“La Chiesa è indietro di almeno due secoli”. Intervista a Sandro Vesce, prete operaio modenese
Giuseppina Vitale
intervista a Sandro Vesce
Sandro Vesce, classe 1938, bolognese di nascita; figlio di un ufficiale di carriera (dei Carabinieri, al termine generale). Residente e operante a Modena. Professione attuale, libero professionista, psicologo-psicoterapeuta.
Del mio interlocutore colpisce, ascoltandolo, la mobilità del pensiero, il connubio di serietà e leggerezza, ed è palpabile una fede sincera.
Ordinato sacerdote nel 1967 dopo studi di teologia a Roma (precedentemente, da laico, laurea in Giurisprudenza e servizio militare di leva come soldato semplice), fu prete fino al 1976 e operaio metalmeccanico dal 1970 al 1979. Tutt’oggi è impegnato nella comunità di base del Villaggio Artigiano di Modena. Ha pubblicato presso Feltrinelli il saggio “Per un cristianesimo non religioso” (1976). Nel 2007 ha curato la voce “Dissenso cattolico” nel volume “Anni Settanta” (Skira).
Come ha maturato la sua scelta di entrare in fabbrica?
Premetto di non aver mai prestato servizio in nessuna parrocchia se non in quella del Villaggio Artigiano di Modena Ovest [1], dove si trovava lo stabilimento.
Farmi assumere alla Carrozzeria Autodromo fu un’iniziativa del tutto individuale, come d’altra parte è molto particolare la mia storia perchè io sono una di quelle che una volta venivano chiamate "vocazioni adulte". Solo in parte vanno cercate in me le motivazioni che hanno spinto altri confratelli ad andare in fabbrica.
Sono diventato prete a trent’anni dopo essermi convertito dieci anni prima dall’ateismo e non ho mai fatto un giorno di Seminario diocesano.
Quando mi sono presentato all’ Arcivescovo, chiedendo di diventare prete, ero già un dirigente di Azione Cattolica, presidente della Fuci a Modena.
Fui subito mandato a studiare Teologia all’Università Gregoriana a Roma, alunno del Collegio Lombardo, istituto che esigeva voti sempre alti, dal quale nel Novecento erano usciti due papi e numerosi vescovi. Attualmente sei miei compagni di allora sono cardinali.
Tornato in diocesi, fui nominato assistente della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), culla a sua volta di politici importanti come Moro e Andreotti. L’Arcivescovo mi volle con sé in arcivescovado e alla sua mensa. Decisi dopo due anni di lasciare tutto questo e di andare in fabbrica, non precipuamente per adesione ai valori delle lotte operaie, anche se in buona parte li condividevo, ma perchè mi sentivo molto a disagio nella figura tradizionale del prete e non mi riusciva di fare mie le posizioni che per il fatto di essere membro del clero ci si aspettava che assumessi.
Il lavoro ha rappresentato una via d’uscita rispetto a questo stallo: andando a lavorare in fabbrica rimanevo prete, cosa a cui tenevo moltissimo, trovando nello stesso tempo spazio di manovra per iniziative che mi sembravano permettere a me, e testimoniare agli altri, un cristianesimo più autentico. Per un po’, qualche anno, questa soluzione ha abbastanza funzionato.
Devo ribadirlo, io non ero mosso da un interesse specifico verso la classe operaia, bensì dal fatto che volevo fare il prete e mi sembrava che questa figura non funzionasse. Di certo io non mi ci ritrovavo, ma a mio giudizio non si trattava semplicemente di me. Era in generale che occorreva fare il prete in modo commisurato al tempo di oggi.
Sono entrato in fabbrica dichiarando di avere la licenza media, sono andato di proposito in una cooperativa rossa evitando quelle bianche perché non vi fossero fraintendimenti. Non mi sono presentato come prete, la mia identità è venuta fuori per caso dopo un certo tempo. A testimonianza del clima di allora, la cosa normale che pensarono era che fossi una spia del padronato (e mi dissero francamente che a sapere che ero prete non mi avrebbero assunto).
Dunque, nella sua scelta non ha compiuto alcun ragionamento politico?
No, nella cooperativa dove lavoravo erano tutti iscritti al PCI. Ho ricevuto forti pressioni per iscrivermi ma non lo feci, soprattutto perché ritenevo che la figura del prete non dovesse essere politicizzata.
