La Corte costituzionale tedesca spinge l’Italia tra le braccia del Mes

Alessandro Somma

Uso e abuso della politica monetaria europea

Le misure di politica monetaria hanno sempre effetti di politica economica: la prima è una irrinunciabile componente della seconda. Proprio per questo l’Unione europea, competente in via esclusiva a dettare la politica monetaria, è riuscita ad imporre agli Stati membri scelte concernenti la politica economica, che pure è formalmente di loro esclusiva competenza. Determina cioè effetti in linea con l’approccio neoliberale alla spesa pubblica nel momento in cui stabilisce il costo e la disponibilità del denaro per promuovere la stabilità dei prezzi, e dunque per tenere bassa l’inflazione. Impedendo così di perseguire finalità contrastanti, come in particolare la piena occupazione, anche quando questa figura tra gli obiettivi di politica economica contemplati dalle Carte fondamentali nazionali: come affermato ad esempio nella Costituzione italiana (art. 4).

Se così stanno le cose, la recente sentenza della Corte costituzionale tedesca sul Quantitative easing, quello varato dalla Banca centrale europea sotto la Presidenza Draghi, non dice certo nulla di nuovo. Afferma che la misura, formalmente adottata per favorire il raggiungimento di un tasso di inflazione funzionale a ottenere la stabilità dei prezzi, produce effetti di politica economica. E non potrebbe essere altrimenti: l’acquisto di titoli sul mercato secondario inevitabilmente «migliora le condizioni di rifinanziamento degli Stati membri perché questi possono ottenere credito nel mercato finanziario a condizioni decisamente migliori», e questo «indubbiamente sgrava» il loro bilancio e aumenta gli spazi di manovra fiscale (sentenza del 5 maggio 2020).

Nuova è semmai la durezza con cui si intendono definire i limiti di un uso della politica monetaria come strumento di politica economica. La prima non è mai neutrale, potendo determinare sulla seconda effetti di varia natura, come è spesso avvenuto a tutto vantaggio della Germania. Questi effetti si vorrebbero però ammettere unicamente se sono rispettosi del principio per cui «il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei Trattati»: solo a queste condizioni i risvolti economici della politica monetaria si reputano rispettosi del «principio di proporzionalità» (art. 5 Trattato sull’Unione europea). Il che equivale a dire, dal punto di vista dei Giudici tedeschi, solo nella misura in cui non intaccano il fondamento neoliberale della costruzione europea, se non impediscono di edificarla in forma di «mercato aperto e in libera concorrenza» (artt. 119 e 127 Trattato sul funzionamento dell’Unione europea).

Al principio dell’avventura europea, la possibilità di utilizzare le politiche monetarie come espediente attraverso cui ottenere effetti di politica economica, e in particolare quelli cui abbiamo fatto riferimento, è stata inizialmente considerata con notevole sospetto. Si preannunciava già l’intenzione di giungere a una politica monetaria comune, e tuttavia la si concepiva come ultima tappa di un cammino che doveva prima passare dalla definizione di politiche economiche comuni. Un cammino che impedisse cioè di alimentare una costruzione frutto di forzature consentite da un opaco e al limite subdolo coordinamento fra strumenti difficilmente distinguibili.

Si deve al percorso verso la moneta unica, un radicale cambio di paradigma quanto all’opportunità di elaborare una politica economica comune quale presupposto per l’individuazione di una politica monetaria condivisa. Il percorso ha elevato quest’ultima a competenza esclusiva dell’Unione, da esercitare avendo «l’obiettivo principale della stabilità dei prezzi». Il tutto lasciando formalmente agli Stati la competenza in materia di politica economica, la quale deve però essere oggetto di «stretto coordinamento» (artt. 3 e 119 Trattato sul funzionamento dell’Unione europea). Il tutto sostenuto da un sistema di sorveglianza multilaterale, condotta alla luce di indicazioni in linea con quelle cui si ispira la politica monetaria: si deve perseguire la stabilità dei prezzi e dunque il controllo su debito e deficit, da contenere rispettivamente entro il limite del 60% e del 3% del prodotto interno lordo (artt. 121 e 126 Trattato sul funzionamento dell’Unione europea).

