L’oro di Istanbul: quando il capitalismo fa la sua lotta di classe
Davide Grasso
Mentre l’aggressività imperialistica della Turchia colpisce Kurdistan e Siria, non si ferma alla Libia, minaccia Cipro e la Grecia e lancia attacchi propagandistici fino all’Armenia, “L’oro della Turchia” di Giovanna Loccatelli (Rosenberg&Sellier, 2020, 190 pp.) può aiutare a non fermarsi alla mera denuncia, comprendendo caratteri e contesto di una lunga fase del paese della mezzaluna. Filo conduttore è il nesso, solo apparentemente laterale, tra urbanistica e costituirsi del potere. L’ascesa di Erdoğan, sindaco di Istanbul (1994-1998), primo ministro (2003-2014) e presidente della repubblica (dal 2014), va inquadrata nell’evoluzione seguita al colpo di stato del 1981, che mise fine alla stagione di tensioni crepuscolari con i movimenti comunisti aperta dal 1968. Gli anni Ottanta e Novanta videro una graduale apertura a logiche neoliberiste, che corsero in parallelo con l’inedito (per la Turchia repubblicana) sdoganamento pubblico dell’immaginario religioso, prima decisamente marginalizzato sul pano istituzionale.
Il connubio tra liberismo e ideologia islamista, nella fase erdoganiana, ha accelerato i tratti di lotta interna alla borghesia turca. I “turchi bianchi” (cittadini abbienti, legati all’identità della Turchia laica e a uno stile di vita benestante, gaudente e secolarizzato) avevano iniziato già negli anni Novanta ad esibire causticamente, ad esempio per via giornalistica, un disprezzo profondo per la popolazione più svantaggiata del paese: contadini analfabeti e pii delle campagne, ma soprattutto poveri fastidiosi perché inurbati di recente, accusati di arretratezza ed ebetismo, tanto peggio se curdi. Questa veemenza social-razzista rivelava il terrore della tradizionale borghesia kemalista per la propria decadenza, proprio all’indomani della vittoria sul vivace movimento comunista e operaio turco. Il “vittorioso” corso liberista-islamista rimescolava anche le carte del potere economico senza scalfire le gerarchie sociali. Un processo che ha assunto tratti parossistici nel ventennio erdoganiano.
L’uso elettorale del rancore dei non istruiti verso gli istruiti, in gran parte sovrapponibile a quello tra miserabili ed elite economica, si è mostrato in grado, spiega Loccatelli, di marginalizzare il ceto socio-culturale “bianco” prodotto dal potere repubblicano delle origini. All’insediamento di Erdoğan è corrisposta un’ascesa irresistibile di nuovi capitalisti di origine provinciale e mentalità religiosa, provenienti anche da quartieri stambulioti d’immigrazione interna come Başakşehir, immuni da presenze curde e socialmente organizzati già da Erdoğan sindaco attorno ai centri culturali islamici. Una borghesia musulmana predatoria e arrogante che ha prodotto, nel triste e rinnovato immaginario degli ultimi, l’odiosa icona dei turchi “neri” divenuti senza colpo ferire “i nuovi turchi bianchi”.
L’espansione economica che ha accompagnato questa ricomposizione si fonda in modo significativo sulla trasformazione urbanistica. Lo sventramento di Istanbul ha fatto da pendant a spese multi-miliardarie per grandiose infrastrutture. Come altrove l’innovazione post-industriale ha approfondito lo sfruttamento del territorio e, con il trasferimento fiscale dalle umili retribuzioni dei costruttori fisici ai conti in banca di quelli giuridici, l’aumento delle diseguaglianze. Non senza un impatto, inevitabile, sulla città e sulla sua qualità della vita. Ecco comparire sullo skyline di Istanbul una quantità di nuovi grattacieli, “mall” e impianti sportivi, il (terzo) Ponte sul Bosforo; avviarsi i lavori per il tunnel sotto il Bosforo, il nuovo aeroporto, lo stravolgimento di Galataport; e ancora il progetto mastodontico per un canale che colleghi Mar Nero e Mar di Marmara attraverso la città. Opere che hanno provocato le proteste della Camera degli architetti e delle associazioni ambientaliste, accompagnate dall’espulsione semi-forzata di enormi masse dai loro quartieri (come a Tarlabaşi) o dalla loro segregazione oltre i muri di esclusive e terrorizzate gated community (come a Göktürk). Un fenomeno che spesso parla italiano: Renzo Piano, Gruppo Astaldi, Italferr, Guzzini sono alcuni dei nomi che legano l’imprenditoria del nostro paese ai profitti estraibili da tali trasformazioni.
