La condanna a Sallusti e la differenza tra giornalismo e diffamazione

MicroMega

Caro direttore Flores d’Arcais,

chi le scrive è un ragazzo che crede nel valore delle parole, ovvero nel loro poter essere tanto innocenti quanto colpevoli. Gli ultimi avvenimenti della società italiana sono particolarmente disorientanti, da questo punto di vista.

Da un lato vediamo scrittori querelati per aver criticato un libro e ci sembra che il diritto alla libertà d’opinione stia palesemente dalla parte di chi critica, dall’altro sappiamo di persone che a causa della “libertà di parola” di altri, si sono trovate diffamate, infangate, e magari licenziate o distrutte politicamente. Per non parlare del dibattito sorto a forza, nei giorni scorsi, intorno a quel preciso uso delle parole che è la satira, che ci ha fatto vedere come le parole possano far versar del sangue, incendiare addirittura i rapporti tra stati, far intervenire gli eserciti. In questa confusione, la soluzione più conveniente sembra tacere. Parlare, scrivere, elaborare un pensiero “provocatorio” significa sempre più spesso avventurarsi in uno spazio svuotato di significati e di buon senso, un pozzo kafkiano dove le paranoie finiscono per azzeccare la realtà (penso a chi è stato querelato per aver criticato un libro). Alla fine, vince la paura preventiva: il fatto che finché si tratta di “parlarsi”, criticarsi, provocarsi intellettualmente, un intellettuale ha il controllo della propria posizione, ma quando si entra nell’ambito legale, fatto di querele e avvocati, l’alienazione e l’impossibilità di comprendere le procedure in cui si è inseriti disperdono qualunque coerenza col proprio pensiero, annichiliscono ogni forma di onestà intellettuale.

In questa giungla, qualche giorno fa è scoppiato il caso più sconcertante per l’opinione pubblica italiana: il direttore di un giornale ha ricevuto la condanna a più di un anno di carcere perché nel suo giornale le parole sono state usate per diffamare la carriera di un altro uomo. La comunità giornalistica è insorta, molti hanno rispolverato i principi volteriani, hanno urlato alla dittatura e alla soppressione della libertà d’opinione. Svuotando ancora di più le parole del loro significato, del loro essere tangibili di colpevolezza o innocenza, perché questa sentenza – a mio parere – potrebbe invece svolgere un ruolo chiarificatore in tutta la giungla kafkiana in cui da tempo siamo invischiati.

Un primo punto è banale: difende il principio per cui le opinioni sono diverse dalla cronaca, un cronista ha responsabilità diverse da un autore di satira o da un critico letterario o da un poeta o regista, perché usare le parole per portare avanti un ragionamento (osceno o paradossale che sia) è diverso dall’usare le parole per attribuire azioni false all’identità di qualcuno. Soprattutto quando questo avviene con un obiettivo ben preciso: interferire nella vita di quel qualcuno, far scaturire delle azioni, delle conseguenze. La libertà d’espressione riguarda il linguaggio della poesia, della filosofia, della satira… non quello della cronaca, non il linguaggio performativo che usa le parole per suggerire azioni e far scaturire conseguenze pratiche. In quel caso è diffamazione, e isolare questo significato dell’uso delle parole da tutto il resto è il faro da cui poter fare un po’ di luce e limitare la paranoia intellettuale a cui siamo condannati.

Il secondo punto riguarda un’opinione espressa da molti giornalisti e più o meno riassumibile così: “la sanzione pecuniaria è comprensibile per risarcire il diffamato, invece il carcere è una violazione al diritto di cronaca e di libera espressione”. Questa posizione, personalmente, mi pare odiosa, per non dire antidemocratica. E’ da anni che molti dibattiti nati con le parole si risolvono alla fine nei tribunali con sanzioni pecuniarie. E questo ha creato schiere di uomini liberi in quanto “sponsorizzati”, protetti dalle assicurazioni e dagli introiti giganteschi dei loro giornali o programmi televisivi, e schiere di uomini meno liberi, per i quali anche solo il pensiero di una sanzione economica era ben più devastante del carcere e avrebbe comportato stravolgimenti esistenziali anche solo per il pagamento delle spese legali. Quanti politici hanno fatto querele consapevolmente ridicole, che poi si sono risolte in nulla, ma che nel frattempo avevano ridotto sul lastrico piccoli giornalisti o giovani autori di satira? In questa situazione, nessun direttore di grosso giornale (o telegiornale) citava Voltaire, né parlava di rischio antidemocratico.

Ora è arrivata una sentenza che ha decretato non una pena pecuniaria, ma il carcere: una pena democratica, un rischio di fronte al quale ognuno di noi ha qualcosa da perdere, siamo tutti uguali, liberi pensatori ricchi e poveri, protetti e scoperti. Solo a questo punto i grossi giornalisti hanno fatto quadrato nel richiedere maggiore tutela della “libertà di parola”. Una posizione che, in questo momento, sembra più corporativa che altro. Il fatto è che davanti al rischio del carcere si vede la vera differenza tra gli intellettuali e i diffamatori, tra chi ha il coraggio delle proprie idee fino in fondo (come Socrate, Gandhi e Pasolini) e chi invece gioca con il proprio avvocato, sapendo che male che vada non perderà niente o che addirittura ci guadagnerà (perché scrivere uno scoop diffamante fa vendere più copie di quanto non si pagherà con l’eventuale pena pecuniaria, anche se questo comporta non solo la distruzione della vita di un uomo, ma soprattutto il progressivo svuotamento di significato delle parole risolte in tribunale: la giungla kafkiana).

Il punto, per me, è che il dibattito culturale deve tornare a essere uno spazio in cui si giocano le disobbedienze civili, quelle pronte a pagare sulla propria pelle le conseguenze delle proprie posizioni intellettuali. E questo dovrebbe essere un diritto di tutti, indipendentemente dal reddito e dalle dimensioni della redazione di cui si fa parte.

La ringrazio per l’attenzione e Le porgo i miei più distinti saluti.

Elia Rossi

(27 settembre 2012)



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