlare, eppure nella mente di ognuno vive l’immagine del loro essere comunità”. Ciò che distingue diverse comunità non è la loro falsità/genuinità, ma lo “stile in cui sono immaginate”. Queste comunità possono quindi essere immaginate in modi molto diversi ed il nazionalismo altro non è che il processo di costruzione di una comunità immaginata. Ma non ha alcun contenuto politico fisso o predeterminato. Non esiste un ‘vero’ colore del nazionalismo definito a priori. L’appartenenza nazionale si può quindi coniugare con valori profondamente diversi. Giuseppe Garibaldi era un fervente patriota ed allo stesso tempo un sincero internazionalista. In fin dei conti, fu proprio lui a definire la Prima Internazionale di marxisti e anarchici come ‘il sol dell’avvenire’. La logica del nazionalismo è presente tanto negli orrendi crimini del Nazifascismo, quanto nei movimenti anticolonialisti del Terzo Mondo, e perfino nei partigiani italiani in lotta contro i fascisti ‘traditori della patria’. Questo ci mostra che il significato di termini e simboli attorno ai quali l’identità nazionale è costituita, come la patria, le bandiere e l’orgoglio nazionale, è sempre congiunturale e mai predeterminato. Il loro significato esiste solo all’interno di specifiche articolazi
oni discorsive. Diversi significati possono perfino coesistere nello stesso contesto, con tentativi rivali di immaginare la comunità nazionale in base ad opposte visioni del mondo.

Egemonizzare la nazione

Se la nazione è una comunità immaginata, può allora la sinistra provare a reimmaginarla? È un tema su cui la sinistra radicale italiana si è interrogata poco, preferendo piuttosto tenersi lontana dall’identità nazionale. E non senza buone ragioni: in fin dei conti, la simbologia nazionale italiana ha ancora un retrogusto fascista mai estinto, sembra collidere con l’internazionalismo a cui non dobbiamo rinunciare, e nel senso comune del paese spesso coincide con la difesa delle frontiere o col monoculturalismo. Ma così facendo si rischia di legittimare il discorso dell’avversario su questi temi, che si ritrova senza sfidanti nella sua battaglia egemonica per definire cosa sia l’Italia o cosa significhi essere italiani. Invece di assumere per dato di fatto l’idea di Italia portata avanti dalla destra, la sinistra potrebbe contrastarla contrapponendo un’idea diversa di appartenenza alla comunità nazionale.
È quello che sostiene Chantal Mouffe nel suo ultimo libro, Per un populismo di sinistra, secondo cui non dobbiamo “ignorare il forte investimento libidico che opera nelle forme di identificazione nazionale – o regionale -, e sarebbe un rischio abbandonare questo terreno per consegnarlo al populismo di destra. La cosa è ben diversa dal seguirne l’esempio e promuovere forme chiuse e difensive di nazionalismo: si tratta di offrire a quegli affetti un altro sbocco, mobilitandoli intorno a un’identificazione patriottica che convogli gli aspetti migliori e maggiormente egualitari della tradizione nazionale”.
È esattamente quello che sosteneva anche Lenin nel 1914, quando si domandava: “è il senso d’orgoglio nazionale alieno per noi, proletari coscienti della Grande Russia? Certamente no! Noi amiamo la nostra lingua e il nostro paese […]. Noi siamo pieni di orgoglio nazionale perché la nazione Grande-Russa, anche, si è mostrata capace di fornire il genere umano di grandi modelli di battaglia per la libertà e il socialismo, e non solo di grandi pogrom, patiboli, segrete, grandi carestie e grande servilismo verso i preti, i proprietari terrieri ed i capitalisti”. L’obiettivo è quindi sfidare l’avversario in tutti i terreni, compreso quello dell’identificazione nazionale, in modo da impedire alle forze reazionarie di presentare, incontestate, la propria visione di ciò che il nostro paese rappresenta.
Ne è convinto anche Pablo Iglesias, secondo cui non dobbiamo assolutamente permettere ai fascisti di avere il privilegio di dare lezioni su cosa significhi essere spagnoli (o italiani, nel nostro caso). Ciò che veramente tormenta la destra, insiste Iglesias, è vedere senegalesi e bengalesi avvolti con orgoglio nella nostra bandiera nazionale. È veder nascere un’idea di patria, e quindi un’idea di comunità, in cui i migranti possano identificarsi a pieno titolo, indipendentemente da lingua o colore della pelle, e in cui gli ‘anti-patrioti’ siano invece i politici corrotti e i ricchi che evadono le tasse.