Il Patto di stabilità e crescita, sorto nella seconda metà degli anni Novanta e più volte emendato nel corso del tempo, ha reso il coordinamento delle politiche economiche sempre più stringente e sempre meno compatibile con un sistema formalmente incentrato sulla competenza nazionale in materia. Nel merito i riscontri sono noti e numerosi, tanto che è sufficiente menzionare a titolo esemplificativo il Semestre europeo: il ciclo di coordinamento incidente sulla definizione delle leggi di stabilità in forme che rendono arduo considerarle atti liberamente assunti dai parlamenti nazionali.

Di qui una prima annotazione: la richiesta di ripristinare i confini della politica monetaria giunge da un Paese che ha alimentato un abuso di questa come strumento di politica economica, ammesso tuttavia se produce risultati in linea con l’ortodossia neoliberale, e recisamente avversato in caso contrario.

La difesa della democrazia è la difesa del mercato

In occasione della crisi del debito sovrano, le Corti costituzionali dei Paesi sudeuropei hanno tentato di arginare le misure di austerità decise dal livello europeo per affrontarla. Queste discendevano da un approccio neoliberale alla disciplina dell’ordine economico, in qualche modo presentato come corollario del dovere di ripagare il debito accumulato, per molti aspetti confliggente con un altro dovere cui riconoscere quantomeno pari rango: il rispetto e la promozione dei diritti sociali, messo a rischio dall’imposizione di politiche di bilancio restrittive.

Anche la Corte costituzionale italiana ha fatto la sua parte, affermando che «è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione» (sentenza del 16 dicembre 2016 n. 275). Essa resta però complessivamente timida nel porre limiti al principio del primato del diritto europeo. Questo cede di fronte al diritto nazionale solo se minaccia precetti tanto irrinunciabili da essere «sottratti anche alla revisione costituzionale» (sentenza 22 ottobre 2014 n. 238): ad esempio la forma repubblicana, intangibile per espressa previsione (art. 139). A queste condizioni la difesa dei principi fondamentali è solo simbolica e anzi finisce per trasformarsi in un aprioristico avallo di qualsiasi invasione di campo del livello europeo.

Tutto il contrario di quanto fa la Corte costituzionale tedesca, abituata ad esercitare una vera e propria signoria sulla costruzione europea, e in tale prospettiva a riservarsi spazi di manovra inconcepibili in altri Paesi. Nel merito può del resto invocare disposizioni costituzionali decisamente incisive, in ogni caso più di quanto si possa ricavare da quella tradizionalmente indicata come base giuridica per motivare la partecipazione italiana alla costruzione europea (art. 11).

La Carta fondamentale tedesca è stata infatti modificata in occasione della ratifica del Trattato di Maastricht, per affermare che le cessioni di sovranità sono ammissibili solo se il livello europeo realizza le finalità prima perseguite dal livello nazionale. Una disposizione
precisa ora che «la Repubblica federale tedesca collabora allo sviluppo dell’Unione europea» solo se questa «si vincola ai principi democratici, dello Stato di diritto, sociale e federativi e al principio di sussidiarietà e assicura una tutela dei diritti fondamentali sostanzialmente comparabile a questa Legge fondamentale». Precisa poi che l’esecutivo deve assicurare al parlamento «la possibilità di prendere posizione prima di partecipare alla produzione normativa europea» (art. 23).

Agitando la difesa delle prerogative democratiche la Corte costituzionale tedesca ha potuto così far prevalere le ragioni della chiusura. Ha ritenuto le cessioni di sovranità ammissibili solo se il livello nazionale resta «il Signore dei Trattati», ovvero se non intacca la capacità del popolo tedesco «di progettare dal punto di vista politico e sociale e in modo responsabile e autonomo le proprie condizioni di vita». E ciò equivale a dire che il parlamento tedesco «in quanto rappresentante del popolo», così come l’esecutivo da esso supportato, devono mantenere «un influsso costitutivo sullo sviluppo politico della Germania». Anche e soprattutto per assolvere al «dovere dello Stato di garantire un giusto ordine sociale», ovvero per «creare le condizioni minime per un’esistenza dignitosa dei suoi cittadini» (sentenza del 30 giugno 2009).

