La casa come luogo di lavoro

Sandra Burchi

Quello che abbiamo sperimentato in questi mesi non è stato un vero smart working, quanto piuttosto un home working d’emergenza, che ha spinto gli ambienti domestici a trasformarsi in nodi iperconnessi. Nel abbiamo pubblicato un saggio di Sandra Burchi dal titolo "Se la casa diventa il luogo di lavoro" per analizzare la questione e immaginare un futuro possibile. Ne pubblichiamo un estratto, dal titolo "La casa come luogo di lavoro"*.

*Estratto di circa 5mila battute su un totale di 21mila del saggio contenuto nel .

Sarà chiaro a tutti a questo punto che quello che ci siamo abituati a chiamare smart working è più propriamente una forma moderna (e forzata) di lavoro da casa, affidata al senso di responsabilità e alla capacità di adattamento di tutti e tutte. La caratteristica principale dello smart working, la flessibilità, nei fatti è saltata e tutti hanno sperimentato gioie e dolori di un home working organizzato di fretta[i].

Non è uno slittamento da poco. L’alternanza dentro-fuori prevista dalla legge 81/2017 è essenziale. Serve per non tenere il dipendente troppo lontano dalla sede di lavoro ed evitare la sua messa ai margini (conosciamo le perdite di opportunità che derivano dal non prendere parte ai momenti informali o dal non rendersi conto dei processi «vivi» che governano un contesto) ma soprattutto serve come strumento di regolazione, un modo per organizzare la prestazione lavorativa, per tenere in equilibrio – in un gioco di articolazione – raggiungimento degli obiettivi e carico orario necessario, soprattutto in assenza di cartellino.

Definire uno spazio e un tempo di lavoro adeguati, ricalibrare tutta la questione organizzativa, è un meta-compito, difficile da nominare o da rendere visibile, affidato ai dipendenti. Il sistema di ambivalenze legato alla possibilità di lavorare in autonomia, di scegliere come e quando lavorare, soprattutto a/da casa, deriva non soltanto dalle caratteristiche fisiche dello spazio (i metri necessari) ma anche da quelle simboliche. Sappiamo quanto sia difficile sottrarsi ai condizionamenti che gli spazi esercitano su di noi, organizzandosi, ben oltre la nostra capacità di progettarli e abitarli, come luoghi carichi di norme e di divieti[ii]. Sottrarsi alle norme di questo disciplinamento continuo significa entrare in una logica di corpo a corpo con lo spazio, con le sue dimensioni invisibili, una lotta la cui posta in gioco è l’introduzione di discontinuità fra quelle relazioni di potere che, sommessamente, tendono ad assegnare un posto a ogni cosa. La densità di interferenze che derivano dal muoversi in un ambiente sovraccarico di funzioni, attività, elementi identitari ha bisogno di essere alleggerita, ripensata.

Al di là di ogni evidenza, negli scorsi mesi molti e molte hanno sperimentato quanto sia difficile trovare delle routine adeguate al lavoro professionale, quanto sia difficile essere produttivi, concentrati e lineari all’interno di uno spazio in cui il tempo procede in maniera circolare, riproponendo a distanza di poche ore la ripetizione di gesti legati al vivere, l’abitare, il nutrirsi, il prendersi cura reciproco o solitario che sia. La sovra-dotazione di dispositivi e strumenti informatici nello spazio che ci circonda non basta da sola a fare della casa un ambiente adatto al lavoro. Nello scambiarsi di presenza e distanza, molte cose cambiano.

Qualsiasi relazione che in ufficio si produceva in presenza (una battuta con il collega, uno scambio rapido, una conferma) deve avvenire tramite un messaggio e una mail, e questo aumenta il carico delle comunicazioni necessarie. Per contro, tutto quello che proviene dalla casa ora è vicino, a portata di sguardo, di parola, di richiesta e, in mancanza di un ambiente separato destinato al lavoro, costruire una separazione fra le diverse attività da compiere a casa comporta un lavoro di micro-progettazione. Soprattutto quando si condivide la casa con altri è necessario definire continuamente lo spazio di lavoro: riconfinare la presenza altrui prima di cominciare a lavorare o ridefinire l’ambiente comune, sgombrandolo, a fine giornata, dei resti e delle tracce del proprio fare. Anche isolare un tempo per lavorare è complesso, perché a casa il lavoro «non si mette in riga», tiene un altro ritmo. A casa, è stato detto, esiste un tempo recuperabile, almeno potenzialmente. Questo rende difficile stabilire orari, trovare argini: si può fare, ma è un ulteriore lavoro. In questi giorni, chi può lavorare da casa, è alle prese con l’invenzione di un’organizzazione efficace e fa esperienza, in alcuni casi per la prima volta, di una difficoltà inaspettata: avere tutta la giornata a propria disposizione non basta di per sé a renderla produttiva e i tentativi di non disperdersi stanno producendo in molti e molte la sensazione di andare di fretta in un tempo senza argini.


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LinkedIn, la rete professionale sul web, ha commissionato una ricerca[iii] che ha coinvolto oltre 2 mila lavoratori che in Italia hanno lavorato da casa durante il lockdown e che aveva come focus proprio la salute mentale. La ricerca ha evidenziato che oltre il 46 per cento degli intervistati ha affermato di sentirsi più in ansia e sotto stress a causa del lavoro e il 48 per cento ha constatato di aver lavorato almeno un’ora di più al giorno. La cosa non stupisce, il tempo di lavoro, mescolandosi e accavallandosi con il tempo che la casa chiede per sé e per i suoi abitanti (anche solo uno) piuttosto che diminuire aumenta. È un dato difficile da rendere visibile in un accordo contrattuale eppure è un aspetto organizzativo rilevante di cui l’esperienza tiene traccia.

(10 agosto 2020)
NOTE:

[i] Rimando al mio articolo «Lavorare a casa non è smart», InGenere, 17/3/2020, bit.ly/2VagSHT.

[ii] Si veda C. Pasquinelli, La vertigine dell’ordine. Il rapporto fra il sé e la casa, Bal­dini Castoldi Dalai, Milano, 2004.

[iii] «Le conseguenze del lavoro da casa sugli italiani in lockdown», Agi, 14/5/2020, bit.ly/3cUkDqR.




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