La comunità al tempo della pandemia

Sergio Tramma



La pandemia ha chiamato in causa non solo il rapporto tra salute e malattia o il tema della limitazione delle libertà in situazioni di emergenza. A essere chiamato in causa è stato anche il concetto di “comunità”: il senso che ha assunto o potrebbe assumere, le sue pratiche reali, dichiarate o immaginate, il costituire grumo di nostalgia o prospettiva per l’avvenire, portando così in primo piano ciò è che stato presente trasversalmente in molti dei ragionamenti e delle iniziative che riguardano l’organizzazione sociale e i modi di pensare e praticare le relazioni tra gli umani: la comunità è una possibilità che va dal modo di vivere il microcontesto territoriale al rappresentare una sorta di terza via tra il capitalismo e il (l’ex) socialismo.

Riflettere attorno alla comunità in tempi di pandemia significa porsi alcune ineludibili domande: le prospettive politiche e culturali hanno retto alla prova? Sono state rafforzate o indebolite? La comunità continua a esercitare il suo fascino? Può ridurlo o accentuarlo? Difficile rispondere, innanzitutto perché non è facile delimitare l’esperienza della pandemia. Infatti, può esservi, da una parte, una lettura “ristretta” che la limita alla emergenza sanitaria e in tal caso la comunità riaffiora con alcune espressioni e concetti quali, per esempio, “medicina di comunità”, “mascherine di comunità”, le comunità delle persone che curano. Dall’altra può esservi una lettura “allargata” che estende la pandemia alle sue contingenti e durature conseguenze economiche e sociali, e anche agli effetti di tipo culturale che sta producendo a livello locale e internazionale, e qui la comunità si intravede molto più chiaramente perché è chiamata in causa come componente organizzativa del sistema dei servizi (welfare mix), come aspirazione locale e nazionale, come possibilità di pensarsi cittadini e praticare una cittadinanza che privilegi il bene comune, e anche come stato d’animo unificante in grado di superare distinzioni e conflitti. In altri termini, la comunità (prassi, teorizzazioni, organizzazioni) è un concetto forte e debole nello stesso tempo. Forte perché possiede sempre e comunque una connotazione che lo rende un universale positivo dal momento che comprende tante sfumature e addensati di significati da renderla adattabile a ogni esigenza, tenendola sempre a galla, qualsiasi cosa accada. Debole perché, nelle pratiche sociali e nei vissuti, non può mantenere quello che promette cioè l’essere un ambito organizzativo e relazionale che genera protezione, condivisione, progetto comune, relazioni stabili, armonia ecc., se non, come vorrebbe una lettura forse più rispondente ai principi fondativi di tale concetto, addirittura la fusione degli “io” in un “noi” superiore che li ingloba e li armonizza.

La questione della comunità non si presenta più ovviamente nei termini concettuali e secchi che nascono dalla sua distinzione, e contrapposizione, alla società – e il riferimento a Tonnies e a tutto il dibattito che ne è seguito e segue è doveroso – e neppure si presenta come luogo idilliaco a tutto tondo contrapposto a una società strutturalmente problematica. Comunque ancora oggi trascina con sé quella “sedicente” anima originaria che, come sottolinea Bauman, si trasforma in una diffusa “voglia” poiché è ritenuta in grado di rispondere elasticamente e compiutamente a molti dei bisogni che sorgono dai problemi individuali e collettivi generati dalla contemporaneità. La comunità, in tutte le forme concentrate o diluite con cui si presenta, è tornata protagonista del dibattito politico e culturale: che ciò sia il segno della sua intrinseca forza o, invece, della debolezza di altre prospettive politico-culturali, è però tutto da vedere. Questa sua presenza nel discorso pubblico nazionale e, soprattutto, locale, insieme al fatto di avere assunto un inossidabile significato positivo, proprio come molte altre parole (empowerment, meritocrazia, imprenditorialità, governance, volontariato ecc.) che conferiscono bontà e qualità a ogni discorso in cui sono inserite, fa sì che essa sia come re Mida: apparentemente trasforma in oro tutto quello che tocca, ma un’analisi un po’ più disillusa del consueto, consente di disvelarne alcuni risvolti problematici.

