La Biennale Cinema 2020, ripensamento della forma-festival?
Flavio De Bernardinis
La Mostra del Cinema di Venezia (2-12 settembre 2020), primo caso di grande manifestazione artistico-culturale ad aprire i battenti in tempi di pandemia, è l’occasione per riflettere, più che del cinema in sé, sullo stato della cultura cinematografica nel suo complesso.
Il cinema vive, sopravvive, muore? Interrogativo in fondo privo di senso. Meglio chiedersi se il bisogno, o il desiderio, di cultura cinematografica sia così radicato nel tessuto civile da intendere il racconto per immagini e suoni una necessaria occasione di confronto con temi e problemi che il cinema, con il proprio linguaggio e i propri rituali, può garantire.
La cultura cinematografica non si può ridurre alla proposta spettacolare, più o meno sorprendente, di ciascun singolo film. È qualcosa che investe dinamiche quali il gusto estetico e la riflessione critica, la consapevolezza storica e il presentimento dell’avvenire, la cura della memoria e l’intuizione di ciò che memoria non ha più, o non ha ancora.
Roberto Cicutto, al suo primo mandato come Presidente della Biennale di Venezia, è stato chiaro: un’ipotesi di Mostra del Cinema in assenza, su piattaforme digitali, è da scartare. La cultura cinematografica, per essere tale, prevede una quota ragionevole di partecipanti in carne e ossa, ovvero in presenza. La quota in presenza, pur rimodulata, deve comunque essere garantita.
Dall’osservatorio della Biennale, Cicutto dichiara che la pandemia consente di ripensare l’idea stessa di festival: «I festival hanno avuto un ruolo importante per la valorizzazione degli artisti e dell’industria cinematografica, ma oggi chi viene a Venezia deve ritornare all’idea di promuovere il valore dei film, non gli effetti rispetto all’uscita in sala. Anche gli altri festival dovranno scegliere i contenuti e la promozione del valore culturale, tutto il resto dovrà farlo l’industria cinematografica». Cioè a dire: una Mostra d’arte cinematografica non è semplicemente un evento, capace di sostenere il passaggio dei film dalla vetrina del festival allo sfruttamento commerciale in sala.
Per quanto ci riguarda, riflettendo, la situazione era giunta a un livello ancora maggiore di saturazione. La forma-festival aveva infatti ecceduto la dimensione stessa dell’evento, estendendosi alla totalità della distribuzione cinematografica nelle sale. Intendiamo dire che in fondo ogni multisala cinematografica concentra in sé il glamour di un piccolo grande festival. Esattamente come un festival, infatti, la multisala è uno spazio autoreferenziale, in cui, sugli otto dieci quindici schermi, è presentato un programma capace di attirare non un pubblico, ma una sorta di «turismo cinematografico» allettato da un’offerta, che somiglia molto alla logica del telecomando, o del mouse: in fila alla cassa, osservando il display delle proiezioni e degli orari, il «turista» della multisala cinematografica attiva, oppure se si preferisce «clicca», sul programma desiderato, come se scegliesse un sito web, un canale o un network.
La cultura cinematografica tutta ha così assunto le fattezze di un festival permanente, dislocato a rete su tutti gli schermi, tanto che il festival in quanto tale diventa una vetrina capace di rilasciare un bollino (premio al film, riconoscimento all’attore…) che garantisca pregio festivaliero anche alla semplice proiezione quotidiana in sala. È stata infatti proprio questa la proposta di Cannes, quando, svanita ogni possibilità di realizzare il festival, ha offerto ai film selezionati un bollino vero e proprio, una sigla di riconoscimento da utilizzare, facendo così di ciascuna sala cinematografica il sito virtuale del festival. È sembrata una provocazione, e invece era soltanto la conferma di una situazione documentata e stabilita. La cultura cinematografica quale festival permanente dislocato su tutte le multisale possibili. Che possono diventare multisale virtuali in epoca di pandemia, anche in rete, la cui logica era già pienamente compresa nella cultura della multisala vera e propria, quale «sito» di smistamento, di «navigazione», dell’offerta cinematografica in chiave «turistica».
