La CGIL di Landini, il ruolo del sindacato e la politica economica
Luca Michelini*
1. Pur con i limiti di chi non conosce dall’interno le logiche odierne di una grande organizzazione come la CGIL, che pure ho studiato nella sua evoluzione storica ed ho avuto modo di conoscere direttamente, seguire l’azione politico-sindacale di Landini ritengo sia molto importante per cercare di cogliere qualche segnale di risveglio del cd. movimento dei lavoratori.
La notizia importante è stata che Camusso ha appoggiato la candidatura di Landini alla segreteria.
La preparazione di Landini a questo appuntamento è stata notevole, perché per anni ha costruito la propria candidatura, seguendo una triplice strategia.
In primo luogo Landini è sempre stato al fianco dei lavoratori, acquisendo una credibilità sindacale, morale e politica innegabile. La credibilità in politica è fondamentale, soprattutto ora che sono venute definitivamente a mancare solide fondamenta culturali alla politica della sinistra. Certo, sono importanti anche gli esiti delle lotte; ma ancora più importante è che chi dirige le manovre, anche in caso di sconfitta, rimanga leale al proprio schieramento. Landini, d’altra parte, ha girato l’Italia rinsaldando l’organizzazione e lo spirito di tanti lavoratori e di tanti cittadini orfani di una rappresentanza politica capace di difenderli. Né Rifondazione e discendenti, né i partiti che hanno dato vita al PD, né il PD sono stati in grado di farlo, infatti. In fondo, Landini ha dato voce e speranza ai tanti cittadini italiani orfani del PCI. Ha cioè avuto cura di rinsaldare i tanti legami che il movimento operaio, in ogni sua componente (politica, sociale, sindacale) ha costruito in decenni e decenni di vita associativa. Ha fatto cioè l’esatto contrario di quanto si è proposta la dirigenza politica ex-comunista, come notò in un celebre editoriale dedicato a D’Alema il compianto direttore del “Manifesto” Luigi Pintor.
In secondo luogo Landini non ha ceduto alla tentazione di abbandonare il sindacato, anche nei momenti in cui era più isolato: a causa del prevalere nel sindacato della corrente più vicina al PD, che del resto sembrava ben interpretare lo spirito dei tempi, che voleva il “sindacato di lotta” una mera anticaglia. Il “liberismo di sinistra” di Tony Blair, del resto, nacque con il distacco dal sindacalismo “di classe”, cioè dal laburismo classico e a partire dalla fine del PCI i movimenti politici progressisti, poi confluiti nel PD, si sono sempre posti questo obiettivo, proprio a cominciare dalla dirigenza post-occhettiana. Renzi, da questo punto di vista, non ha fatto che portare a compimento un processo iniziato molto prima. Landini non ha cioè ceduto alla tentazione, che avrebbe fatto comodo alle forze allora egemoni, di costruire un partito politico a sinistra del PD.
In terzo luogo Landini ha curato in modo particolare la sua presenza televisiva, riuscendo in questo modo a costituire l’unico punto di riferimento del lavoro in Italia. La sua presenza è stata non solo maggiore, ma anche assai più incisiva di quella di tutti gli altri leader dei sindacati, Camusso compresa, troppo ingessati nel ruolo di mediazione che avevano in quanto segretari generali e soprattutto talvolta troppo vicini alla classe politica di centro-sinistra al governo del Paese. In altri termini, Landini ha rappresentato l’opposizione sociale al modello neo-liberista italiano, trionfante anche a sinistra e perfino nel sindacato. Basterebbe ricordare il ruolo notevole che all’interno della stessa CGIL ha svolto, per un certo periodo, uno studioso come Pietro Ichino, importante firma del “Corriere della sera” e destinato a diventare un esponente di rilievo del liberalismo italiano.
2. Il fatto che Landini abbia saputo ben sfruttare il mezzo televisivo va senz’altro a suo merito, ma è anche conseguenza di due fatti altrettanto importanti. La televisione del compromesso neo-liberista tra centro-sinistra e centro-destra berlusconiano, fondato sul mantenimento del duopolio televisivo e del connubio tra politica ed imprenditorialità (pubblica e privata), aveva in certo modo bisogno di Landini, perché costituiva appunto l’emblema di quel “sindacalismo di classe” che la modernità doveva e voleva superare una volta per sempre. L’identità si costruisce sempre contrapponendosi all’altro da sé.
