La cecità, l’efficienza e il furto del futuro

Stefano Caserini

Proseguiamo il dibattito su crisi climatica e mobilità sostenibile con questa replica di Stefano Caserini, autore del saggio “L’auto non inquinante è un’illusione” su , all’intervento di Marco Ponti e Francesco Ramella, “”, pubblicato su MicroMega online.



Si potrebbe sorridere dei tentativi di Marco Ponti e Francesco Ramella (in seguito, P&R) di minimizzare gli impatti dei cambiamenti climatici, se non si trattasse di una faccenda maledettamente seria. Per motivi di tempo, e per non dare altri argomenti a chi su twitter ha ventilato la possibilità della mia beatificazione per il tempo che spendo nel debunking delle tesi infondate sul cambiamento climatico, non replicherò punto per punto all’ultimo scritto di P&R. Mi limiterò a demolire il punto centrale, che sorregge tutta l’impalcatura delle critiche di P&R a politiche ambiziose sulla mobilità sostenibile (e in generale ad azioni aggressive contro i cambiamenti climatici). Sul tema delle politiche sui trasporti, dopo aver letto che per sminuire il ruolo del trasporto collettivo rispetto all’automobile P&R hanno usato il paragone fra la macchina da scrivere e il personal computer, non penso sia utile proseguire.

Un vecchio approccio, superato dalla realtà

Secondo P&R, politiche molto decise di contenimento del riscaldamento globale (che secondo l’IPCC porterebbe a costi della CO2 molto superiori a 100€/t) sarebbero troppo costose, inefficienti, quindi “la scelta migliore, quella che minimizza la somma dei danni del cambiamento climatico e dei costi per la riduzione delle emissioni, sarebbe verosimilmente quella di perseguire un obiettivo meno stringente con una temperatura ottimale tanto maggiore quanto più elevati sono i costi di abbattimento”. Incuranti del dibattito sulle politiche per contrastare i cambiamenti climatici degli ultimi 20 anni, P&R hanno in sostanza riproposto uno schema vecchio come il cucco, secondo cui la definizione dell’obiettivo delle politiche sul clima dovrebbe derivare da un’analisi economica: un confronto fra i costi economici degli impatti dei cambiamenti climatici (che crescono tanto più aumenta la temperatura media globale scelta come obiettivo) e i costi della mitigazione (che invece diminuiscono con l’aumento della stessa temperatura).

Senza entrare nei dettagli metodologici che potrebbero complicare la faccenda, è ovvio che per poter fare questo tipo di valutazioni è necessario conoscere i due tipi di costi, sia dei danni dei cambiamenti climatici che delle azioni di mitigazione. Non si intende una conoscenza con precisione assoluta, impossibile per valutazioni di questa complessità; ma con una ragionevole approssimazione. Ad esempio, non sbagliare di ordini di grandezza. Oppure non trascurare – per le difficoltà metodologiche, per la mancanza dei dati o per pigrizia – tanti tipi di costi che andrebbero considerati. Altrimenti l’analisi economica diventa un esercizio teorico di nessuna utilità concreta. Nel migliore dei casi interessante dal punto di vista metodologico, da discutere in una o più pubblicazioni scientifiche, utile per la carriera accademica o altri riconoscimenti. Nel caso peggiore un giocattolo per mascherare una battaglia ideologica, o per ammantare di scientificità azioni criminali di disinformazione volte a difendere interessi economici particolari. Quando le lobby fossili hanno voluto affossare la ratifica del Protocollo di Kyoto da parte degli Stati Uniti, il tema dei presunti grandissimi costi della ratifica e l’inefficienza economica del Protocollo, è stato molto utilizzato.

Già si potrebbe discutere con quale precisione sia oggi possibile stimare i costi della mitigazione, visti gli errori di chi – solo vent’anni fa – stimava i costi della transizione alle fonti rinnovabili, e quanto più velocemente del previsto si sono sviluppate l’energia solare ed eolica (grazie alla continua riduzione dei loro costi). Ma lasciamo da parte questo aspetto. Più interessante è vedere come le stime dei danni dei cambiamenti climatici per futuri incrementi della temperatura siano inadeguate, carenti, clamorosamente incomplete; e come chi cerca di difenderle – nel caso, P&R – in sostanza non sa di cosa sta parlando, non è a conoscenza di fatti basilari della scienza del clima.

