L’Abruzzo sconfessa la rivelazione pentastellata
Pierfranco Pellizzetti
Tra i tanti esiti annunciati/sperati/paventati delle elezioni regionali abruzzesi del 10 febbraio scorso, spicca quello di Cinquestelle: se ne prevedeva un arretramento ed è stata catastrofe. A valori assoluti, il passaggio dai 303mila voti nelle politiche 2018 agli attuali 117mila. E nel circo mediatico si è aperto il dibattito su quello che succederà nella pancia del Movimento. Come se tale soggetto fosse riconducibile a letture che si rifanno alle logiche canoniche vigenti nei partiti; sia classici, novecenteschi, come nelle loro mutazioni verso la personalizzazione star-system post-moderna o la retroversione ottocentesca al modello del comitato elettorale.
Difatti hanno prevalso due considerazioni stereotipate: la prima ipotizzava un prossimo rilancio, come avvenne dopo la sconfitta alle elezioni europee del 2014, quando fu mancato il sorpasso del PD a fronte del successo occasionale di Matteo Renzi (ma in quel momento M5S lucrava la rendita di titolare unico dell’indignazione, temporaneamente oscurata dal presunto modernismo affabulatorio renziano); la seconda prevedeva l’apertura di una discussione politica nella vasta fascia dei militanti, inviperiti per l’attuale vassallaggio psicologico nei confronti della Lega, partner nel governo centrale. Come si farebbe nelle tipiche strutture intermedie di qualsivoglia agenzia della rappresentanza.
Analisi improntate ad apparente buon senso, in realtà fallaci in quanto starate rispetto alla natura specifica del Movimento. A partire dal suo corpo sociale profondo, che non corrisponde automaticamente alla sua base elettorale complessiva.
In effetti, nel voto M5S confluiscono due opzioni nettamente distinte: di opinione e di appartenenza. La prima si spiega come reazione (indignata), in qualche misura riflessiva, al malgoverno locale e nazionale. Un exit che molto spesso fungeva da ostracismo nei confronti della tracotanza del personale piddino, governativo e/o amministrativo. Il Vaffa che a Roma si è tradotto nel voto per Virginia Raggi contro i piccoli cacicchi alla Matteo Orfini, a Torino per Chiara Appendino, quale mossa obbligata per estromettere gli smunti chierici guardiani sabaudi alla Piero Fassino.
Ma è l’opzione appartenenza che porta alla luce l’essenza profonda di questa strana creatura che ha ballato e fatto ballare il quadro politico per almeno un quinquennio; che qui da noi ha occupato, in anticipo rispetto al fatidico 2011 di Puerta del Sol madrilista e Zuccotti Park newyorkese, lo spazio mondiale dell’indignazione (il Vaffa-Day tenuto da Beppe Grillo a Bologna, tappa fondativa della nuova aggregazione, risale all’8 settembre 2007). Da cui un presidio monopolistico che ha bloccato sul nascere l’emergere di soggetti analoghi allo spagnolo Podemos o al greco Syriza, oppure ispirati alle esperienze “glocali” delle Fearless Cities.
La caratteristica primaria di tale appartenenza è la devozione gesuitica perinde ac cadaver al proprio leader-guru, spia di una mutazione genetica che ha interessato quel pezzo di società che si raggrupperà attorno all’insegna pentastellata; con un atteggiamento mentale più che politico, religioso.
Tutto si direbbe iniziato con l’apocalisse della Prima Repubblica: il Diluvio Universale che spazzò via un’intera classe dirigente rivelandone la corruzione morale e smascherandone le pratiche “peccaminose”. Vicenda che segna una certa psiche collettiva, radicandovi la domanda spasmodica di espiazione e salvezza.
Il primo angelo vendicatore, il prescelto per eseguire le condanne sancite dalla “collera del Signore”, trovò identificazione in Antonio Di Pietro. E la sua Italia dei Valori venne percepita come l’arca che avrebbe ospitato fedeli e conversi in fuga dalla “catastrofe mitologica”, a seguito del crollo repubblicano. Molti di questi imbarcati li ritroveremo tra i grillini della prima ora. Con il loro carico di fideismo e la loro costante attesa di palingenesi universali.
