L’Italia vista dalla Germania (senza stereotipi)
Appena uscito in Germania un libro che tenta di superare i reciproci stereotipi con cui si guardano l’Italia e il Nordeuropa. Una grande, per nulla romantica, a volte persino disperata, dichiarazione d’amore per il nostro paese.
intervista a Thomas Steinfeld di Elettra de Salvo*
Thomas Steinfeld, classe 1954, nasce come germanista, musicologo e autore. È stato professore di Scienze della Cultura presso l’Università di Lucerna in Svizzera dal 2006 al 2018, nonché capo redattore per la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” e in seguito corrispondente culturale dall’Italia per la “Süddeutsche Zeitung”. Dal 2014 all’anno scorso ha vissuto a Venezia.
Con il suo ultimo libro recentemente uscito in Germania per Rowohlt “Italien. Porträt eines fremden Landes” (Italia. Ritratto di un paese straniero), libro che meriterebbe certamente un’edizione italiana, Steinfeld cerca di osservare e interpretare l’Italia, che conosce molto bene, con occhi diversi non solo da quelli del viaggiatore e del turista del Nordeuropa che nostalgicamente anela a ritrovare nel Belpaese il cliché romantico dell’amata Arcadia Italia, ma anche da quelli di certi esperti economici d’Oltralpe, i quali da anni forniscono delle analisi del nostro paese che non le rendono giustizia. Pur non tralasciando i tipici e annosi problemi di casa nostra, l’autore invita ad una lettura più approfondita e articolata della storia e della natura dell’Italia e degli italiani.
Thomas Steinfeld, il Suo ampio ritratto dell’Italia è stato pubblicato in Germania in un momento molto difficile per il mondo intero e per l’Italia in particolare. Se avesse ancora la possibilità di aggiungere al libro un capitolo sulla situazione attuale del paese, quali sarebbero le sue impressioni sull’Italia di questi ultimi tempi?
Forse non scriverei un nuovo capitolo relativo all’epidemia da coronavirus, ma aggiungerei questa catastrofe particolarmente grave alla serie delle grandi crisi che l’Italia ha attraversato negli ultimi tempi e di cui parlo nel libro. Ci sono stati i terremoti del 2009, 2012 e 2016 e la crisi finanziaria iniziata nel 2008, le cui conseguenze sono ancora chiaramente percepibili in Italia. Inoltre le guerre di mafia del 2004/2005, l’esodo di massa attraverso il Mediterraneo e una serie di altri eventi che a nord delle Alpi sono stati a malapena registrati. Anche l’epidemia della Covid-19 che ha colpito l’Italia più di altre nazioni nel mondo sembra far parte di una lunga catena di eventi che, agli occhi degli italiani rappresenta un’unica vera e propria enorme calamità.
E come le sembra che stia reagendo il paese questa volta?
Quest’esperienza non solo ha munito gli italiani di un certo stoicismo, ma ha anche costretto ad un approccio più cauto riguardo alle loro speranze per un futuro migliore. D’altro canto l’Italia è un paese vecchio con strutture sociali spesso sorprendentemente conservatrici. È un paese molto frammentato in cui i legami con la famiglia e con l’ambiente circostante rimangono straordinariamente stabili.
Questa circostanza – il fatto cioè che i nonni spesso vivano con figli e nipoti nella stessa casa – ha contribuito a far sì che il virus si sia diffuso con particolare virulenza in Italia. Ma allo stesso tempo ha aiutato anche chi è sopravvissuto a superare questa crisi.
Il suo ritratto dell’Italia è in realtà una sorta di personale quaderno di viaggio. Cosa l’ha spinta a scrivere il suo "Grand Tour"?
Avevo l’impressione, forse perché vivevo a Venezia, che il mio rapporto con l’Italia si stesse appiattendo sempre più: per i nordeuropei, l’Italia, negli ultimi duecento anni, ha sempre assunto un doppio valore: dapprima come culla di formazione e di cultura, quindi come paese del sole, della sensualità, della gioia di vivere.
Tutta questa attrazione si è ridotta soprattutto ai viaggi nelle città d’arte, concentrati in pochi capoluoghi di particolare rilevanza, e tutt’al più a un diffuso e vago entusiasmo per l’antica tradizione storica per il Belpaese. Il volume è nato dall’esigenza di contrastare questo appiattimento con un libro di viaggio diciamo così, intellettuale, un libro che non invita all’entusiasmo tout court, ma intende descrivere e spiegare l’Italia per come è – senza tuttavia toglierle il suo magico fascino.
Eppure, nonostante la familiarità, talvolta questo paese appare improvvisamente straniero persino a molti italiani…
Al più tardi dal XVIII secolo, a partire da Winckelmann, esiste un’idea tedesca o nordeuropea dell’Italia, che ha molto poco a che fare con il paese reale, ma che in quanto tradizione perpetuatasi nei secoli è profondamente radicata. Negli ultimi venti o trent’anni ho l’impressione che questo scarto si sia alquanto accentuato, soprattutto a causa di quel potere normativo esercitato principalmente dall’Unione europea e dall’Euro. C’è un’immensa pressione sull’Italia affinché segua l’esempio dei paesi del Nordeuropa, e per contro poca capacità di comprensione nei confronti di un paese che è diverso e che forse ha persino trovato una sua propria strada verso la modernità.