Volgendo lo sguardo ai tempi che hanno preceduto la pandemia, è rilevabile il fatto che l’ideologia, incarnata in organizzazioni, programmi, finanziamenti, che ruota attorno al concetto e alle prassi di comunità ha responsabilità non secondarie nel processo di smantellamento del welfare, un’opera giustificata con motivazioni riconducibili, da una parte, all’area dell’impossibilità e, dall’altra, all’area della incapacità. Impossibilità giustificata dal crescente divario tra l’aumento dei bisogni previdenziali, sanitari, assistenziali (bisogni che aumentano, è opportuno non dimenticarlo, non per castigo divino ma a causa di fenomeni positivi quali l’aumento della speranza di vita e l’ampliamento delle possibilità di interventi sanitari curativi e riabilitativi) e la diminuzione assoluta e relativa delle risorse a disposizione per far fronte a tali bisogni. Questa è una argomentazione “razionale” che non può restare isolata dovendosi intrecciare con le scelte strategiche a loro tempo non compiute, per esempio l’investimento su reali e incisive politiche promozionali e preventive rispetto all’invecchiamento della popolazione (l’ “invecchiamento attivo” non è certo un’esigenza negli ultimi anni) e l’impegno a rivedere virtuosamente, e non perché costretti, il rapporto tra i tempi del lavoro e quelli del pensionamento. Altre scelte strategiche non compiute riguardano il mancato investimento strutturale su politiche promozionali e preventive relative al disagio e alla fragilità sociale (costa di più, molto di più, un giorno di carcere di un detenuto che una giornata lavorativa di educatori o assistenti sociali) o relative all’educazione alla salute ecc., per non dire poi della mancanza di azioni lungimiranti per quanto riguarda la redistribuzione delle risorse.

Il welfare è stato dato in crisi irreversibile non solo con argomentazioni economiciste riguardanti il divario esistente tra le entrate e le necessità di spesa, ma anche a ragione di quelli che sono ritenuti suoi limiti strutturali: l’incapacità di sviluppare l’autonomia dei soggetti che vi entrano in contatto, e l’incapacità strutturale del lavoro pubblico di essere “efficiente ed efficace” e di agire con quelle modalità innovative che, ovviamente, trovano nella cultura imprenditoriale – cioè in una cultura che nasce per scopi completamenti diversi dal garantire una sufficiente quantità e qualità di benessere pubblico – i principali modelli di riferimento. La crisi del welfare prima che finanziaria è una crisi politico-culturale, di senso, di prospettive, che matura all’interno delle culture e delle scelte neoliberiste che non possono, non devono, non vogliono individuare delle modalità innovative e partecipative nella promozione delle politiche pubbliche, dei servizi e degli interventi con i quali si materializzano. Lineare sarebbe la crisi del welfare se tutto si risolvesse nella lotta tra due linee: privato vs pubblico. In r
ealtà, alla crisi concorre anche molto di ciò che è riconducibile al “neocomunitarismo”, per usare una definizione sufficientemente chiara per comunicare ciò che intende dire e altrettanto sufficientemente vaga per includere molte delle differenziate sfumature di significato e di prassi a cui tale termine fa da contenitore, e che procedono, alle volte in ordine sparso, altre in compatte legioni, articolandosi in programmi o definizioni che vanno dal welfare di comunità al welfare generativo. Un neocomunitarismo che da pochi anni ha trovato anche la massima dignità possibile, cioè quella costituzionale, attraverso il principio di sussidiarietà inserito nella riforma costituzionale del 2001. Come infatti recita l’articolo 118 della Costituzione: «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». Quel principio, è bene non dimenticarlo, trae ispirazione dall’enciclica Rerum Novarum del 1891 e dalla dottrina sociale della chiesa ed è fatto proprio da forze e culture, alcune delle quali stizzosamente altre sommessamente, non avevano e non hanno ancora elaborato il lutto per la perdita di egemonia, ritenuta come loro prerogativa “rivelata”, in campo assistenziale ed educativo, ma anche in quello sanitario e formativo. E quale attività di interesse generale più alta può esservi della cura, intesa in senso ampio, dei cittadini, soprattutto di quelli in condizioni di fragilità? Perché una tale cura deve essere delegata a qualcosa-qualcuno di molto lontano, oppure estraneo al contesto di vita di chi dovrebbe essere curato? E perché non affidarsi ad organizzazioni del “terzo settore” che sono calde, motivate, partecipate, a differenza dei servizi che sono (stati costretti a essere) freddi, demotivati, alienanti. Non è stata quindi solo la cultura imprenditoriale e l’intenzione di ricavare, attraverso la privatizzazione, profitti dalle condizioni di debolezza delle persone, a mettere in un angolo il welfare “classico” ha contribuito pure una certa concezione di comunitarismo e di welfare mix, presente anche in molta parte di quella sinistra che pare avere smarrito, dopo le riforme degli anni Settanta, qualsiasi capacità di elaborare delle strategie politico-culturali autonome e laiche nell’ambito dei servizi alle persone.

