La cittadinanza opaca delle donne. Appunti per un dibattito politico

Ingrid Colanicchia

Il conseguimento dei diritti civili e politici non ha portato le donne a una piena realizzazione della cittadinanza a causa della sopravvivenza della struttura di genere della società, che definisce le donne in base alla loro funzione riproduttiva e sociale. Un libro rimette al centro del dibattito il funzionalismo che ha alternativamente determinato l’esclusione e l’inclusione delle donne come cittadine.

Un sondaggio di Eurobarometer del 2017 mostra come almeno i due terzi della popolazione adulta di Bulgaria, Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Lettonia, Slovacchia, Estonia, Romania e Grecia pensino che il più importante compito delle donne sia prendersi cura della casa e della famiglia. In Italia a pensarla così è il 51 per cento della popolazione adulta mentre ben il 57 per cento pensa che il compito più importante per l’uomo sia quello di guadagnarsi il pane.
Sono dati che confermano ancora una volta come la cornice del “gender gap” entro cui è iscritto il dibattito politico che riguarda la condizione delle donne nella società non esaurisca e non risolva la questione perché non consente di allargare il campo di analisi al socio-simbolico e al culturale.
È a partire da questo assunto che muove il breve ma densissimo volume Cittadinanza opaca (dato alle stampe sul finire del 2019 da Ediesse) in cui le autrici, Angela Ammirati ed Elettra Deiana, puntano il dito sull’ombra che continua ad allungarsi sulla cittadinanza delle donne, quella della funzione riproduttiva e sociale cui è ricondotta la loro soggettività.
Il volume si snoda attorno a cinque macro-aree: cittadinanza, lavoro, welfare, saperi, migrazione. Il filo conduttore è rappresentato però dal lavoro, attraverso cui è analizzato il nodo problematico della libertà femminile e che, inteso nel senso più ampio come riproduzione della vita (funzione sociale, cura, socializzazione), costituisce l’aspetto su cui si è più esercitato il disciplinamento del corpo femminile. «L’idea arcaica del carattere naturale della famiglia e dei compiti svolti dalle donne in ragione di una presunta naturalità è fondativa e costitutiva del complesso organismo della cittadinanza – scrivono le autrici – e può riprendere quota in una fase storica come quella attuale, che pericolosamente si ricarica del fascino di arcaici presupposti identitari». Per questo, di fronte alle spinte reazionarie che investono lo scenario contemporaneo, «la ricerca di una cittadinanza femminile fondata su un principio non essenzialista bensì politico della differenza sessuale» (che nelle intenzioni delle autrici non costituisce un’abdicazione dell’universalismo ma una rivisitazione critica delle sue istanze), «è questione quanto mai attuale».
Cosa significa? Significa riconoscere e farsi carico politicamente dell’alterità incentrata sul corpo sessuato.
Pensiamo per esempio a come le donne in stato di gravidanza concretamente impossibilitate a prendere parte ai concorsi vi siano di conseguenza escluse in quanto i bandi statuiscono che la mancata presenza nel giorno e ora indicata comporta la non immissione. E questo, ricordano Ammirati e Deiana, nonostante la Costituzione stabilisca parità di trattamento tra i sessi nell’accesso agli uffici pubblici.
D’altronde, nonostante rappresenti il traguardo più importante nell’affermazione dell’uguaglianza sostanziale tra i sessi, la Costituzione contiene delle latenti contraddizioni. «In uno degli articoli più importanti a salvaguardia del lavoro femminile – scrivono le autrici – si riproduce la logica assimilazione-estraneità da cui muove l’esclusione delle donne. Com’è noto l’articolo 37 della Costituzione stabilisce che: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. La dicitura “donna lavoratrice” – sottolineando però Ammirati e Deiana – riduce il lavoro femminile a un elemento secondario e aggiuntivo del lavoro, di cui la forza lavoro maschile è parametro di riferimento. La donna vi è assimilata, in quanto lavoratrice, ma ne è anche estranea, in quanto appartenente al genere femminile. Il termine “essenziale”, invece, schiaccia il soggetto femminile al ruolo primario di madre e di custode della famiglia. In sostanza, da una parte c’è il lavoratore, unico soggetto riconosciuto come artefice del lavoro produttivo, dall’altra la donna lavoratrice, di cui, però, è ignorato il lavoro invisibile di riproduzione sociale».
L’opacità che ancora oggi circonda il lavoro di cura – non considerato lavoro, ma attività naturale delle donne, connessa alla maternità e al contesto familiare – è, come sottolineano le autrici, paradigma del funzionalismo del corpo delle donne. Ma rivendicare il riconoscimento di esso in termini economici sarebbe controproducente e inattuale non contribuendo in alcun modo alla messa in discussione di quegli elementi culturali su cui tale divisione sessuale del lavoro è fondata: la lotta per il riconoscimento al lavoro di cura e domestico dovrebbe invece essere riarticolata «in una critica radicale all’organizzazione del modello familiar/familistico incentrato sull’invisibilità del lavoro femminile e agli archetipi di genere in larga parta ancora dominanti nella nostra società».
Perché l’origine della disparità si trova nella famiglia, tanto più in un paese come il nostro dove non solo – come abbiamo visto anche dai dati sopra citati – ancora forte è la convinzione che ruolo primario delle donne sia quello di “angelo del focolare”, ma dove la famiglia – come sottolineando Ammirati e Deiana – continua a occupare un ruolo ideologico di primo piano.
Da un lato c’è quindi bisogno di «leggi avanzate che passino da una sterile politica per la maternità a interventi seri per la realizzazione di una genitorialità universale», dall’altro «nessuna misura economicista può sradicare fino in fondo le complesse dinamiche di potere in cui le relazioni tra i sessi sono invischiate. Il nodo del potere – è la sollecitazione su cui si conclude la disamina delle autrici – va indagato e affrontato in tutta la sua pervasività e complessità».

(28 aprile 2020)




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