La presenza di Landini in televisione fotografa uno stato di fatto molto grave della cultura della sinistra italiana: che di fatto non ha più alcun mezzo di comunicazione e di dibattito proprio e capace di varcare i limiti della comunicazione “interna”, che potremmo definire “corporativa”. La CGIL ha i propri mezzi di informazione e le proprie riviste, ma esse non hanno minimamente raggiunto la capacità di farsi “opinione pubblica” come, poniamo, ha tentato di fare “Il Solo24Ore”, che pure è organo della controparte. Non parliamo, poi, della scomparsa de “L’Unità”. Non esistono più nemmeno centri di elaborazione teorica e culturale capaci di confrontarsi con il progresso scientifico in ogni campo. Più in generale, la sinistra italiana ha completamente perso la capacità di creare i propri (anche nuovi) mezzi di comunicazione capaci appunto di parlare a tutta la società italiana e non solo ai più stretti militanti o agli associati. Sconvolta da lotte intestine incapaci di praticare l’egemonia (l’obiettivo è comandare, non governare), impaurita dal dibattito e dal confronto, priva di una cultura di riferimento, la sinistra nel suo complesso ha preferito il silenzio. O meglio: ha preferito che fosse il duopolio televisivo prima menzionato a farsi promotore della nuova e moderna cultura del centro-sinistra. Landini è riuscito a rompere questo muro del silenzio appunto grazie al mezzo televisivo, che lo cercava come mera testimonianza e come emblema del superato.
3. La segreteria di Landini potrebbe significare la ripresa della storia del movimento operaio italiano. Non è detto che accada. Ma questa possibilità oggi esce dalla palude dove attualmente è annegata. Il motivo fondamentale è forse il seguente.
Mentre il PD è definitivamente diventato un partito liberale, addirittura forse destinato all’irrilevanza elettorale, alla sua sinistra prevale il caos più completo. La logica mille volte sconfitta sul piano elettorale e politico della “sinistra unita e plurale” che si ricompone, sempre con sigle nuove, sempre e soltanto in vista dei vari appuntamenti elettorali, si ripropone inesorabile da venti anni. Al cartello elettorale segue sempre la ri-decomposizione in rivoli ancora più piccoli di quelli di partenza. Certo oggi sembra addirittura una novità politica rilevante il superamento di quell’autosufficienza politica prima invocata da Veltroni e poi attuata da Renzi. Ma la riproposizione dell’Ulivo, senza un radicale cambiamento di cultura politica ed economica, è destinato al fallimento.
Rimaniamo però alla sinistra del PD, pur non parlando dello schieramento di D’Alema e Bersani, che di fatto sono all’origine del liberismo di sinistra[1]. Due sono le cause principali del caos che contraddistingue la vita del pulviscolo che oggi si presenta come più a sinistra del PD. In primo luogo si tratta di una classe politica logora, che non pensa al ricambio politico e generazionale e che soprattutto ha tagliato alla radice qualsivoglia pluralismo culturale reale, capace di prendere in mano l’organizzazione e farne mot
ore di una nuova stagione. In secondo luogo questo ceto politico non ha una reale base sociale di riferimento. Del resto non dedica tempo a costruire il tessuto associativo della società: è lontana dai posti di lavoro, dagli studenti, dalla società nel suo complesso manifestarsi. E’ cartello elettorale, insomma. Spesso è costituita da ceti intellettuali o da piccola e media borghesia, che però non hanno né l’opportunità né la volontà di entrare sistematicamente in contatto con il mondo del lavoro. Sono bastati i cento euro di Renzi per decretarne la lacerazione. Come il PD, sono vittima del parlamentarismo e vedono nell’azione politica l’unica arena di azione. Basti vedere quello che è accaduto con lo jus soli: nessun tentativo di mobilitare la società, considerando l’azione legislativa il culmine del processo. Prevale, dunque, l’individualismo e il settarismo (padri dello scissionismo all’ennesima potenza), perché non hanno mai avuto l’occasione, né l’hanno mai cercata, di dirigere una grande movimento, né di protesta né di conquista. Prevale un vago terzomondismo, scrutano l’orizzonte e pensano di interpretarlo, mentre nemmeno riescono a capire il terreno che li tiene in piedi.