La pandemia, in particolare nella fase del confinamento, arriva in un tal genere di quadro presentandosi come esperienza educativa di massa perché genera apprendimenti in termini di acquisizione, trasformazione o scoperta di saperi, di competenze, di comportamenti, di visioni del mondo ecc. a prescindere dalla valutazione e dal gradimento sociale di tali apprendimenti. La pandemia da coronavirus è candidata a divenire una delle più estese e profonde esperienze educative degli ultimi decenni poiché ha stimolato, e stimola, apprendimenti-cambiamenti in molte aree della vita delle persone, dalla conoscenza attorno al tema del rapporto tra la salute e la malattia ai modi per intendere le relazioni con se stessi e gli altri, tacendo di altri piani, come il tormentone dell’imparare a fare la pasta o la pizza in casa, questione solo apparentemente banale poiché è stato uno degli argomenti che, diffusi attraverso i media e il WEB, ha molto contribuito a costruire l’immaginario delle micro-pratiche virtuose con le quali è stato affrontato il periodo del confinamento. In particolare, all’interno dell’esperienza del coronavirus si registrano apprendimenti intenzionali riconducibili a fonti che hanno quale proponimento far acquisire saperi attorno all’esperienza che si sta vivendo-subendo, per esempio, l’utilità dell’uso della mascherina e del rispetto delle norme di distanziamento sociale, una sufficiente consapevolezza sulla natura e il decorso della patologia (per quanto è dato sapere), l’uso di strumenti predittivi rispetto a ciò che la pandemia modificherà o lascerà inalterato nelle vite dei soggetti individuali e collettivi. L’esperienza della pandemia è, nei fatti, densa di apprendimenti promossi da fonti istituzionali e non, dai contenuti accettabili o discutibili, in possesso di minore a maggiore forza argomentativa, comunque apprendimenti riconducibili a soggetti e iniziative che dichiarano esplicitamente la loro intenzione educativa e, in quanto tali, sottoponibili a un giudizio che sarà loro favorevole in misura direttamente proporzionale alla rispondenza ai criteri di validità prevalenti in un dato momento. Vale per i politici, per gli scienziati, per gli esperti in campo umanistico e/o scientifico, per i preti e per tutti coloro che sono stati posti, o si sono collocati, nella posizione di formatori, maitre à penser, divulgatori (stupisce non abbiano affidato ad Alberto Angela l’esclusiva della comunicazione scientifica).