Di contro, non ho avuto nessuna difficoltà a prendere una tessera sindacale; nella circostanza scelsi quella della CGIL, senza però mai essere un delegato sindacale. Ero stato da matricola istruttore dei giovani della CISL, ma se fossi rimasto cislino sarebbe scattata per i miei compagni l’equazione CISL=DC=Chiesa=scomunica del ’48 e io non ne volevo sapere.
Mi sono sempre tenuto lontano dai Cristiani per il Socialismo, uno si professa cristiano per essere cristiano, secondo il mio punto di vista. Il cristianesimo non vive in funzione di uno scopo politico.
La religione io la sento altra cosa rispetto alla politica, non condivido un discorso di destra e sinistra cattolica. Si è di destra o di sinistra e si è credenti, se si è credenti. La religione, ne sono più che convinto, non deve tradursi direttamente in politica. E’ per me inconcepibile un partito cattolico.
Come gestiva quel sottile equilibrio che esisteva tra l’essere prete ed operaio allo stesso tempo?
Non si può dire che ci fosse un equilibrio. Troppa, troppa era la distanza fra le due realtà. Per i miei compagni (e come poteva essere diversamente?) un prete era uno che amministrava i sacramenti, una figura separata, uno che diceva le cose perché doveva dirle, una rotella nell’ingranaggio dei padroni. D’altro canto, in me prete la Chiesa non vedeva niente in cui riconoscersi. Certo, i miei compagni di lavoro dopo un po’mi stimarono, ma allora dissero che non ero un prete. Parallelamente, per molti preti ero una brava persona, ma ero un prete? Il fatto è che gli uni dipendevano dal Partito, gli altri da un certa forma di Chiesa. Io non c’entravo con un partito fatto così (una specie di altra chiesa) e non c’entravo con una Chiesa fatta strutturalmente così (mi permette una scherzo? Quando studiavo a Roma, durante il Concilio, noi leggevamo la targa SCV, Stato della Città del Vaticano, “Se Cristo Vedesse”.
Le relazioni che c’erano tra me e gli altri operai erano relazioni umane, di stima reciproca, ma con degli enormi non detti, non era d’ altra parte immaginabile che una differenza così grande come quella del mondo operaio organizzato e la Chiesa cattolica trovasse nella mia persona una forma di conciliazione. Questo era completamente impensabile. Non è un singolo che può ricuperare i due secoli, ma sono di più, di cui parla Martini. E neanche un movimento piccolo e per nulla coeso come erano i preti operai italiani (oltre che in certe sue componenti equivoco, vedi Cristiani per il Socialismo).
E quindi?
E quindi era una situazione che non poteva durare. A Modena fui il primo ad entrare in fabbrica, nel 1970, e nel 1979, quando mi licenziai, ero l’ultimo rimasto. Forse avrei potuto reggere se mi fossi rifugiato in una prospettiva mistica (lavoro e poi in casa a pregare), ma la mia vocazione era attiva, in mezzo alla gente, da prete, non da monaco. Invece arrivò un momento in cui quello che la Diocesi aveva da dirmi non interessava me e quello che io avevo da dire non interessava la Diocesi.
Per me e anche per gli altri preti operai, ognuno con le proprie particolarità, si era creato uno stato di cose umanamente insostenibile. Alcuni rientrarono nei ranghi, potando la parte operaia, altri si laicizzarono, potando la parte sacerdotale. Neanche i vescovi e il clero nel suo insieme sapevano che pesci prendere nei nostri confronti. Anche loro erano in grave difficoltà, ne sono usciti, per quanto era possibile, e qu
el po’ soltanto psicologicamente, con il pontificato di Giovanni Paolo II.
E come andò con il Referendum sul divorzio?
Noi facemmo campagna a favore del divorzio non perché fossimo divorzisti personalmente, ma perché non condividevamo l’idea che si dovesse tradurre immediatamente in legge dello stato una norma religiosa. Il contrario della posizione che si fa strada oggi nel mondo islamico: la legge coranica coincida con la legge civile, si sente dire in Egitto e persino in Turchia. Sarebbe un salto indietro, per l’Europa, a prima della Rivoluzione Francese.
