La città, un patto fondato sulla paura
Federico Bonadonna
Leggere la città è un modo di capire come l’uomo si rappresenta a se stesso, come organizza lo spazio in cui vivere e lo spazio delle sue relazioni. Attraverso un raffinato gioco di rimandi alla storia, alla letteratura e alla filosofia, l’ultimo libro di Marco Filoni ci porta a svelare i meccanismi della intrinseca ambiguità metropolitana.
«In principio fu la città. Da sempre la vita dell’uomo è stata regolata da questa istituzione, principio del vivere associato e base stessa dell’essere in comune. La nostra cultura trae origine dalla città fino a identificarsi con essa. La città comprende l’uomo, la città è l’uomo – come ci ha insegnato una volta per tutte Aristotele», scrive Marco Filoni nel suo saggio Anatomia di un assedio. La paura nella città che individua nell’istituzione città uno dei principi più antichi, almeno dalla polis greca in poi, della vita dell’uomo. Platone, Ermete Trismegisto, Campanella, More, sant’Agostino e gli artisti del Rinascimento italiano hanno concepito questa utopia in varie forme. Organismi complessi che nella loro cristallina schematicità, le città covano però il tarlo della paura che le rende minacciabili. Un tarlo che si annida nelle stesse funzioni e caratteristiche che dovrebbero renderle inespugnabili. La città è infatti ambigua: non è solo rifugio e armonia, ma anche generatrice di angoscia e paura.
Attraverso un raffinato gioco di rimandi alla storia, alla letteratura e alla filosofia, con questo lavoro, Filoni ci porta a svelare i meccanismi di questa ambiguità metropolitana.
Leggere la città è un modo di capire come l’uomo si rappresenta a se stesso, come organizza lo spazio in cui vivere e lo spazio delle sue relazioni. Città come testo, dunque, non a caso sempre più disseminate e illuminate, nella modernità, da cartelli, indicazioni, nomi di luoghi, esercizi commerciali, pubblicità. Un immenso repertorio di segni che caratterizza l’immaginario collettivo e lo spazio stesso, creato e definito anche verbalmente, con le insegne luminose come sottotesto. Sono le insegne della città-merce di Lefebvre, certo, ma come non pensare alla descrizione dell’inferno fatta dal protagonista de La caduta di Camus, che si aggira con il suo muto interlocutore per una Amsterdam notturna accesa dei bagliori del quartiere a luci rosse? «Sì, l’inferno deve essere così: strade con insegne e non c’è modo di dar spiegazioni. Si è classificati una volta per tutte».
Marco Filoni intraprende il suo viaggio nella città partendo dalla visione di uno scrittore olandese, Ferdinand Bordewijk autore di Blocchi, tra i primi romanzi distopici del Novecento, in cui si immagina una città rigidamente ortogonale e lineare. Una scacchiera priva di nuclei subordinanti e organici, sottoposti a un ordo geometricus che ricorda . La città ortogonale di Boderwijk è l’organismo di controllo (e di repressione) di un “cubismo di Stato” a cui è impossibile sfuggire. In questa città, come in qualsiasi esperienza totalitaria, ogni azione è un delitto potenziale. La paura è l’essenza stessa del potere totalitario. Il controllo dispotico si genera nel sospetto che il nemico sia ovunque, a iniziare da chi detiene il potere. Qui non c’è equilibrio possibile tra ordine e conflitto. Quest’ultimo dev’essere anzi estirpato alla radice, ossessivamente. «Da tale imperativo patologico», scrivono Gnoli e Volpi, «affiora uno dei tratti caratteristici dell’esperienza totalitaria: la paura. L’insicurezza».
Ma la città è caratterizzata anche da altri elementi fondamentali, a iniziare dal muro. Questo, con la sua legge di pietra, è strumento dell’organizzazione differenziale dello spazio, separazione tra dentro e fuori. Oggi vestigia nobilmente inutili, le mura sono ciò che vediamo avvicinandoci a una città antica. In origine le mura erano tanto più efficaci e vitali per la società al suo interno quanto più erano alte, imponenti, inespugnabili. Proteggevano i cittadini dall’esterno, ma allo stesso tempo creavano e creano un fuori in contrasto con il quale riconoscere chi alla città appartiene e alle sue leggi è soggetto. Ma, dentro, il muro può diventare anche un campo, una prigione. La paura ha un rapporto dialettico con il muro, il più spaventoso strumento di violenza esistente, mai evoluto perché nato perfetto. Oltre a definire la norma, le mura e i suoi frattali interni diventano veri e propri organi fisici della città quale sistema di controllo. “Hanno orecchie”, come quelle del Louvre quando regnava Caterina de’ Medici.
Il muro è politica, senza il muro la polis non esiste, la legge originaria è un muro. E il muro è la città, come ci fanno pensare anche i primi testi della storia dell’umanità. Nei geroglifici, l’ideogramma che indica la “città” è una croce dentro un cerchio. La croce rappresenta il coacervo di strade che portano al centro, il cerchio è il muro che segna e delimita la città.
