“La cartomante di Fellini” e una certa immagine dell’Italia
Flavio De Bernardinis
Sulla quarta di copertina del libro tu leggi: «La verità è che era un genio, ma a volte era anche un po’ stronzo». Pensi subito che si sta parlando di te, al di là di Federico Fellini. Allora inizi da pagina 1 per arrivare infine a pagina 471. E ti chiedi dunque: de te fabula narratur?
L’autrice de La cartomante di Fellini, figlia di Caterina Boratto, ha conosciuto personalmente il «regista», come sovente lo chiama, ed è stata testimone diretta di alcuni set dei film più importanti, tra cui 8½ e il Satyricon, di cui ha redatto un diario di lavorazione che Truffaut volle pubblicare sui Cahiers du Cinéma.
Il libro vuole essere un ritratto «dietro le quinte», buono per il centenario felliniano (1920-2020): ma è anche un romanzo di formazione dell’autrice stessa, che inizia la sua avventura nell’ambiente cinematografico all’età di sedici anni, e per tutta la vita resterà compresa nelle spire del fascino del Maestro. E come deve essere ogni storia di crescita e consapevolezza, trattasi infine di un racconto sul Paese e i suoi abitanti, l’Italia e gli italiani. Su di te che leggi. De te fabula narratur.
Il rapporto tra Marina e Federico Fellini è filiale e fraterno. Lui è il Maestro, «Devi assolutamente leggere Kafka e Dostoevskij: loro hanno avuto entrambi un rapporto molto contrastato col padre» (pag.39). Il Confidente: «Mi confidò che quando scese in albergo a Colonia, durante il viaggio di ricognizione per preparare il Mastorna, fu stordito dal suono inusuale delle dodici campane del duomo. Gli parve che quello fosse il suono del tempo eterno, e cadde svenuto» (pag.343). L’Intellettuale Nascosto: «Lo incontravo spesso nella libreria Feltrinelli di via del Babuino, era un lettore onnivoro, ma fingeva di non leggere nulla» (pag.177). Il Poeta: «Ogni film è la storia della realizzazione del mio inconscio, posso e so solo raccontare storie» (pag.371). Il Mistero: «Ci legava il senso del mistero delle cose» (pag. 235). Fino alla domanda fatidica, che il «regista» rivolge all’autrice: «Perché non diventi la mia maga personale?» (pag.319).
Non tutto è simpatia e sintonia. Incombe il ’68. Che altro non è che il «rifiuto del padre, qualcosa che noi giovani pagheremo caro» (pag.417). E poi: «Federico, a Fregene, trovandosi di fronte alla figlia di Flaiano, Luisa, affetta da un grave handicap, continuava a ripetere all’infermiera frasi infelici, pare imperdonabili» (pag. 194). Quindi, da brava maga personale, le minacce esoteriche: «Federico, sei stato solamente a Colonia o anche a Praga? – Non rispose. Non so perché pensai fosse stato anche a Praga, a visitare la casa di Faust, dove pare si facessero studi alchemici ed era considerata maledetta – Devi allontanarti assolutamente dal magico! – esclamai d’impeto» (pp. 296-297). Infine, come sempre, la perfidia e il tradimento: «Giulietta aveva ricevuto lettere anonime che riguardavano una relazione tra me e Federico» (pag. 399).
Il romanzo di formazione allude a una discesa agli inferi: negli abissi della psiche, nel segno di Jung, così amato dal «regista», quindi nell’Eros, nel Sesso e nel Matrimonio. E nell’Arte, naturalmente, che tutto sublima ed esprime: «Ma la vera amante di Fellini era Cinecittà» (pag. 287).
De te fabula narratur? Ma tu resti impressionato da queste coppie di artisti che praticano la disciplina del pedinamento. Non solo Giulietta fa sovente pedinare Federico, ma anche Giuseppe Berto con sua moglie, quando Fellini chiede a Marina: «Berto ti ha corteggiato?». E lei replica: «Non l’ho più visto! Lui e sua moglie si amano troppo, così da pedinarsi a vicenda». «Si pedinano? – ripeté grattandosi la testa». «Per gelosia reciproca: me lo ha confidato un’amica comune» (pp. 238-239).