Tornando al movimento “progressista” nel suo complesso: il Jobs Act di Renzi, che sembra sia all’origine dell’avvicinamento tra Camusso e Landini, potrebbe appunto portare alla rinascita di un forte sindacato unitario e di lotta. Potrebbe dunque costituire la premessa perché prima o poi sul piano politico, e chissà con quante ancora contorsioni, si componga un quadro unitario del movimento dei lavoratori. Che non può che ripartire, appunto, dal mondo del lavoro. L’unità si ricostruisce solo sui luoghi di lavoro.
4. La prima mossa di Landini da segretario generale della CGIL è stata la manifestazione unitaria dei sindacati appena svoltasi a Roma. Anche in questo caso il segnale è importante, perché Landini si sta sforzando in tutti i modi di creare l’unità. E si tratta, ritengo, di una unità di intenti fondamentale per la democrazia italiana, che può vivere solo se vivo, forte, libero e combattivo è il sindacato dei lavoratori.
Oltre ad avere un notevole valore politico interno – il richiamo all’unità – la manifestazione ha voluto avere anche un esplicito obiettivo politico: la critica alla politica economica del governo giallo-verde.
In primo luogo è stata una critica di metodo. Pur con un’argomentazione debole, si è voluto rivendicare il protagonismo dei sindacati nella definizione della politica economica. Si tratta di un’argomentazione debole, perché il Parlamento è comunque il luogo della rappresentanza del sovrano e perché i tavoli di concertazione avranno pur portato al salvataggio del Paese in momenti cruciali, ma hanno dato il via ad una sconfitta epocale del mondo del lavoro. In ogni caso, oggi a prevalere sembra essere lo slogan “Basta disintermediazione”, insomma, per usare una orrenda espressione cara al liberismo di sinistra, che ne ha fatto sostanzialmente l’unica causa della propria crisi elettorale. In secondo luogo la manifestazione ha voluto criticare il merito della politica economica del governo, soprattutto il fatto che non abbia puntato sugli investimenti pubblici e privati, unici, si argomenta, capaci di creare occupazione[2].
Personalmente sottoscriverei gran parte della riflessione che Landini ha proposto in una lunga intervista a Radio Popolare[3]. Colpisce, tuttavia, come queste riflessioni astraggano quasi completamente dai rapporti di forza reali oggi esistenti, sia sul piano politico che su quello sociale. Sono un elenco talmente ampio di rivendicazioni da risultare impotente. Pur tra mille contraddizioni, e all’interno di una coalizione dove le politiche xenofobe hanno acquistato una rilevanza intollerabile sul piano morale prim’ancora che politico e sociale, i provvedimenti varati dal governo sul sistema pensionistico e sul reddito di cittadinanza sono un primo tentativo di redistribuzione della ricchezza. Che il sindacato voglia incalzare il governo lo trovo del tutto corretto. Tuttavia è singolare che il sindacato non cerchi di inserirsi nel braccio di ferro evidentissimo tra Lega e Cinque Stelle e interno a questo stesso movimento e trovo singolare che non si rammenti che gran parte dei propri iscritti, i lavoratori del Nord, votano Lega da un bel pezzo. L’atteggiamento è come quello del PD, che ha rinunciato a fare politica con i Cinque Stelle e con il suo elettorato, regalandoli così alla Lega, a cui già aveva regalato il mondo del lavoro; salvo poi preoccuparsi che il Paese corre un rischio autoritario. Reddito di cittadinanza e quota cento sono senz’altro timidi tentativi ed hanno trovato la dura opposizione sia dell’establishment liberale (tutti le voci del liberismo di sinistra, anzitutto, oltre che della destra in doppiopetto), che di quello europeo, ma arrivano dopo un ventennio di insopportabile polarizzazione sociale, alla quale il sindacato certo non si è opposto come avrebbe dovuto e potuto. E non vedere nel “sovranismo” se non la sua deriva xenofoba, fare finta che lo Stato e la Nazione non siano parti fondamentali della dialettica storica, significa non comprendere le ragioni fondate di un tentativo, forse disperato (come dimostra l’assoluta timidezza in tema di intervento pubblico e l’inadeguatezza culturale sia della Lega che dei Cinque Stelle), di resistere ai disastri sociali della globalizzazione dei mercati e alle politiche di potenza di Stati europei (Francia e Germania e USA) che di fatto rischiano di far implodere proprio l’unione europea e continuano a minare gli equilibri mondiali fomentando conflitti di ogni genere.