La vecchia sala cinematografica permetteva allo spettatore, con un biglietto singolo, di vedere il film più volte. Quella era la cultura cinematografica di prima. Oggi, il display di una multisala somiglia al display di un aeroporto, in cui valutare orari e ingressi. Questo è il «turismo cinematografico» contemporaneo. La forma-festival, così, non fa altro che unire in un unico pacchetto il turismo «virtuale» della multisala a programma con il turismo «reale» del viaggio per raggiungere la località in cui il festival stesso si svolge.
Secondo gli auspici della Biennale 2020, la forma-festival va necessariamente ripensata. Sarà allora questione di cultura cinematografica sottrarre il festival alla tentazione del format, contenitore «turistico» di pacchetti, per aggiustare la rotta sulla specie dei contenuti. Così almeno dice Cicutto, assieme al direttore Alberto Barbera: assegnare al festival la funzione di promuovere il valore del film, lasciando all’industria il compito di promuoverne la diffusione.
La cultura cinematografica, in tal modo, potrebbe essere spacchettata. Il festival, prima di essere un evento, è un’occasione. Prima di essere un sito, è un luogo. La quantità si rovescia nella qualità. Meno film, significa più attenzione ai contenuti. Meno film vuol dire cessare la logica del «fare contenti tutti», come nei pacchetti turistici. Meno film significa porre l’accento sul perché un dato film sia stato selezionato. Anche i produttori, quindi, dovranno intendere il festival come il luogo in cui alcuni film si confrontano con il proprio perché. Che non significa naturalmente la vecchia idea del festival quale riserva indiana dell’ispirazione poetica a tutti i costi. Ma il senso del festival nella ricerca di quei film che intendono rivolgere a sé stessi, ma soprattutto allo spettatore, un discorso sulle motivazioni che li sostengono.
Oggi i film, e anche le tanto acclamate serie-tv, non dispongono più di un discorso, ma si accontentano di un commento. Il film va commentato, come si commenta in rete un pacchetto vacanze: che le promesse siano mantenute, il livello dell’offerta adeguato, l’ospitalità confermata. Non c’è motivazione, ci sta solo l’effetto. Il commento è la considerazione del rapporto tra offerta e verifica dell’offerta.
Un festival che rovescia la quantità sulla qualità può rilanciare l’esigenza di un discorso: la qualità prevede la ricerca del perché, ciascun perché va motivato, la motivazione poi va discussa. E infine consegnata al giudizio, che non è la cassazione dell’arte, ma l’esito di una cultura cinematografica (di una cultura) viva e partecipe del tessuto civile a cui si rivolge.
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Vedremo se Venezia 2020, nei fatti, saprà almeno impostare la questione. Sarebbe già molto. Paul Bowles, ne Il tè nel deserto, come è noto, distingueva tra turista e viaggiatore. Forse è il momento di andare al di là di una metafora pur sempre ancorata all’immagine dello spostamento. Forse è il momento di assestarsi. Al turista/viaggiatore che si muove e commenta, è auspicabile un curioso stanziale che partecipi e discuta.
Interrompere la continuità dell’evento visibile significa forse spezzare la logica del festival permanente, per le forme e i modi di un laboratorio interdisciplinare permanente. Contrapporre al «turismo festivaliero» la complessità stanziale del laboratorio, di cui il festival stesso è parte.
Un tessuto sociale che si scopre al di fuori di ogni garanzia immunologica, deve ritrovare il senso comune delle cose, alterato e alienato da anni e anni di sovraeccitazione indiscriminata. Anche la cultura artistica e cinematografica può contribuire. Noi saremo qui, stanziali, comunque a vigilare.
(5 agosto 2020)
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