Nello spesso tempo, si verificano apprendimenti non riconducibili a identificabili soggetti istituzionali e non istituzionali, bensì promossi da una miriade di micro-fonti, in parte associabili a quel tam-tam amplificato e diffuso generato da internet che acquisisce credibilità in quanto tale, diventando anello ultimo della catena informativo-educativa “l’ho letto sul giornale – l’hanno detto in televisione -l’ho trovato su internet”. Una miriade di micro-fonti e una infinità di messaggi che sono potenzialmente educativi non solo per il numero di persone che raggiungono e per la replicabilità pressoché illimitata (mi leggono quindi sono) ma anche perché i sopra citati concorrenti individuali e istituzionali a tali messaggi, i già citati insegnanti, preti, giornalisti, sapienti di vario tipo, hanno perso molto della credibilità e del prestigio assoluto che ne facevano degli opinion leader, e anche questo a ben vedere è il prodotto, e nello stesso tempo la causa, dell’ideologia dell’uno vale uno. Non solo aveva ragione Andy Wharol quando prevedeva i quindici minuti di celebrità per ciascuno, ma vedeva bene anche Antonio Gramsci quando affermava che ogni uomo è un filosofo, non immaginando certo quanto tali filosofie individuali sarebbero divenute protagoniste del dibattito pubblico e non più confinate in angusti ambiti relazionali.

Nel caso di fenomeni quali il coronavirus, a formare “l’opinione pubblica”, cioè a fornire strumenti per descrivere, ordinare e comprendere i processi che le persone attraversano e da cui sono attraversate, non sono solo educatori (o altre definizioni che si vogliano utilizzare) o il movimento incessante che si verifica nel WEB (la Grande Comunità?), vi sono anche molte altre fonti d’apprendimento che “insegnano” perché coinvolgono componenti affettive fondamentali delle vite individuali e collettive. Fonti che educano perché attivano movimenti emotivi che costituiscono terreno fertile per acquisire coordinate che diano senso a quello che accade, per esorcizzarlo producendo culture “neo-folcloristiche” che tentano di battersi alla pari con quelle più legittimate da ricerca, metodo e formazione, ma non per questo sempre validabili ed encomiabili. È una disponibilità ancestrale ad accogliere qualsiasi spiegazione, a utilizzare amuleti di nobili o meno nobili lombi.

In tutto ciò la comunità è stata ed è una delle protagoniste principali, alcune volte esplicitamente, forse addirittura chiassosamente, altre volte procedendo con passo felpato. Dimensioni comunitarie sono emerse, soprattutto nel periodo del conf
inamento, nella pubblicità che ha brillato per la capacità di modificarsi in tempi brevissimi (chapeau!) per adattarsi al momento e far ricavare il massimo profitto d’immagine ai committenti, così come le dimensioni comunitarie sono emerse anche nei messaggi istituzionali e in una parte importate dell’informazione. In tutto ciò, la comunità è stata presente con spessore e forme diverse: la comunità debole, molto debole, inventata dalla retorica dei canti e dei brindisi dai balconi; la rediviva “comunità nazionale” testimoniata, come ogni comunità nazionale che si rispetti, da eroi, celando che l’esaltazione dell’eroismo è un modo per nascondere la colpevole mancanza di risorse che hanno costretto le persone a diventare eroi loro malgrado; una retorica quella dell’eroismo da tenere in freezer in attesa della prossima occasione , come ben racconta Zerocalcare. Inoltre, la comunità si rintraccia nella proliferazioni di narratori, soprattutto di sé, che contribuiscono a creare una diffusa e minimalista cultura “nazional-popolare” dell’esperienza; non potevano poi mancare benefattori che rinverdiscono il capitalismo compassionevole con molto ben comunicate e studiate elargizioni e, come contropartita, chiedono un’accentuazione (se mai fosse ancora possibile) della loro voce in capitolo in fatto di scelte economiche e strategie formative, come evidenziano le ravvicinate dichiarazioni del neo presidente della Confindustria Carlo Bonomi[1] e di Luca Cordero di Montezemolo[2]. Al rilancio della comunità nazionale di eroi, narratori e imprenditori si è affiancata, inoltre, anche la rivitalizzazione di altre sue dimensioni che poggiano la loro legittimazione su territori con autonomia amministrativa e legislativa, come per esempio le “comunità regionali” ricomparse massicciamente sulla scena dopo l’oblio provvisorio dovuto al passaggio dal bossismo al lepenismo di una delle principali forze politiche nazionali.