Altro carattere della città è il locus sacer (un altare, una tomba), depositario della sua identità fondante spesso radicata su un atto di morte e sopraffazione da parte di eroi mitologici. «Molte città-stato si fondavano proprio su queste tombe. È il caso, noto e studiato, di Eretria. Qui gli archeologi hanno scoperto una tomba principesca, enorme, piena di armi e di un corredo tale da far pensare a un valoroso guerriero». Un guerriero eroizzato la cui venerazione consentiva ai cittadini di identificarsi in un sistema di valori. Ecco allora che la comunità rappresentata dall’istituzione città svela il meccanismo della sua coesione, del controllo, del suo sistema di esclusione/inclusione ipostatizzato dal muro: unirsi intorno a una visione del mondo, definirsi in virtù di essa. Ma l’adesione a un’identità può non essere intimamente sentita, può essere solo apparente perché imposta: ed ecco che l’assedio potrebbe non venire dall’esterno, ma annidarsi all’interno. Allora le mura non bastano più a rendere sicura la città che non è una monade, perché in esse si aprono necessariamente varchi, soglie d’accesso sulle quali la vita irresistibilmente preme. Se la porta della città serviva come sistema di controllo per stabilire e ricordare un’alterità al di fuori del muro, ecco che questa diventa passaggio per il cavallo di Troia, per la peste, per una morte subdola che mina l’unità dal suo interno. E la città non è più immune dal pericolo, dalla paura.
Filoni stabilisce le parti anatomiche della città, le parti che dal morbo possono essere colpite: il blocco, il muro, la soglia, il ponte – essenziale qui il dialogo tra Roger Callois e Marcel Mauss sul “Grande Pontoniere&r
dquo; nell’antica Roma che amministra la paura, perché restaura ritualmente la sacralità delle acque violate dal sacrilegio dei ponti.
Gli ultimi capitoli del saggio sono dedicati alla rovina, all’assedio: il conflitto intestino, rappresentato dall’opposizione di fazioni, e il tentativo di risolverlo attraverso la rimozione della memoria. Primo segnale che la paura ha vinto. Il nemico è alle porte, o forse è già tra noi. È la perdita del limes, la dissolvenza. La paura non sa più a chi rivolgersi, ha perso il suo oggetto e quindi si rappresenta nell’altro. Il nemico è dentro, è in cantina e fa più paura di quello esterno.
Il forestiero è alternativamente angelo sterminatore (impossibile non ricordare Buñuel e il Pasolini di Teorema), ma più spesso capro espiatorio, come nel racconto di Philippe Claudel Il rapporto, in cui un’intera comunità compie un rito sacrificale per liberarsi dal ricordo e dalla coscienza di un misfatto imperdonabile. Il meccanismo della rimozione della memoria e del conflitto torna come tentativo inane di opporsi al perturbante, das Unheimlic, termine concettuale freudiano che nessuna lingua traduce perfettamente tranne il greco antico xenos. «Che è anche il termine usato per indicare lo straniero […] colui che, venendo dall’esterno, pone il problema dell’accoglienza e dell’ospitalità. Ma insieme pone anche l’aspetto della minaccia. Sono due caratteristiche indissolubili. Non è mai possibile ridurre l’hostis semplicemente a ospite; così come non è possibile ridurlo soltanto a nemico. È sempre ospite e nemico insieme». Ecco allora che si propone una soluzione. La città, sembra suggerire Filoni, potrebbe proteggersi dall’assedio non già chiudendosi, ma accettando il perturbante.
L’origine dell’assedio, dunque, «non è fuori ma dentro di noi. Molto spesso è dovuta all’incapacità di riconoscere questa fondamentale ambivalenza di ciò con cui abbiamo un rapporto. Che riflette la nostra costitutiva ambivalenza: è un’illusione ottica la persuasione che ciascuno di noi in quanto individuo, cioè indivisibile, sia uno. Ciascuno di noi è in realtà fondamentalmente duplice. Ed è il riconoscimento e la valorizzazione di questa dualità costitutiva e intrinseca a ciascuno di noi, la premessa che può costituire l’inizio di un processo di superamento della paura. Una paura compatibile col dirsi umano. Perciò è utile lavorare affinché questa paura sia sempre più una paura umana».
Filoni richiama qui un passo dell’Antigone di Sofocle dove si dice che, fra le molte cose terribili, la più terribile è l’uomo. «Ed è terribile per la sua ambivalenza, per l’irriducibilità all’uno. La sua più compiuta identità è destinata a sfuggirsi. Appalesarsi con questa dimensione della propria identità è il primo passo per cercare di superare la dimensione puramente irrazionale di una paura che ci conquista, ci soggioga, e spesso ci impedisce di trovare la strada giusta nella vita individuale e nella vita associata. Nella città».
Il testo di Filoni si conclude con un percorso bibliografico ricchissimo, che spazia da Carl Schmitt a Leonardo Benevolo, da Benjamin a Ginzburg, da Cacciari a Sendak. Sono i mattoni con cui l’autore ha costruito il suo lavoro per fare entrare il lettore nel cuore di tenebra della città.
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