Il falso esempio dei rossobruni italiani

Esiste all’interno della sinistra una corrente minoritaria ma in crescita che cerca di coniugare il patriottismo italiano con alcuni valori tradizionali della sinistra. È il cosiddetto ‘rossobrunismo’, un’area politica eterogenea e di varie gradazioni, che va da organizzazioni quali Patria e Costituzione, Rinascita! e Movimento Popolare di Liberazione, fino a personaggi come Diego Fusaro. È il rossobrunismo italiano un esempio di questa possibilità di reimmaginare la nazione di cui ho parlato finora? Assolutamente no. Per una ragione molto semplice: perché nel rossobrunismo non c’è reimmaginazione, non c’è sfida controegemonica, ma vi è piuttosto un’interiorizzazione dei valori e dei significati che l’identità nazionale assume all’interno della destra italiana. La vera natura dei rossobruni la spiega molto bene Mauro Vanetti in un piccolo racconto a due puntate pubblicato sul sito dei Wu Ming, in cui smonta le grottesche posizioni anti-immigrazione di Fusaro e di quelli come lui. La ‘sinistra’ contro l’immigrazione altro non è che l’utile idiota della destra italiana. Quando Fassina dichiara che le sinistre sono “diventate Ong, impegnate on shore e off shore per i migranti” non vi è nessuna sfida controegemonica. Ciò che abbiamo di fronte è piuttosto una triste subalternità ideologica, una quasi totale interiorizzazione del discorso della destra.

Reimmaginare l’Italia

Invece di abbracciare un patriottismo escludente e conservatore, come fanno molti rossobruni italiani genuflettendosi all’egemonia della destra, è possibile contrapporre un’altra idea di Italia. Tra il rifiuto dell’identità nazionale e l’interiorizzazione del discorso della destra, esiste infatti un’altra opzione: immaginare un’identità italiana che sia includente e progressista, basata sulla storia migliore del nostro paese. Che ricordi con orgoglio la storia dei nostri nonni che diedero la vita per la libertà, contro i fascisti che distrussero il nostro paese. Un’identità italiana che non dimentichi che gli italiani sono stati un popolo migrante, e che l’accoglienza e l’ospitalità italiana sono valori impressi nella nostra storia e di cui dobbiamo andare fieri. Un’Italia che ami il suo passato e la sua cultura, nella consapevolezza che la storia va avanti e le tradizioni evolvono. Un’Italia internazionalista e interculturalista, consapevole che una comunità nazionale sana ha tutto da guadagnare dall’incontro tra i popoli.
Patriottismo non è chiudere le frontiere, patriottismo è lottare per un paese con scuole e ospedali pubblici di eccellenza, per la dignità di chi lavora. È rivendicare una comunità solidale che ami la sua terra e che rifiuti ogni discriminazione tra i suoi membri, ad esempio per il paese di origine o per il colore della pelle. Perché l’Italia non è la Meloni, non è Salvini, non è Minniti. L’Italia siamo noi che lottiamo per un paese migliore, che siamo attivi nella difesa dell’ambiente e nella solidarietà coi migranti, che difendiamo i nostri diritti in quanto lavoratori, donne, studenti. Non dovremmo più permettere alla destra di appropriarsi incontrastata di quel termine – «Italia» – che identifica tutti noi.

L’Italia siamo noi, ed è venuto il momento di riprendercela.

*Jacopo Custodi è un dottorando in scienze politiche alla Scuola Normale Superiore, si occupa di sinistra radicale e identità nazionale in Italia, Spagna e Portogallo.

(25 marzo 2019)






MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.