L’uguaglianza non è più un valore?
Marco Bersani*
“La ragione fondamentale per cui in alcune epoche della mia vita ho avuto qualche interesse per la politica o, con altre parole, ho sentito, se non il dovere, parola troppo ambiziosa, l’esigenza di occuparmi di politica e qualche volta, se pure più raramente, di svolgere attività politica, è sempre stato il disagio di fronte allo spettacolo delle enormi disuguaglianze, tanto sproporzionate quanto ingiustificate, tra ricchi e poveri, tra chi sta in alto e chi sta in basso nella scala sociale, tra chi possiede potere, vale a dire capacità di determinare il comportamento altrui, sia nella sfera economica sia in quella politica e ideologica, e chi non ne ha”[1]. Così scriveva Norberto Bobbio, filosofo e giurista, negli ultimi anni della propria vita.
D’altronde, per quasi due secoli, dalla Rivoluzione Francese a quasi tutto il ‘900, il concetto di uguaglianza ha forgiato la storia e messo in movimento idee, persone, popoli e continenti.
Eppure, nonostante una storia così importante, con l’affermarsi negli ultimi trent’anni del modello neoliberista, il concetto di uguaglianza è progressivamente scomparso dall’agenda politica, rimosso da un intero mondo valoriale, che fino ad allora si definiva ‘sinistra’, ansioso di dimostrare la propria accettazione e subalternità al pensiero unico del mercato.
Un processo che ha visto spostare il baricentro dell’iniziativa politica dall”uguaglianza sostanziale’ (considerata obsoleta, dopo i fallimenti del ‘socialismo reale’) alla più moderna e liberal ‘eguaglianza delle opportunità’, dall’attenzione alle fasce deboli della popolazione a una visione sempre più preoccupata di non spaventare i piani alti del potere.
Questo è senz’altro dovuto ad una mancata riflessione sui paradossi che sottostanno alla necessità dell’affermazione del principio dell’uguaglianza, ovvero la constatazione reale della profonda differenza e disegualità che esiste fra le persone.
Le persone sono differenti per identità personale, storia biologica, relazionale e culturale e sono diseguali per condizioni materiali di vita e appartenenza sociale.
Il principio dell’uguaglianza ha di conseguenza il compito di rispettare le differenze e di opporsi alle diseguaglianze.
Rispetto delle prime e opposizione alle seconde sono due obiettivi che vanno pensati come intrecciati e profondamente complementari, per evitare di costruire società ingiuste, repressive ed autoritarie.
Se, infatti, si pone l’accento unicamente sulla diseguaglianza delle condizioni materiali di vita, si producono società uniformi e monoculturali, all’interno delle quali le formali condizioni materiali di uguaglianza si accompagnano a vite tristi, socialmente ipercontrollate e represse.
Se l’accento viene unicamente posto sulle differenze, si producono società che esaltano la diversificazione, l’individualismo e la competizione, dentro le quali sono i soldi e il potere sociale a produrre soddisfazione, e la povertà diviene colpa o destino.
E’ la realtà storica a dimostrarlo: tutte le esperienze sociali e politiche sinora messe in campo sulla base del concetto di uguaglianza delle condizioni materiali, dalla Rivoluzione d’Ottobre in poi, si sono strutturate su una definizione monoculturale, riduttiva e unilaterale dell’uguaglianza, tale da giustificare una gestione autoritaria e totalitaria della realizzazione e distribuzione della stessa.
Viceversa, la rimozione del principio di uguaglianza delle società capitaliste è avvenuto dietro l’esaltazione del concetto di libertà, trasformatosi, non nella definizione di una nuova soggettivazione, bensì nella deificazione della competizione individuale dentro il quadro della libertà del mercato (‘libere volpi in libero pollaio’).
E’ questa l’odierna attualità: in un’economia trasformata da attività di produzione di beni e servizi in economia basata sul debito, con le attività finanziarie che si sono progressivamente ‘autonomizzate’, investendo l’intera società, la forbice, tra i pochi che possiedono tutto e la gran parte delle popolazioni che non ha nulla, si è allargata a dismisura.
Come ben esplicita il lavoro di Thomas Piketty[2]: “La ‘prima mondializzazione’ (1870-1914) ha accresciuto le diseguaglianze sociali. Poi le due guerre mondiali, le distruzioni materiali, l’inflazione e anche alcune scelte politiche hanno ridotto il peso dei patrimoni. Ma oggi, nell’epoca di un’altra mondializzazione, il XXI secolo rischia di tornare al passato e di assomigliare al XIX”.
La questione della ripartizione delle ricchezze era già stata affrontata dall’economia politica classica: Malthus, a fine ‘700, vedeva nella sovrappopolazione la minaccia principale, mentre per Ricardo il problema era legato al prezzo della terra e all’evoluzione della rendita fondiaria.
Cinquant’anni dopo Ricardo, Marx analizzò la dinamica del capitalismo in piena crescita. I dati statistici dicono che “una crescita debole permette di equilibrare solo debolmente il principio marxista di accumulazione permanente”[3].
Storicamente, nei paesi europei industrializzati i salari cominciano a crescere, molto debolmente, solo nell’ultimo terzo del XIX secolo: ma “dal momento in cui il tasso di crescita della popolazione e della produttività è relativamente debole, i patrimoni accumulati nel passato assumono naturalmente un’importanza considerevole, potenzialmente smisurata e destabilizzatrice per le società”[4].
Secondo Piketty, l’andamento della diseguaglianza ha sconfessato la teoria della curva di Simon Kuznets[5], e se, una forte riduzione delle ineguaglianze vi è stata fra la prima guerra mondiale e la fine della seconda, dagli anni ’70-’80, la tendenza si è invertita e “la concentrazione dei redditi ha ritrovato negli anni 2000-2010, o addirittura leggermente oltrepassato, il livello record degli anni 1910-1920”.
Negli anni 2000-2010 nei paesi ricchi è stato ritrovato il livello di capitalizzazione di Borsa (in proporzione alla produzione interna o al reddito nazionale) esistente a Parigi o a Londra negli anni 1900-1910. Oggi, il valore del capitale finanziario, immobiliare – cioè del capitale non umano – nei paesi ricchi è equivalente a sei anni di produzione e di reddito nazionale, un rapporto simile a quello che esisteva nel XIX secolo.
Piketty si chiede: “il mondo del 2050 o 2100 sarà posseduto dai traders, dai super dirigenti e da chi controlla patrimoni importanti, oppure dai paesi petroliferi, o ancora dalla Banca di Cina, a meno che non siano i paradisi fiscali, che ospitano, in un modo o nell’altro, l’insieme di questi attori?”[6].
Una deriva che non può essere fermata dalle
‘magnifiche sorti e progressive’ del mercato, bensì da scelte politiche consapevoli, frutto di un conflitto sociale che ponga il principio di uguaglianza come fulcro di ogni trasformazione sociale.
[1] N. Bobbio, Eguaglianza e libertà, Einaudi, Roma 1995
[2] Th. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014
[3] Ibid.
[4] Ibid.
[5] Simon Kuznets, ecoomista statunitense e premio Nobel dell’economia nel 1971; la “curva di Kuznets” afferma che le ineguaglianze di reddito sono destinate a diminuire nella fase avanzata dello sviluppo capitalistico.
[6] Th. Piketty, op. cit.
* Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 43 di Gennaio-Febbraio 2020: "La diseguaglianza e le rivolte"
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