Catarsi promessa e non realizzata per la “discesa in campo” di un avversario come Silvio Berlusconi, forte di strumenti comunicativi incomparabili e supportato da un’aggregazione sociale ben più vasta di quella dipietrista: l’aggregato Legge&Ordine tra impauriti e abbienti trasformato in blocco elettorale a supporto della primazia-egemonia ventennale di uno spregiudicato affarista; in cui andavano identificandosi i materialissimi interessi di chi ricercava protezione (dal Fisco come da oscure minacce, create ad arte dall’importazione di tecnologie della paura messe a punto nei think thanks USA di matrice NeoCon).
Nel frattempo l’inusitata potenza di fuoco mediatico dell’iper-spregiudicato tycoon aveva modo di screditare l’abito morale del magistrato Di Pietro mediante campagne basate sulla demonizzazione terminologica della giustizia in giustizialismo.
Sicché, quando prende corpo “il Movimento del Vaffa”, l’Italia dei Valori è già totalmente fuori gioco. Nel frattempo c’erano state insorgenze indignate a vari livelli organizzativi – dai Girotondini (2002) al Popolo Viola (2009) – ma che non erano state in grado di fare emergere una vera soggettività capace di offrire stabili punti di riferimento alla domanda di purificazione del potere; il campo in cui l’establishment, ovvero la corporazione autoreferenziale della politica in senso lato, evidenziava sempre di più i connotati grifagni ed esecrabili della Casta.
La nuova arca della salvezza diventa naturalmente il soggetto creato dalla singolare diarchia che vede balzare sulla scena nazionale uno speaker alla ricerca di autore – Beppe Grillo – e un autore misteriosamente afasico, i cui silenzi appaiono particolarmente illuminanti a una folla bisognosa di credere: GianRoberto Casaleggio, il perito industriale che ha ricavato il proprio apparato visionario dalla science-fiction di Isaac Asimov. Ognuno a modo suo, profeti semplificatori in grado di rassicurare schiere di followers con messaggi manichei, profetismi vari e invettive utili a bollare l’avversario alla stregua del Male Assoluto.
Mix catechistico che non lascia adito al dubbio, indicando la via della Nuova Gerusalemme a folle illuminate sulla via di Damasco dal caleidoscopio di rivelazioni (la democrazia diretta, le scie chimiche, uno vale uno, Gaia e la Terza Guerra Mondiale, i detersivi inquinanti sostituiti da una pallina di ceramica detta Biowashball…) reiterate nelle ritualità nel Santo Web; rinominato Rousseau.
La scomparsa prematura del suggeritore in penombra Casaleggio non fermerà l’abbrivio; né determinerà l’accantonamento della deriva settaria del Movimento che non fa alleanze a tutela della propria purezza. La conclamata alterità al grido di “onestà, onestà”.
Breve la vita felice di questa credenza politica New Age: le elezioni generali del 4 marzo 2018 registrano un clamoroso successo Cinquestelle, che esce dalle urne come il primo attore politico nazionale, chiamato ad assicurare un governo all’Italia.
Quindi, la necessità di fare il salto dal movimento all’istituzione, strutturandosi come partito. Grillo si defila (stanco dell’impegno o consapevole di non poter più campare sul repertorio di varie grida con cui ha spiazzato per anni il quadro politico?), la forza di governo si ritrova con l’insediamento dall’alto di un nuovo capo politico: Luigi Di Maio – come pres
to si potrà appurare – giovanotto cresciuto in un ambiente familistico intriso di umori destrorsi e portatore di una cultura palesemente premoderna.