Toh.. c’è anche l’Antartide

Nella mia precedente replica avevo scritto che “un incremento di 3°C o 3,6 °C innescherebbe un “aumento del livello del mare di decine di metri”. Secondo P&R questo “contrasta con quanto sostenuto dall’IPCC”, e per dimostrarlo hanno riportato un estratto del Capitolo 13 del volume del primo gruppo di lavoro del Quinto Rapporto sul Clima IPCC, ove si scrive che la fusione dei ghiacci della Groenlandia, probabile nell’intervallo delle temperature da me riportato, porterebbe un aumento del livello del mare di 7 metri. Essendo molto meno della “decina di metri” di cui ho scritto, ne è derivata l’accusa, proposta da P&R anche nel titolo del loro intervento, di “catastrofismo”.

Possibile che P&R non sappiano che sul nostro pianeta esiste l’Antartide? D’accordo che quasi tutti i mappamondi lo penalizzano (ne nascondono una grande parte), ma già alle scuole medie ti insegnano che sul nostro pianeta esiste un continente coperto di ghiaccio. Anche economisti poco esperti del clima globale dovrebbero aver sentito dire che in Antartide i ghiacci sono profondi anche 4 km (le famose “carote” con cui si ricostruisce il clima del passato arrivano da lì), che fusi equivalgono a circa 57 metri di aumento del livello del mare (tab. 4.1 IPCC AR4-WG1), che hanno già iniziato a fondere (155 miliardi di tonnellate l’anno in media nel periodo 2006-2015), che già stanno contribuendo, e contribuiranno in futuro, all’aumento del livello del mare. Ad esempio, secondo il Rapporto speciale IPCC su Oceani e criosfera l’aumento del livello del mare causato dall’Antartide potrebbe essere di svariati metri entro pochi secoli[1]. Secondo questo studio pubblicato su Nature, l’Antartide potrebbe contribuire a 15 metri di aumento del livello del mare entro il 2500.

Le vere conseguenze delle decisioni attuali

Quanto le calotte polari (Groenlandia + Antartide) siano sensibili all’aumento delle temperature è uno dei “punti caldi” della scienza del clima. È stato discusso in migliaia di pubblicazioni scientifiche, a partire da un famoso articolo pubblicato su Nature, che già nel 1978 presentava l’idea che il riscaldamento globale potesse provocare una rapida deglaciazione della parte più sensibile del continente antartico, la parte occidentale, con un aumento del livello del mare di 5 metri. Raccontare come questa idea è diventata un “paradigma” per una generazione di ricercatori e come gli esseri umani hanno capito la grande vulnerabilità delle calotte polari, le potenziali conseguenze sul livello del mare, come l’IPCC ha riassunto questa conoscenza, richiederebbe un intero numero di Micromega (e sarebbe un numero molto interessante). Mi limito a citare uno degli articoli più importanti e chiari sul tema, scritto da 22 studiosi fra cui una decina di “mostri sacri” della climatologia, pubblicato nel 2016 su Nature Climate Change[2]. In questo articolo, di cui ho già parlato nel mio intervento su Micromega 6/2017, si spiega in modo magistrale il legame fra le emissioni di CO2 e l’innalzamento del mare. I livelli raggiunti dopo 10 millenni, per diversi scenari emissivi, sono mostrati nella figura sotto, tratta da quell’articolo (le emissioni corrispondenti a uno scenario di +3,6°C sono fra 1500 e 2000 GtC – gigatonnellate, fra la prima e la seconda curva sulla destra). Questi aumenti non avvengono come nei film di Hollywood, nel giro di giorni o settimane. Sono processi lenti, che richiedono – come ho scritto – molti secoli, e durano molti millenni, per via dell’inerzia e dell’irreversibilità della dinamica della fusione delle calotte glaciali. Ma di fatto quegli aumenti futuri dipendono dalle decisioni odierne[3].