E’ singolare come non ci si sia infilati nel tema strategico della gestione delle autostrade, che i Cinque Stelle hanno di fatto abbandonato nelle mani della Lega, che ha riproposto il vecchio compromesso tra imprenditorialità e politica tipico di Forza Italia (tipico in quanto ne è la sua ragione d’esistenza) e tipico del governo regionale del Nord[4]. Eppure la Francia ci avverte come siano ridiventate attuali tutte quelle forme di jacquerie (il rincaro dei beni di prima necessità: oggi la benzina, domani i pedaggi autostradali o il collasso dei trasporti ferroviari regionali) che la nascita del movimento operaio aveva superato. Nessun reale e profondo ripensamento, insomma, del ruolo dello Stato in economia: finché non si riallaccia il tema della deindustrializzazione e della politica industriale a quello del ruolo attivo dello Stato nell’economia del nostro Paese è assolutamente velleitario tentare di ricostruire una cultura economica e politica progressista. Considerare un tabù la discussione dell’euro, la preparazione di un piano b, l’analisi della politica anti-italiana della Francia (che data dalla caduta di Gheddafi), la resistenza alle politiche di potenza americane (se domani si riconoscesse oltre che questo o quel governo amico, anche la Catalogna e poi il Veneto?) significa semplicemente aver perso consapevolezza delle forze reali della storia.
Infine, colpisce che questa rinnovata unità sindacale non abbia di mira anzitutto i rapporti di forza esistenti nel mercato del lavoro. La controparte è anzitutto il governo e non quello che un tempo si definiva padronato. Certo: sul piano culturale si tratta di un dato rilevante perché mostra quanto poco autonomo dal governo e in ultima analisi dallo Stato, sia il mercato del lavoro. Come già osservava Antonio Gra
msci (sulla scorta di una letteratura che ormai in Italia nessuno consce più), il liberismo ha un terribile bisogno dello Stato, che ne deve imporre a suon di normazione (maggioritaria, ché con il proporzionale mai si sarebbe raggiunto lo scopo) le leggi più intime: anzitutto la liberalizzazione del mercato del lavoro. Ancora non si è taciuta la retorica tipica delle frange più estremiste, ma alla fine risultate vincitrici, dei liberisti di sinistra tese a dimostrare come sia “l’insopportabile” esistenza di un mercato del lavoro protetto (dai diritti) a costituire la palla al piede dell’economia italiana. Al di là di questa riconferma, è però bene essere molto chiari: un ruolo di attiva intermediazione con il governo e con lo Stato il movimento dei lavoratori se lo deve conquistare in primo luogo con le lotte quotidiane sui posti di lavoro, contrattando salari e condizioni di lavoro. Che il decreto dignità dei Cinque Stelle sia timido è indubbio; ma che non sia stata l’occasione, ancora una volta, per incalzare governo e forze sociali sul piano della lotta sindacale è altrettanto indubbio.
Che il sindacato italiano abbia anche un ruolo politico è storicamente accertato, tanto più che le condizioni di lavoro sono un dato politico-sociale complessivo e non solo il risultato della contrattazione. Ma oggi è necessario un ripensamento strategico molto attento: perché non vi è più alcuno schieramento politico amico e di riferimento. Non si vuole diventare partito, né si vogliono gettarne le premesse, perché il mondo del lavoro deve avere una propria autonomia. Ma allora si deve ricostruire una strategia capace di dialogare appunto con la politica. E questa capacità si costruisce e ricostruisce solo nei luoghi di lavoro; solo ricostruendo sul piano sindacale anzitutto l’unità del mondo del lavoro. Solo ponendosi obiettivi concreti, realizzabili e battendosi per realizzarli. La leadership del cambiamento ora si conquista sul campo.
NOTE
[1] Cfr. L. Michelini, La fine del liberismo di sinistra, 1998-2008, Firenze, Il Ponte editore, 2008.
[2] Cfr. R. Realfonzo e A. Viscione Una stima degli effetti della manovra e delle alternative possibili, “Economia e politica”, 8 feb. 2019: https://www.economiaepolitica.it/2018-anno-10-n-16-sem-2/stima-manovra-economica/
[3] Cfr. https://www.radiopopolare.it/2019/02/manifestazione-sindacati-intervista-landini/
[4] Cfr. L. Michelini, Autostrade e il fallimento del liberalismo italiano, “Economia e politica”, 14 settembre 2018: https://www.economiaepolitica.it/industria-e-mercati/pubblico-versus-privato/autostrade-e-il-fallimento-del-liberalismo-italiano/
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