La comunità dunque si è posta come elemento organizzatore e risolutore poiché si disvela in azioni che costituiscono delle risposte, allucinatorie o reali, alle molteplici paure e al bisogno di non essere soli, come nel caso dell’esperienza della morte, dove la solitudine si è materializzata radicalmente tanto per chi è morto quanto per chi ne è stato coinvolto. È una risposta poiché offre modi di sentire che sono reputati comuni anche ad altri: non mi sento solo, anche nel momento di massimo isolamento sociale, vivo una disgrazia collettiva che contribuisce a farmi una ragione di quello che sta accadendo; nella comunità non siamo soli, c’è sempre una reazione nella quale posso riconoscermi per pensare che esista una tensione comune volta alla risoluzione del problema, quanto meno alla condivisione. La comunità, le molte comunità immaginabili ma non per questo possibili, rispondono in condizioni “normali” quanto eccezionali ai bisogni di appartenenza, di “noità”, di dimensioni e progetti collettivi, alla voglia di scoprire di non essere soli. E tutto ciò in una situazione di pandemia dove si accentua l’individualizzazione dei corsi di vita con quella caratteristica tipica della condizione umana nella contemporaneità costituita, come sottolinea Beck, dall’obbligo di costruirsi in solitudine la propria vita e di dover risolvere individualmente problemi anche di tipo sistemico. E questo non solo in campo professionale o formativo, ma anche in campo sanitario dove l’educazione diffusa spinge a considerarsi, a percepirsi e a comportarsi come un cliente, soprattutto in alcune regioni interessate dal ridimensionamento della medicina di base e dall’ampliamento dell’offerta della medicina low cost, tutti aspetti che contribuiscono all’idea di un autogoverno della storia del rapporto tra salute e malattia.

In una tale situazione, il rischio che le comunità siano tanto invocate quanto illusorie ed evanescenti è reale, almeno per quanto concerne le comunità inscrivibili nella lista di quelle che posseggono buone intenzioni. Mentre altre, quelle del comunitarismo del sangue e del suolo, o quelle del tentativo di esercitare egemonie su aspetti fondamentali della vita delle collettività, potranno invece essere interessate da una delle periodiche rivitalizzazioni, e questa è una realtà più che un rischio.

NOTE
[1] Nell’articolo pubblicato su la Repubblica il 20 maggio a firma di Roberto Maina si legge «La sua sarà un’altra Confindustria: nordica, industrialista, anti-statalista e tendenzialmente "politica", nel senso che farà politica da sé senza necessariamente ricercare alleanze tra i partiti di governo o dell’opposizione. Forse un nuovo schema: il "partito dei padroni" che sfida direttamente i "partiti partiti" e il loro «pregiudizio nei confronti delle imprese» e le loro «decisioni contraddittorie assunte guardando ai cicli elettorali sempre più brevi», come ha detto anche ieri il nuovo presidente ai suoi associati collegati da remoto».

[2] In un articolo sul Corriere della Sera del 20 maggio, riprendendo la proposta lanciata da Ferruccio De Bortoli, scrive: «La mia proposta è semplice: mettiamoci insieme e investiamo massicciamente in un grande progetto a favore della crescita del capitale umano. Penso ad un “Telethon dell’istruzione”, finanziato da imprenditori che contribuiscano anche a raccogliere ulteriori fondi con l’obbiettivo primario di combattere la povertà educativa e la dispersione scolastica con progetti concreti, ben gestiti e con una totale trasparenza della destinazione dei fondi».
(26 giugno 2020)





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