In questo modo la sovranità popolare viene tutelata in modo sostanziale, e la sovranità statale riconfermata nel suo ruolo di sfondo ineliminabile per produrre un simile risultato, anche e soprattutto dal punto di vista delle scelte sulla spesa pubblica: è nuovamente la Corte costituzionale tedesca a precisare che l’appartenenza all’Europa unita non deve in alcun modo menomare il potere del parlamento di esercitare un «controllo sulle scelte fondamentali in materia di politica fiscale e di bilancio» (sentenza del 7 settembre 2011). Il tutto mentre un’altra disposizione della Legge fondamentale, introdotta anch’essa in occasione della ratifica del trattato di Maastricht, ammette la cessione di sovranità monetaria solo nella misura in cui la Banca centrale europea persegue le medesime finalità perseguite dalla Banca centrale tedesca: se «è indipendente ed è vincolata allo scopo primario della sicurezza della stabilità dei prezzi» (art. 88).

I Giudici tedeschi riconoscono che la cessione di sovranità monetaria equivale a una limitazione della «legittimazione democratica» e dunque a una compressione del «principio democratico», ma reputano che questa avvenga nel solco di una impostazione «sperimentata nell’ordinamento tedesco e dimostrata sul piano scientifico» (sentenza del 12 ottobre 1993). Di qui la saldatura tra principio democratico e ortodossia neoliberale, che merge con forza dalla decisione sul Quantitative easing promosso dalla Banca centrale europea del Presidente Draghi.

Lì il riferimento alla democrazia emerge come mera clausola di stile chiamata ad alzare una cortina fumogena attorno al fine ultimo della decisione: presidiare la separazione tra politica ed economia, e con ciò l’attribuzione ai mercati del compito di disciplinare il comportamento dei corpi politici. Il tutto alimentato dal divieto di finanziamento monetario dei bilanci pubblici (art. 123 Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), che impone agli Stati di comportarsi in modo tale da non rendere eccessivamente oneroso il reperimento di risorse sui mercati finanziari: di perseguire politiche di bilancio restrittive come condizione per essere considerati debitori solvibili, e dunque per ottenere tassi di interesse vantaggiosi. Il che viene sottolineato dalla Corte costituzionale tedesca, che considera il divieto di finanziamento monetario un espediente per «vincolare gli Stati membri a una politica di bilancio sana», finalità per la quale essi non devono poter contare sulla possibilità che «i titoli del debito da loro emessi siano poi acquistati sul mercato secondario del sistema europeo» (sentenza 5 maggio 2020).

Di qui una seconda annotazione: la difesa delle prerogative democratiche da parte del Giudice tedesco è solo apparente, perché utilizzata per presidiare la funzione di disciplina del comportamento degli Stati attribuita ai mercati dall’ortodossia neoliberale.

I Giudici tedeschi ci spingono tra le braccia del Mes

La decisione tedesca giunge in un momento drammatico per i Paesi europei, alle prese con l’emergenza sanitaria e la relativa crisi economica. Un’emergenza considerata una «tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche», e una crisi capace di generare un «costo economico elevatissimo», tanto da esporre al rischio di una «depressione duratura». Il tutto da affrontare inevitabilmente con un «aumento significativo del debito pubblico», tanto che «livelli molto più elevati di debito pubblico diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie» (Draghi).

A queste condizioni i Paesi sudeuropei, già segnati da debiti pubblici elevati, spingono affinché l’Europa intervenga con forme di assistenza finanziaria non destinate a produrre una ulteriore drammatica esposizione. Le loro richieste si infrangono però contro la riaffermazione dell’ortodossia neoliberale da parte dei Paesi nordici, che hanno finora imposto il loro punto di vista: le misure in discussione consistono in una erogazione di prestiti, con benefici per i Paesi sudeuropei limitati alla possibilità di corrispondere tassi inferiori rispetto a quelli solitamente richiesti dai mercati agli Stati considerati poco affidabili. Nessuno spazio invece per forme di mutualizzazione del debito, come in particolare quelle realizzate ricorrendo agli Eurobond, e solo qualche timida apertura al futuro utilizzo del bilancio europeo, senza però indicazioni concrete circa il modo di incrementarlo a fronte della sua tradizionale esiguità.