Il Vicario generale ci convocò tutti invitandoci a tacere, e noi ubbidendo facemmo presente che quelli del "SI" avrebbero perso, per cui era necessario mantenere vivo il dialogo con i credenti schierati per il "NO" ad evitare che la Chiesa, dopo tanti altri, perdesse contatto anche con questi suoi figli. Ma non servì neppure questo ragionamento minimale. Il Vicario era molto ottimista, per lui il “SI” avrebbe vinto.
Nel suo saggio "Per un Cristianesimo Religioso" [2], lei chiarisce la relazione che intercorre tra cristiano, religioso ed umano (in estrema sintesi: il religioso può, eventualmente, sparire, l’umano viceversa no); credo che l’esperienza dei preti operai italiani abbia in qualche modo cercato di mettere insieme questi tre aspetti per far nascere un nuovo modo di intendere il sacerdozio. Cosa ne pensa?
Fatta la premessa che erano pochi e avevano comunque poco peso, a me sembra che non solo i preti operai, ma tutto il movimento riformatore del dopo Concilio abbia peccato di insufficienza teologica. Faccio un esempio, uno solo: tutte le volte che uno dei riformatori riferendosi al Papa o al clero dice tout court “la Chiesa” si pone già nella posizione preconciliare che vorrebbe veder superata. Punto centrale e grande novità del Concilio è proprio che la Chiesa è in primo luogo il popolo di Dio, e i cristiani ne sono resi membri dal Battesimo. Chiesa siamo tutti noi, con differenti posizioni e ruoli, ma pari dignità davanti a Dio. Sì, si è cercato di far nascere un modo nuovo di intendere il sacerdozio, con tanta buona volontà e tanto sacrificio, ma le grandi operazioni richiedono riflessioni adeguatamente profonde. Se non ci sono… Il saggio che scrissi a quel punto, “Per un cristianesimo non religioso”, fu di soddisfazione per me (un libro di teologia, opera di un credente, pubblicato dalla Feltrinelli di allora!), ma non poteva che costituire una goccia nel mare. Ci sarebbe voluto che tanti altri elaborassero proposte teologiche sul serio innovative.
Il Concilio di strada ne ha fatta (liturgia in italiano, diffusione della Bibbia), ma questo lo si deve alla parte più allineata della Chiesa, mentre noi, quelli che volevano mettersi in pari davvero rispetto ai due secoli di Martini, legati come eravamo ad idee teologiche subalterne, ci siamo largamente persi per strada. Siamo finiti irrilevanti. Speriamo, visto che ci giocammo la vita, non irrilevanti per Dio.
Diversamente dall’esperienza francese, i preti operai italiani non hanno goduto di una sorta di istituzionalizzazione del movimento, tale da conferire ad esso un’ efficacia in qualche modo politica. Questo, a mio avviso, perché in Italia governava un partito cattolico vicino al Vaticano e dunque sostenuto dalla gerarchia ecclesiastica. E’ d’accordo?
Non mi sbilancio sull’esperienza francese, nata prima del Concilio e molto diversa dalla nostra. Certo, in Italia era presente non solo la DC, ma anche il Vaticano, delizia tutta nostra. Se le capita di passare davanti alla sede dell’Arcivescovado di Modena e alza gli occhi, vede una cosa che parla da sola. Consideri quelle tre grandi bandiere che appaiono sul balcone, messe da poco (perché dal Concilio si può anche tornare indietro, e in questo caso lo si fa): quella italiana, quella dell’Unione Europea e quella del Vaticano. La Chiesa è forse uno stato? Dovremmo aspirare a diventare integralisti come l’Arabia Saudita? Mi auguro – voglio scherzarci sopra – che la prossima intervista che farà da queste parti non debba intitolarla “Modena come Riad”.
NOTE
[1] Negli anni Sessanta al Villaggio Artigiano di Modena Ovest c’erano moltissimi artigiani. Quel villaggio fu chiamato così nel ’51 dal sindaco Alfeo Corassori, che lo progettò dando fiducia e opportunità di un lavoro sicuro a operai, perlopiù licenziati dalle officine modenesi negli anni Cinquanta. I lavoratori che lo costruirono venivano da fabbriche modenesi ma erano fondamentalmente degli artigiani. Nel ’60 alla periferia di Modena, su 50 biolche di terreno agricolo, 15 ettari tra la ferrovia e l’autodromo, erano nate 74 aziende.
[2] Sandro Vesce, Per un Cristianesimo non religioso, Feltrinelli, Milano 1976.
(3 dicembre 2012)
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