Forse le ragioni di questa diversità hanno percorsi storici lontani? Penso in parte anche a quella mentalità di fondo, fortemente radicata nella penisola, riassunta nella frase di Tomasi di Lampedusa “cambiare tutto per non cambiare niente”, un’attitudine che risulta poco comprensibile all’occhio esterno…
Non solo. Molto riguarda l’economia politica. L’Italia può fare ben poco di fronte a capitali più importanti creati altrove con maggiore potere di penetrazione.
Nel libro lei parla di "una costanza storica del tutto particolare dell’Italia senza alcuna soluzione di continuità che comprenderebbe un periodo di tremila anni". Che cosa intende dire?
Ebbene, pensi alla Germania: nei secoli passati ci sono stati almeno due eventi che hanno causato devastazioni di grande portata e hanno cambiato radicalmente la vita nelle zone colpite: la Guerra dei Trent’Anni e la Seconda Guerra Mondiale. Naturalmente anche in Italia ci sono state innumerevoli guerre. Nessun conflitto, tuttavia, ha avuto una forza distruttiva paragonabile. Consideriamo inoltre, che tutta la cultura dell’antichità è stata conservata, per esempio, dai monaci benedettini, fino al Rinascimento. Ecco cosa intendo per continuità.
Questa continuità la ritroviamo però anche quando si tratta degli aspetti negativi del "Sistema Italia": il divario Nord-Sud mai superato, la triste tradizione delle mafie organizzate, i princìpi democratici molto spesso in pericolo…
La società italiana, molto più di quella tedesca, ad esempio, si fonda sul clientelismo. Ci sono precise ragioni per l’esistenza di questa struttura clientelare: in primo luogo le diverse caratteristiche geografiche della penisola, quindi ragioni storiche relative alle varie forze di occupazione nel paese, infine politiche come la separazione tra Stato e Chiesa cattolica. Il sistema clientelare non è quindi facile da abo
lire. Esiste, in forme esecrabili come le mafie, ma anche invece in forme vincenti come la cordialità – perché non si sa mai a cosa possano servirti gli altri, e quindi conviene comunque essere amici in anticipo. È necessario quindi valutare con cautela alcune questioni che spesso vengono attribuite ad una incapacità di organizzazione specificamente italiana.
Ad esempio?
Sembra evidente che la differenza tra Nord e Sud stia crescendo sempre più e questo per cause molto recenti: il Nord per esempio è certamente molto più xenofobo del Sud, dove invece le lotte sociali sono combattute lungo confini territoriali piuttosto che presunti confini etnici. E anche questo non rappresenta assolutamente il "sistema Italia".
“L’arte di arrangiarsi”: in questo l’Italia è al primo posto, è eccellenza nell’emergenza. E lo sta dimostrando anche nella crisi attuale. Ma superata l’emergenza, gli italiani fanno fatica a gestire la “normalità”, la vita di tutti i giorni. Penso ad un sistema fiscale opprimente o agli ostacoli burocratici che sono il triplo rispetto alla Germania.
Oltre al problema del clientelismo di cui abbiamo già parlato, dobbiamo considerare il rapporto dei cittadini con lo Stato visto come un benefattore e non come un’istanza che rappresenta la causa comune. Così lo Stato risulta sempre alquanto debole e peraltro la Chiesa cattolica, avendo esercitato in varie occasioni durante la storia un’ostruzionismo verso lo Stato italiano, ha contribuito non poco a questo indebolimento. L’apparato burocratico è un tentativo di far fronte a queste debolezze, anche se è necessario contemplare questo stato di cose in modo dialettico: una burocrazia eccessiva non può essere applicata in modo completo ed esteso. Ne consegue che è invece il sistema clientelare a trovare terreno facile per estendersi.
Nei capitoli relativi alle città, prima di ammirare le meraviglie del Belpaese, lei punta il dito sugli scempi della “brutta Italia”, per esempio nelle periferie di città come Roma o Napoli.
Chiunque si rechi in Italia fa questa esperienza: si passa attraverso infinite aree commerciali, zone in cui le aree industriali e abitative si mescolano confondono. Sulle strade statali, per esempio da Milano a Venezia, o da Roma a Napoli, non si vede altro. La mia intenzione era sin dall’inizio raccontare l’Italia così com’è realmente. E l’Italia è così: molta gente che lavora nei bei centri storici non ha i soldi per viverci. Inoltre forniture e rifornimenti devono essere garantiti, bisogna quindi sistemare da qualche parte le fabbriche e le officine. Non potendo collocarle nei centri storici, vengono concentrate altrove.