Cambiamenti passati nel livello medio globale del mare e proiezioni per i prossimi 10.000 anni per quattro scenari di emissione (1.280, 2.560, 3.840 e 5.120 Pg C). Fonte: Clark et al., 2016, cit.

Quindi non è – affatto – catastrofismo sostenere che aumenti delle temperature globali doppi di quelli messi alla base dell’Accordo di Parigi innescherebbero aumenti del livello del mare di decine di metri: è la realtà dell’evidenza scientifica sul clima. Ed è questo il motivo per cui nell’Accordo di Parigi, ratificato da 188 Stati, è stato inserito un obiettivo così ambizioso come limitare l’aumento delle temperature “ben sotto i 2°C e fare uno sforzo per fermarsi a 1,5°C”.

Durante la COP21 di Parigi è stato commissionato all’IPCC un rapporto per valutare le differenze fra 1,5°C e 2°C nei benefici per le attività umane e gli ecosistemi, le politiche e i costi per raggiungere questi obiettivi. Scenari sopra i 2°C, o addirittura 3°C o 3,6°C, sono fuori dal dibattito politico sul clima. Ed è questa una delle buone notizie del negoziato sul clima degli ultimi 10 anni.

Il fatto che alcuni economisti continuino a studiare di quanti punti si ridurrebbe il PIL tendenziale per incrementi di temperatura molto maggiori a quelli previsti dall’Accordo, è certo di qualche interesse scientifico, ma non ha alcuna ricaduta concreta, sulle politiche degli Stati che hanno ratificato l’Accordo e si apprestano a sottoporre nuovi NDC.

La realtà e i modelli

Il motivo per cui, come scrivono P&R, molti studi “sono concordi nel valutare in alcuni punti di PIL i costi economici di un aumento di temperatura intorno ai 3 °C”, è perché questi studi non considerano numerosi e importanti impatti legati alla fusione delle calotte glaciali e del permafrost, alla modifica della circolazione termoalina (o i cambiamenti repentini e irreversibili di altre componenti del sistema climatico), o tutte le conseguenze degli impatti di uragani, incendi e siccità o della distruzione della biodiversità. Se si legge il working paper indicato come riferimento da P&R, che ha confrontato alcuni studi pubblicati e ha prodotto stime delle perdite del Pil per ogni Stato, è piuttosto evidente che il focus sia l’influenza della variazione di temperature e precipitazione sulla produttività del lavoro[4].

Un altro esempio di studio teorico di scarsa attinenza concreta con il nostro pianeta è l’altro articolo citato da P&R, sull’impatto economico della destabilizzazione della calotta glaciale della Groenlandia. Come scrivono P&R, secondo questo lavoro di William Nordhaus anche aumentare il livello del mare di 7 metri “non modifica sostanzialmente la valutazione complessiva dei danni” dei cambiamenti climatici. Senza entrare nel merito delle due equazioni con cui questi danni sono calcolati[5], anche con poche basi di climatologia si può capire che nel mondo reale non può esistere la disintegrazione della sola calotta della Groenlandia: la perdita di quella calotta ha conseguenze sulla circolazione termoalina, sulla stabilità della calotta della parte occidentale dell’Antartide, sulla fusione del permafrost, per non dire sulla circolazione atmosferica globale.

Diversi studi hanno iniziato a quantificare gli impatti economici dell’interazione fra diversi “tipping point” presenti nel sistema climatico del nostro pianeta. Tutti segnalano le numerose incertezze presenti, e considerando le interazioni solo fra alcuni di questi tipping point arrivano anche a stime del “costo sociale del carbonio” superiori di 8 volte a quelli che non considerano questi aspetti[6].

In conclusione, i modelli economici che stimano gli impatti di un mondo con 3°C o 3,6°C stanno considerando un pianeta diverso da quello su cui vivono 7,8 miliardi di esseri umani, molto più semplice e comodo da schematizzare. Basare scelte rilevanti, come l’obiettivo delle politiche sul clima, sui risultati di questi modelli è poco sensato. Pretendere di farlo in nome dell’efficienza è ridicolo.