Da cui, il sentimento di colpa, e il rapporto con la religione cattolica. Marina intercetta una confessione di Fellini a Brunello Rondi: «Cosa c’entra Dio con i pasticci che combiniamo noi umani. Abbiamo il libero arbitrio e penso che il disegno finale di Dio e dell’Universo sia provvidenziale e possa prevedere solo il Paradiso che abbiamo perduto con Adamo ed Eva» (pag. 65). E così la concezione della Donna. Per Caterina Boratto, madre dell’autrice, Fellini prevede questo: «Guarda Caterina che domani verrà a trovarti a casa lo scultore Angelo Bragalini per fotografarti e modellare il calco del tuo viso per la statua della Madonna» (pag. 69). Per Fellini la maggior parte dei matrimoni italiani erano simili a quello del protagonista di 8½: «Il marito che torna a casa e non parla, la moglie che abbassa gli occhi infelice e risentita. Esigere dagli altri una fedeltà a noi stessi è una mostruosità, un pensiero antireligioso» (pag.181). E dalla anti-religiosità della fedeltà coniugale sgorga il rito propiziatorio dell’harem nel film. De te fabula narratur? Tu pensi di sì. Anche se…
Anche se un senso di spossatezza, tenera e vuota, inizia a prevalere. Romanzo di formazione? Di chi? Di cosa? Dell’Italia e gli italiani? Del cinema italiano? Ma cosa è davvero il cinema? A pagina 325 Marina, all’improvviso, scrive del film Operazione paura e di Mario Bava, un «regista che andrebbe ristudiato». Ecco, adesso sì. Mario Bava, lui, va ristudiato. Quello davvero è il cinema: il perfetto e inequivocabile grande artigianato italiano. Casa e bottega. Fellini, lasciamolo stare. Qui si tratta di incubi, abissi, capolavori, cose così. Belle cose di pessimo gusto. A te, italiano, piace l’opposto: a te piacciono le pessime cose ma trasfigurate in un giudizio di bellissimo gusto.
E infatti tutto il cinema, quello dei capolavori come Fellini, per te, italiano, è una cosa bella certamente (questo è innegabile), ma di gusto davvero pessimo. E il romanzo di formazione di Marina lo conferma a puntino.
Cosa varrebbe che io dichiarassi, immagini e suoni alla mano, che i primi due minuti di Satyricon valgono più di qualsiasi Nouvelle Vague? Nulla. I film-capolavoro sono solo segni, anzi sintomi di ben altro. Turbe esistenziali e dubbi religiosi, pedinamenti coniugali, harem sognati e realizzati, emergenza permanente della psiche più tenebrosa e profonda, Kafka e Faust, Dio Padre e Maria Vergine: questo è ciò che conta davvero. Sommo artigianato del carattere italiano. Il cinema? I film? Qualche capolavoro, cosa vuoi che sia: «Io pensavo che ci fosse qualcosa di impudico nel mestiere del regista quando dovevano girare delle scene con le attrici. E che molte donne fossero un po’ masochiste ad accettarle. L’avevo intuito dopo aver sorpreso una comparsa del Satyricon recitare contro la propria volontà una scena di nudo» (pag.451).
Come disse Orson Welles ne Il terzo uomo: l’Italia con Cesare Borgia e Beatrice Cenci produce Michelangelo e Raffaello, la Svizzera con la pace perpetua l’orologio a cucù.
Noi italiani, anche tu, tutti, siamo così votati alla trasfigurazione. Da Cesare Borgia a Michelangelo. Tutte le nostre pessime cose si possono trasfigurare grazie al giudizio di bellissimo gusto. Questa, è l’Italia. Mentre Fe
llini, che ci getta in faccia tutte le nostre putride trasfigurazioni in veste di impietosi capolavori, resta infine un «regista» un po’ «impudico», anche se «sono convinta che certi registi abbiano fatto molto peggio di Fellini» (pag. 451). Magari Antonioni, perché «forse anche Antonioni vedeva della donna forse solo due facce, la puttana e la santa» (pag.450).
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Tu ritorni infine dove sei partito, alla quarta di copertina. E leggi l’ultima frase: «Ma perché si finiva sempre col perdonarlo?». De te fabula narratur. Perdona, tu, italiano, dei capolavori riconosciuti a livello mondiale di un «regista» che era «genio» e «stronzo». Perdona: assolvendo costui assolvi anche te stesso. Ogni romanzo di formazione è insieme una confessione. Basta che tu lo voglia, puoi ottenere, grazie al «regista» raccontato così, l’indulgenza plenaria.
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