Le disavventure patite dalle procedure giuridiche per la tutela del patrimonio sono d’altra parte istruttive. Il tessuto stambuliota è esito di lunghe dinamiche di inurbazione, proprie dei decenni kemalisti di industrializzazione urbana e meccanizzazione nelle campagne. La crescita immane di Istanbul l’ha portata a passare da 1.5 a 16 milioni di abitanti dal 1923 ad oggi. I turchi “neri” (sempre in senso metaforico), nuovi arrivati in città a successive ondate, erano anche i curdi che pativano gli effetti di un’oppressione nazionale contro venti milioni di persone. Assumeva i tratti di una guerra civile negli anni Novanta, contribuendo alla formazione a Istanbul di interi quartieri abusivi, ghetti di case costruite dagli stessi migranti “nel giro di una notte” (da cui il nome gecekondu per questi quartieri). Vi regna la povertà più nera ma anche un senso di comunità che non di rado è politicamente connotato. Ayazma, uno di questi slum curdi (ce ne sono molti anche turchi), ha visto da allora un indubbio radicamento del partito curdo socialista Pkk.
«L’urbanizzazione irregolare genera il terrorismo» ha affermato nel 2007 Erdoğan Bayaktar, presidente della Toki, azienda para-statale di quadri islamisti protagonista dell’odierno assalto al real estate. Toki ha intrapreso una battaglia per la demolizione totale dei quartieri “problematici” in nome di una lotta all’abusivismo edilizio che invoca le norme a tutela della pianificazione dello sviluppo urbano. La lucrosa edificazione di enormi complessi popolari, argomenta Loccatelli, esibisce però soluzioni architettoniche appositamente studiate per provocare un’atomizzazione socio-culturale, e quindi politica, delle classi popolari. Non che una coesione comunitaria non sia necessaria anche per la governance del territorio, ma ne serve una diversa. Le moschee nel paese sono aumentate da 60.000 a 85.000 nell’ultimo trentennio.
La seconda fase del potere di Erdoğan (2011-2020), segnata dalle guerre e poi dalla crisi economica, ha coinciso con un ulteriore tentativo di costruzione mediatico-paternalistica della peculiare Volksgemeinschaft turco-islamica. Anche in questo l’architettura gioca un ruolo. Speculare all’abbattimento di Ayazma e di simili realtà, anche lontane da Istanbul, è infatti la contestata costruzione del nuovo, gigantesco, palazzo presidenziale di Ankara. Il suo sfarzo megalomane tenta di conciliare riferimenti al neo-classicismo europeo con il concetto di “architettura ottomano-selgiuchide”. Il parallelo oppositivo con Ayazma è giustificato dal fatto che il palazzo sorge su un antico parco intitolato ad Atatürk listato come bene culturale: è quindi, esattamente come le case dei quartieri più poveri, abusivo. Erdoğan dopo la sentenza di demolizione, 5 marzo 2014: «Se i giudici sono così potenti da impedire l’edificazione di questo palazzo, che vengano ad abbatterlo».
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Le “imprese” urbanistiche di Erdoğan hanno coagulato tanto l’opposizione quanto il blocco politico in difesa del suo progetto neo-ottomano. La scelta di abbattere il Centro culturale Atatürk in piazza Taksim e costruire una moschea negli spazi adiacenti, cementificando al contempo il vicino Gezi Park, ha prodotto nel 2013 la maggiore ondata di proteste contro la nomenklatura islamista, unendo per una volta fazioni diversissime (kemalisti e curdi, ultras e comunità lgbtq+, comunisti e “musulmani anticapitalisti”). Piazza Taksim (luogo simbolo delle manifestazioni studentesche e operaie di età repubblicana) è stata scelta però anche dai sostenitori di Erdoğan radunatisi per difenderlo dopo il fallito golpe del 2016, che hanno sostituito beffardamente allo slogan «Ovunque Taksim, ovunque resistenza» quello «Ovunque Tayyp, Ovunque Erdoğan». La protesta contro l’opulenza e l’illegalità del palazzo presidenziale, divenuta virtuale, ironica e “social” a causa della repressione sempre più dura nel paese, ha invece aperto le prime parziali crepe nel consenso popolare al presidente. Dopo due anni di crisi economica l’elezione di Ekrem İmamoğlu, oppositore di Erdoğan, a sindaco di Istanbul nel 2020 è uno degli esiti di questa lunga “lotta sulla città”. La principale promessa elettorale del vincitore era stata frenare la devastazione urbana che alcuni turchi “neri” avevano avviato non appena divenuti “bianchi”.
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