In tutto questo la Banca centrale europea ha varato un nuovo programma di acquisto di titoli del debito sul mercato secondario pensato appositamente per l’emergenza pandemica (oggetto della sentenza della Corte costituzionale tedesca), con differenze di rilievo rispetto al Quantitative easing varato sotto la Presidenza Draghi. Non vale innanzi tutto la regola per cui si può acquistare solo un terzo dei titoli per ciascuna emissione. Neppure vale la regola per cui i titoli devono provenire da Paesi capaci di stare sui mercati, ovvero che non riguarda i titoli spazzatura. Ci sono infine novità anche per la regola secondo cui gli acquisti di titoli emessi da un Paese non possono superare il limite dato dalla percentuale di quote di capitale della Banca possedute (capital key). Si invoca infatti un approccio flessibile, per consentire alla Banca di acquistare soprattutto dai Paesi i cui titoli sarebbero altrimenti assorbiti dal mercato al prezzo di elevati tassi di interesse.

Insomma, dal punto di vista dei Paesi sudeuropei la sola risposta all’altezza della situazione è quella che consente la mutualizzazione del debito. In sua assenza, in una situazione nella quale l’indebitamento sovrano rappresenta l’unica strada percorribile per fronteggiare la crisi, il programma di Quantitative easing alle condizioni indicate consente se non altro di tenere sotto controllo i tassi di interesse.

Se così stanno le cose, non si può dar torto alla Corte costituzionale tedesca se stigmatizza gli effetti di politica economica derivanti da una misura di politica monetaria. L’Europa non si mostra per&og
rave; intenzionata ad adottare misure capaci di impedire l’indebitamento dei Paesi meridionali: evita accuratamente di aprire la strada a forme di finanziamento a fondo perduto, come si ricava in modo esemplare dalla discussione sul Fondo per la ripresa (Recovery fund) e sul Fondo per il sostegno al rischio di disoccupazione (Sure). Il Quantitative easing varato da Lagarde, per quanto ampiamente insufficiente, è dunque l’unica misura al momento capace di alleviare in parte le drammatiche conseguenze della crisi.

Proprio questa misura è però il vero obiettivo della Corte costituzionale tedesca. Lo ricaviamo da quanto dice a proposito della compatibilità tra l’acquisto dei titoli sul mercato secondario e il divieto di finanziamento monetario dei bilanci pubblici (art. 123 Trattato sul funzionamento dell’Unione europea): che l’acquisto non viola il divieto solo se rispetta la regola per cui si può acquistare solo un terzo dei titoli per ciascuna emissione, la regola per cui i titoli non possono essere qualificati come spazzatura, e la regola del capital key.

Ma non è tutto. I Giudici tedeschi affermano anche che il Quantitative easing irrispettoso di queste regole realizza di fatto quanto spetta al Meccanismo europeo di stabilità (Mes): effetto inammissibile dal momento che l’intervento del Meccanismo può avvenire solo sotto rigorose condizionalità. In questo modo la Corte tedesca irrompe a gamba tesa nel dibattito circa il modo di affrontare la crisi che si sta conducendo in senso all’Unione europea, particolarmente vivace proprio se riferito all’opportunità o meno di ricorrere al Mes.

Come è noto questa soluzione viene caldeggiata dalle istituzioni europee, che si sono impegnate a promuovere il ricorso al Meccanismo attenuando la disciplina vigente. Sarebbe cioè possibile attivarlo con condizionalità minime: il solo impegno a utilizzare il prestito per finanziare le spese sanitarie. Di qui la controversia con chi fa notare che una simile possibilità non è contemplata dal diritto europeo, il cui contenuto non è certo superabile invocando impegni meramente politici, come quelli assunti dalla Commissione.

Se così stanno le cose, la Corte costituzionale tedesca impone di osservare con realismo le opzioni in campo. Porta cioè a prendere sul serio la sostanziale indisponibilità dei Paesi nordici ad allentare il quadro normativo posto a presidio dell’ortodossia neoliberale. E anzi a riconoscere che, come in occasione della crisi dei debiti sovrani, i momenti di particolare difficoltà sono utilizzati come occasioni per inasprire quel quadro normativo. Con il risultato che l’unica alternativa all’indebitamento a tassi insostenibili non sono gli interventi di politica monetaria in qualche modo utilizzati per ottenere effetti di politica economica, né tanto meno il ricorso a forme di mutualizzazione o monetizzazione del debito: l’unica alternativa è il ricorso all’assistenza finanziaria condizionata.

Di qui una terza e ultima considerazione: la decisione tedesca evidenzia i termini di uno scontro tra più modi di interpretare la politica economica europea oramai incapaci di convivere ricorrendo a espedienti monetari, e dunque impone di compiere scelte la cui portata deve essere all’altezza della situazione.

(18 maggio 2020)




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