A fronte della nuova sfida e nel processo di penetrazione del Movimento negli organigrammi pubblici, il modello a cui Di Maio si ispira è l’unico che conosce: il museo degli orrori dei Pomicino, i Gava, Pino Pizza, Tarzan Scotti… La tradizione del doroteismo assistenzialistico democristiano (quello delle erogazioni clientelari a pioggia) rivisitato alla luce del vittimismo cospirativo proprio di una certa tradizione meridionalistica. Il sangue di San Gennaro mischiato alla furberia pulcinellesca: oscurantismo e pressapochismo straccione. Un patrimonio in palese dissintonia con i valori repubblicani sanciti dalla Costituzione e inadeguato per affrontare le sfide di un Paese affetto da modernizzazione carente.
Per di più – grazie all’avventurismo del PD renzizzato (ritiratosi sull’Aventino a mangiare pop corn) – Di Maio, in assenza di alternative, ha stretto un’alleanza con la Lega di Matteo Salvini, partito post-localista che ha ricostituito una forte identità di compagine sovranista/suprematista sulla scia delle democrazie illiberali dell’Est europeo e dello sciovinismo xenofobo lepeniano; mentre nel frattempo il Cinquestelle non è riuscito a dotarsi di un apparato concettuale valorial-programmatico come evoluzione dalla fase del movimento millenaristico al disincanto proprio di un soggetto politico secolarizzato.
Un rapporto molto sbilanciato a sfavore dei 5S, immersi in un eterno guado: non più sistema di credenze salvifiche e non ancora forza di governo problem-solver, capace di ricostruire il proprio patto con il corpo sociale sulla base della proposta razionale.
E in quel guado l’arca affonda, mentre i credenti imbarcati annegano nella delusione; mentre Salvini emerge come il nuovo uomo forte: promotore di certezze concretissime seppure ideologicamente trucide (il disegno reazionario di blindare la società all’insegna del suprematismo etnico), non profeta di salvezze ultraterrene. Mentre dall’altra parte permane il vuoto strategico.
Sicché – come ha scritto Alessandro Gilioli, parafrasando il Sergio Leone di Per un pugno di dollari – «quando un partito con un’ideologia incontra un partito senza un’ideologia, quello senza ideologia è morto».
Ciò detto, torniamo al 5S dopo le elezioni abruzzesi.
Indubbiamente il dimezzamento del suo voto dopo neppure un anno dipende anche dalla delusione dell’elettorato d’opinione per la pessima prova governativa del team Di Maio, confuso e subalterno. Ma almeno metà di questa perdita risulta certamente imputabile al ripiegamento nell’astensionismo del suffragio d’appartenenza; a riprova della crescente abiura aventiniana che va diffondendosi nel popolo che ha perduto la propria fede. La fine dell’effetto ipnotico di una Verità rivelata che doveva redimere la politica, mentre s’insinua e dilaga il dubbio che la diversità profetizzata fosse solamente un inganno.
Di Maio non ha confermato neppur minime doti taumaturgiche, Beppe Grillo è lontano, privo dell’assistenza di un suggeritore, disperso nel labirinto di affermazioni confuse e incomprensibili, l’Alessandro Di Battista, richiamato in tutta fretta dalla sua Latino-America a fumetti come anti-Salvini, è un Giovanni (appunto, Battista) che annuncia un introvabile Messia; vox clamantis in deserto di una purezza perduta.
Sicché nessuna ritualità dibattimentale, in base alle modalità standard della politica politicante, può sanare la pulsione alla fuga degli apostati. Alla morte del dio che ha calpestato ogni speranza dei propri adepti nell’avvento del regno grillesco.
Se così è, l’esito abruzzese del 10 febbraio può segnare l’inizio di una contro-metanoia senza ritorno, la conversione al contrario per quella mobilitazione carismatica che ha smarrito le proprie certezze ultime senza riuscire a misurarsi laicamente con il mondo reale. A far evolvere verso la responsabilità razionale il proprio messaggio chiliastico, millenaristico, praticando innovazione disincantata.
Ennesima opportunità mancata per un Paese che seguita a confidare nei miracoli.
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