Il furto del futuro
Anche se si riuscisse a stimare in modo meno approssimativo tutti i veri danni economici legati alle emissioni di gas climalteranti, rimarrebbe il problema di cui ho già detto , quella della scelta del tasso di sconto con cui attualizzare i danni futuri. Se la decina di metri di aumento del livello del mare avviene nei prossimi secoli o millenni, se si utilizzano i tassi di sconto usati da Nordhaus & Co. il suo valore monetario attualizzato sarebbe comunque minimo. A giustificazione della scelta di “scontare” i danni futuri, P&R scrivono che “è fuori di dubbio che un aumento di 5 m del livello del mare che si manifesti in dieci anni non può essere messo sullo stesso piano di uno che avvenga in mille non fosse altro che per la diversissima possibilità di adattamento nei due casi”.

Non è chiaro sulla base di quali studi si pensa che le comunità umane possano efficacemente adattarsi ad aumento del livello del mare di 5 metri. Come si adatterà Venezia? E il Bangladesh? E le numerose città costiere con più di 10 milioni di abitanti? E visto che +3°C di aumento delle temperature non corrispondono – affatto – a soli 5 metri di aumento del livello del mare, possiamo dire che saremo in grado di adattarci anche a 10, 15 o 20 metri di aumento del livello del mare?

La decisione sul tasso di sconto è inevitabilmente una decisione etica, che dipende dal valore che si decide di dare al diritto delle generazioni future di vivere in un mondo simile al nostro e a quello in cui hanno vissuto centinaia di generazioni prima di noi. Si può decidere che le generazioni future comunque se la caveranno, semplicemente perché in futuro il PIL globale sarà maggiore di oggi; ma questo richiede una buona dose di fanatismo, di cecità di fronte alla realtà già in atto, nonché una grande mancanza di immaginazione.

Tre considerazioni finali

La prima è perché, prima di parlare di argomenti così lontani dal loro campo di lavoro, l’economia dei trasporti, P&R non si mettono a studiare, o almeno a leggere i rapporti dell’IPCC da cui maldestramente estraggono qualche frase per portare acqua al mulino dei quattro conti con cui cercano di supportare le loro narrazioni. Provo a dare una risposta, inevitabilmente parziale. Alcuni economisti, (solo alcuni, preciso per i tanti amici economisti), in particolare quelli di scuola liberista, neppure sospettano che ci siano questioni molto più complesse, intricate, di quelle che abitualmente trattano; per le quali i loro strumenti di valutazioni sono armi spuntate, per dirla in modo gentile. E non sono abituati all’umiltà. La realtà deve per forza rientrare nel loro schema, nel mondo fatato in cui tutto si traduce – e si risolve – in termini di PIL. Gli studi scientifici disponibili da anni – e riassunti dall’IPCC – non provano neppure a leggerli. E neppure si stupiscono se un’alterazione drammatica al pianeta che conosciamo alla fine viene tradotta dai loro strumenti in qualche “minima” riduzione di PIL. Meglio – per loro – non approfondire troppo, per non rischiare di rompere il giocattolo.

La seconda è che il tentativo di P&R di porsi a metà fra un presunto catastrofismo e il negazionismo climatico non regge[7]. Quello che viene chiamato catastrofismo da P&R sono le evidenze portate dalla scienza del clima; il negazionismo climatico, dopo essere stato sconfitto sugli altri punti, oggi punta proprio sulla tesi proposta da P&R, “agire costa troppo”, con parallela minimizzazione dei danni dei cambiamenti climatici. Niente di nuovo, è un’evoluzione ben prevista, con cui avremo a che fare di sicuro nei prossimi anni, quando – si spera – si inizierà a fare sul serio sulla mitigazione.

