La Chiesa e lo “scandalo di Firenze”
Monsignor Giuseppe Betori, segretario uscente della Cei, è il nuovo arcivescovo di Firenze, l’arcidiocesi dello «scandalo» di don Lelio Cantini, il prete pedofilo.
Il sindaco di Firenze, Leonardo Domenici, insieme alle altre autorità ha accolto ufficialmente il nuovo arcivescovo a nome della città. Spostamenti e trasferimenti di preti, vescovi e arcivescovi sono fatti interni alla Chiesa cattolica, non riguardano lo Stato italiano, né i suo Comuni e Province. Perché dunque presenziare alla cerimonia di insediamento? Tra l’altro, particolare ovvio, tanto ovvio da essere sistematicamente ignorato, in barba alla laicità dello Stato, un sindaco rappresenta tutti i cittadini, non una sola parte, minoritaria o maggioritaria che sia. E che? Il sindaco di Firenze rappresenta solo i cittadini fiorentini di fede cattolica? Senza dire che Betori, lo ha confermato anche parlando a Firenze, sostiene a spada tratta il programma bioetico (no all’eutanasia, alle coppie di fatto, ecc.) che oggi la gerarchia cattolica vuole imporre al parlamento italiano. Anche per questo andava accolto dal sindaco Pd di Firenze?
«Nessuno sia più scandalizzato», «soprattutto quando a subirne le conseguenze sono i più piccoli»: così Betori, con evidente riferimento allo «scandalo» di don Cantini; «ciascuno è chiamato a rispondere personalmente delle proprie colpe di fronte alla comunità ecclesiale e alla società», ha aggiunto. Come dire: non si coinvolga la Chiesa nelle colpe di don Cantini. Ma ci si domanda: possibile che per 14 anni nella Chiesa di don Cantini, nessuno, proprio nessuno si sia accorto di don Cantini? Possibile che le vittime abbiano dovuto aspettare più di venti-trent’anni per vedere punito dai tribunali ecclesiastici il prete per le sue malefatte? Sul caso c’è dunque ancora molto da scavare perché giustizia ecclesiastica sia fatta.
Ma quando sarà fatta giustizia dalla magistratura italiana? Se questo non avviene, lo Stato laico italiano arretra di fronte a se stesso. Benedetto XVI, come si sa, ha condannato il prete alla «dimora vigilata». Apriamo la Costituzione italiana: «La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge» (art. 13). Sarebbe lecito alla magistratura italiana condannare alla «libertà vigilata» un cittadino pontificio? Si griderebbe all’ingerenza e al tradimento del Concordato tra Stato e Chiesa («ognuno indipendente e sovrano nel proprio ordine»). Ma allora perché nessuno in Italia, tra non credenti, o credenti non clericali, nemmeno apre bocca in questo caso di fronte alla palese, simmetrica e opposta ingerenza papale?
La sentenza contro il prete fiorentino è stata autorizzata, come si sa, da Benedetto XVI. In una Costituzione laica e democratica, il capo di Stato può concedere la grazia, non condannare un imputato: solo un giudice lo può fare. Nello Statuto vaticano (2001), all’art. 1, è scritto: «Il Sommo Pontefice, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario». Dunque il Sommo Pontefice è anche il Sommo Giudice, oltre ad essere il Sommo Legislatore e il Sommo Governatore. Insomma un monarca assoluto, e per di più teocrate. Chi può credere, in merito al caso giudiziario in questione, che ignorare l’ingerenza papale sia un buon segno per la democrazia italiana? Sic parvis magna.
Michele Martelli
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