E anche qui è interessante individuare certe responsabilità: esiste un sistema fiscale, ad esempio, che premia gli investimenti, ma non obbliga a operazioni di sgombro e pulizia dell’ambiente. Non trova anche lei che in nessun altro posto al mondo si possano osservare così tante aree abbandonate come in Italia? Magazzini di mobili non più utilizzati, discoteche e stazioni di servizio chiuse, fabbriche in rovina, ruderi industriali, discariche abusive, terreni negletti. Probabilmente tutto questo corrisponde ad un proprio ordine. Ma al comune visitatore questo ordine rimane oscuro, non è in grado di riconoscerlo.
La sua città del cuore è Venezia, dove ha vissuto e lavorato per cinque anni come corrispondente culturale. Cosa rimane, citando dal suo libro, della “copia della copia della copia” della Serenissima? Venezia simbolo del declino dell’intero paese o invece esempio della sorprendente arte italiana della sopravvivenza?
Venezia è letteralmente il posto più magico del mondo. Allo stesso tempo è un luogo ormai quasi completamente al servizio del turismo. Non è rimasto pressoché nulla che non sia in qualche modo soggetto a compravendita. Almeno su questo anche la politica regionale è assolutamente d’accordo. Negli anni e decenni passati ci sarebbero state varie occasioni per fare qualcosa in proposito. Ma non è successo nulla, salvo la distruzione della situazione preesistente. Temo che tutto questo continuerà: per quanto ci riguarda, Venezia è perduta. Quando abbiamo lasciato la città, eravamo infatti alquanto esasperati. Anche se ci sono molte cose di Venezia che ora mi mancano.
Torniamo a quella che mi sembrerebbe la tesi principale, il filo rosso che percorre tutto il libro: la società italiana sarebbe una società predisposta diciamo così, alla conservazione, conserva se stessa sia nel passato che nel presente.
E ne ha tutti i motivi, perché in realtà l’idea che il futuro possa essere in qualche modo migliore del presente o del passato non è plausibile. Ne derivano molte cose: ad esempio, un rapporto vivo degli italiani con la loro storia e con quanto ha lasciato in eredità. Si convive con la storia, mentre il grado di musealizzazione è minimo. C’è una tendenza a preservare, ci si dice: è sempre stata una nostra buona predisposizione, perché dovremmo separarcene?
Succede per altro anche a me: più invecchio, più sono incline a una simile visione delle cose.
Nonostante il paese sia stato tra i più colpiti dalla pandemia, questo momento di crisi può rappresentare anche un’opportunità per l’Italia e per l’Europa?
Non saprei. Per molto tempo ho pensato che dopotutto gli italiani siano nella maggior parte fondamentalmente europeisti convinti. Ora invece non ne sono più così sicuro.
Non dobbiamo dimenticare che già trent’anni fa l’Europa ha rappresentato un’àncora di salvataggio per uno stato nazionale con gravi problematiche interne.
Nelle dispute degli ultimi tempi è venuto chiaramente alla luce quanta sfiducia, ma anche quanti risentimenti reciproci si siano accumulati nel frattempo da entrambe le parti. Sembrerebbe ora che la Germania e la Francia si trovino d’accordo sulla necessità di fornire aiuti all’Italia oltre ai soliti crediti (che aumenterebbero ulteriormente le difficoltà). Poi però ci troviamo di fronte a Stati come l’Austria, l’Olanda, la Danimarca e la Svezia, le quali non solo stanno abbandonando l’Italia al suo destino, ma dall’emergenza italiana vogliono trarne anche un vantaggio nazionale. Tutto ciò è molto spiacevole.
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Mentre Francia e Germania pare abbiano finalmente compreso che non c’è vantaggio alcuno per se stesse se l’Italia va in rovina come la Grecia, costretta a grande impoverimento e dipendenza. Se in tal senso riuscisse a prevalere la consapevolezza che una comunità dell’emergenza sarebbe in grado di dimostrare il suo valore anche in tempi migliori, allora forse il beneficio sarebbe molto maggiore di quanto osato sperare, anche per l’Italia.
Un’Italia che comunque per molti europei del Nord continua forse a risultare confusa e caotica, ma che rimane pur sempre "la nostra amatissima Arcadia, senza la quale non potremmo vivere", citando Hans Magnus Enzensberger.
Non trovo che l’Italia sia così confusa e caotica. Al contrario, il paese è molto ordinato, solo che questo ordine è di tipo diverso e bisogna imparare a comprenderlo.
Il libro si conclude con questa frase: "L’Italia è un bel paese". Compresi i molti punti critici che lei esamina e tratta con grande attenzione, questo suo volume è in ultima analisi una grande – per nulla romantica, a volte persino disperata – dichiarazione d’amore per il paese.
È proprio così, in nessun altro posto del mondo ho pensato di voler rimanere più che in Italia, per tutta la vita. Anche questa crisi passerà, in un modo o nell’altro, e spero vivamente di poter tornare a Venezia e in tutti gli altri luoghi nel paese dove mi è sorto questo desiderio.
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