Infine, va detto che fra i tanti, diversi e inconsistenti motivi per cui è stata proposta l’alta velocità Torino-Lione, quello del ridurre le emissioni di CO2 si è visto davvero poco (si veda al riguardo “Dove sono le ragioni del sì”). E questo proprio perché alla classe politica e dirigente del nostro paese che ha voluto la TAV in Val Susa non è mai davvero importato delle politiche sul clima e della riduzione delle emissioni di CO2. Anche a quella parte di mondo progressista che non lesina la frase ad effetto o col cuore in mano sull’ambiente, la sostenibilità e le future generazioni, ma che si è mostrato pavido e retrogrado nelle azioni concrete (ultimo esempio il desolante dibattito sulle politiche post-Covid19, in cui la questione climatica – di fatto – non è certo messa al centro). Viceversa, è proprio se si comprende pienamente la dimensione della crisi climatica, e si decide di fare sul serio per rispettare davvero gli impegni che il nostro Paese ha già preso, ovvero è in questo scenario che non c’è spazio per l’alta velocità in Val Susa, per il ponte o tunnel sullo stretto di Messina e per una buona parte delle altre colate di cemento recentemente proposte, che hanno scarsi o nulli benefici per le emissioni climalteranti e richiedono ingenti risorse. Se vogliamo avere qualche possibilità di arrivare ad emissioni nette zero in soli tre decenni, deve essere messo in campo uno sforzo che non ha paragoni col passato. In tutti i settori, compreso quello della mobilità.


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NOTE
[1] IPCC 2018, Special Report on the Ocean and Cryosphere in a Changing Climate (SROCC), Summary for policymaker A.3.3. “L’accelerazione del flusso e del ritiro del ghiaccio in Antartide, che potrebbe portare ad un aumento del livello del mare di svariati metri entro pochi secoli, è stata osservata nella baia del Mar di Amundsen, nell’Antartide occidentale, e nella Terra di Wilkes, nell’Antartide orientale (confidenza molto alta). Questi cambiamenti potrebbero costituire l’inizio di un’irreversibile[1] instabilità della calotta glaciale.”

[2] Clark et al., 2016. Consequences of twenty-first-century policy for multi-millennial climate and sea-level change. Nature Climate Change, 6, 360-369. Disponibile qui

[3] Dall’abstract dell’articolo: “le decisioni politiche dei prossimi anni e decenni avranno un profondo impatto sul clima globale, gli ecosistemi e le società umane – non solo per questo secolo, ma per i prossimi dieci millenni e oltre”.

[4] Si noti che comunque nelle conclusion gli autori scrivono “our findings call for a more forceful policy response to thethreat of climate change, including more ambitious mitigation and adaptation efforts”.

[5] Una breve rassegna delle numerose critiche dei climatologi ai lavori di Nordhaus, si può leggere qui https://phys.org/news/2020-07-climate-economics-nobel-good.html

[6] La review effettuata su questo tema dall’ultimo rapporto speciale IPCC SROCC (6.8.6 Global Impact of Tipping Points), riporta: A small number of studies (Lontzek et al. 2015; Cai et al. 2016; Lemoine and Traeger, 2016) use different versions of the Dynamic Integrated Climate-Economy assessment model (Nordhaus, 1992; Nordhaus, 2017) to assess the impact of diverse sets of tipping points and causal interactions between them on the socially optimal reduction of gas emissions and the present social cost of carbon, representing the economic cost caused by an additional ton of CO2 emissions or its equivalent. Cai et al. (2016) consider five interacting, stochastic, potential climate tipping points: reorganisation of the AMOC; disintegration of the GIS; collapse of the WAIS; dieback of the Amazon Rain Forest; and shift to a more persistent El Niño regime. The deep uncertainties associated with the likelihood of each of these tipping points and the dependence of them on the state of the others is addressed through expert elicitation. There is limited evidence, but high agreement that present costs of carbon are clearly underestimated. Double (Lemoine and Traeger, 2016), triple (Ceronsky et al. 2011), to eightfold (Cai et al. 2016) increase of the carbon price are suggested, depending on the working hypothesis. Cai et al. (2016) indicate that with the prospect of multiple interacting tipping points, the present social cost of carbon increases from 15 to 116 USD per tonne of CO2, and conclude that stringent efforts are needed to reduce CO2 emission if these impacts are to be avoided”.

[7] Anche la citazione da parte di P&R dell’articolo sul Guardian di Hausfather e Betts non è appropriata, in quanto i due scienziati stigmatizzano chi parla di “apocalisse” e “fine del mondo”, non certo chi riassume le evidenze della scienza del clima, in particolare sulle proiezioni di aumento del livello del mare.

(31 agosto 2020)





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