La coscienza libera di De Monticelli è abissale fino a diventare un’incognita
di Giuliano Ferrara, Il Foglio, 3 ottobre 2008
Ieri Roberta De Monticelli ha abiurato su questo giornale ogni relazione personale con la chiesa cattolica, che ama e nella quale non si riconosce più, e lo ha fatto con dolore (come ha scritto). De Monticelli è una filosofa e una cristiana laica di idee ferventi, notevole erudizione, sensibilità nell’interpretazione dei testi e chiara scrittura (mi sono occupato di un suo libretto interessante e vivido sulla relazione tra cristianesimo ed etica qualche tempo fa nel Foglio). Il punto di rottura la filosofa (e donna di fede) lo ha individuato in due dichiarazioni di monsignor Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze, rilasciate alla stampa nella sua qualità di segretario uscente della Conferenza episcopale italiana. La prima dichiarazione dice che, in materia di vita e morte (perché di questo poi si tratta, quando si parla di testamento biologico e affini), “la decisione non deve spettare alla persona”. La seconda dichiarazione reca un sonante: “Non siamo per il principio di autodeterminazione”.
Naturalmente non m’immischio nella questione personale dei rapporti tra la credente De Monticelli e la chiesa, per quanto sia considerata simbolica e necessariamente pubblica dalla stessa scrittrice che la pone, perché dalla chiesa sono fuori, e non ho la fede cristiana pur cercando di essere un tipo d’uomo cristianissimo. Ma il resto, ovvero le idee, l’etica, l’antropologia, la storia, la verità, l’autorità, la coscienza e la libertà, questo è pane per i nostri denti di liberali metodologici, di radicali e conservatori, di laici devoti che non si sottomettono al conformismo ideologico del mondo ultrasecolarizzato. Anche perché le due dichiarazioni ecclesiali incriminate, secondo le quali non è necessariamente e sempre il soggetto che decide di sé, e l’autodeterminazione è un principio da respingere, sono miele per le mie orecchie (disimpegnate dall’autorità del vescovo, ma non dalla rilevanza delle sue idee). Miele, proprio miele. In un senso che tutto il nostro lavoro giornalistico, lato filosofico e antropologico, cerca di mostrare. E che ora cerco di precisare.
La coscienza libera di Roberta De Monticelli è, come direbbe il geniale antropologo e filosofo tedesco Odo Marquard, abissale. Abissale fino a diventare un’incognita. Io liquido il diavolo, come scrisse Joseph Ratzinger, fonte ispiratrice di Marquard, e mi faccio imputato umano, troppo umano, per la questione del male. Non è più Dio, come nella antica e medievale teodicea, che porta il fardello del male nel mondo, magari attraverso il suo angelo caduto. Eliminato Dio, il compito tocca all’uomo, che inventa con la filosofia della storia la ipertribunalizzazione della storia stessa, si fa imputato e giudice contemporaneamente, e alla fine naturalmente si assolve in questo grande teatro antigiuridico.
Lo strumento della grande assoluzione è la libertà di coscienza intesa come un assoluto misterioso, originario, spiritualmente indipendente dalla società, dalle istituzioni, dalla religione, dal costume, dalla cultura e dalla storia. Un assoluto soggettivo che non è oggettivabile, che non si forma nella società razionale e politica ma nel cuore. La coscienza mi porta a decidere quando devo morire, e con la stessa cogenza mi impedisce di considerarmi colpevole quando a morire per volontà della mia libera coscienza è un bambino nella mia pancia. Posso anche socialmente dare la morte, disidratare e affamare i corpi, perché la legge della mia coscienza è formalisticamente, nonché spiritualmente, superiore alla carità, all’amore.
Per invocare la libertà soggettiva senza confini in fatto di vita e di morte, in regime di piena autodeterminazione personale, così come fa la De Monticelli, bisogna considerare la coscienza libera e padrona come l’unica voce di Dio che l’uomo debba ascoltare, come un sostituto della parola, della liturgia e, in termini laici, della comunità politica e della socialità morale dell’esistenza umana. La coscienza interiore diventa legge obbligante, la nuova tavola dei comandamenti riscritta dall’umanità per il suo uso moderno. In nome di quella assolutizzazione della libera coscienza, una concezione di derivazione teologica luterana, dunque spiritualmente immensa e impregnata di genio religioso, una sorta di sintesi esplosiva di certi aspetti del paolinismo e dell’agostinismo, tutto è affidato al lato irrazionale e misterioso della fede, niente resta per la fede petrina che è tenuta a spiegare la sua ragione. Niente resta, appunto, per la chiesa e per il Papa, e niente resta per il fondamento naturale indiscutibile delle costituzioni liberali moderne, per la Grundnorm, la norma fondamentale.
Il problema posto da De Monticelli va rovesciato. Come ha suggerito tra gli altri un illuminista e laico americano, Austin Dacey, nel suo libro sulla coscienza secolare moderna, di cui si è parlato in un bel colloquio con lui di Amy Rosenthal nel Foglio del 16 settembre. Per generazioni in occidente si è affermata l’idea che le questioni di coscienza sono faccende private che non hanno un loro posto nella vita pubblica. Ma questo, ci ha detto Dacey convergendo con una linea di ricerca del Foglio attiva da molti anni, è “un tradimento della tradizione del liberalismo laico”, perché “le questioni di coscienza devono essere sottratte al potere dello stato, ma questo non significa che siano private nel senso di soggettive o personali”. Dacey cita Spinoza, Kant, Locke, Jefferson, Madison e Mill per dire che questi colossi del liberalismo moderno non pensavano che lo statuto della coscienza, anche di quella etica e teologica, consista “in ragioni private che non hanno posto nella politica”. Per quei profeti del mondo moderno, al contrario, “l’ordine liberale è quello che fa emergere queste verità aprendo uno spazio nella vita pubblica in cui i cittadini possano discuterne insieme nel corso di una conversazione libera e priva di ogni ipoteca esterna”.
Lo stato non ti può imporre un suo pensiero in tema di vita o di morte, in tema di morale e distinzione del bene e del male. Ma la norma pubblica in materia, quando ce ne sia bisogno, non è la semplice autorizzazione procedurale a fare ciascuno quel che crede. La norma o la scelta di sottrarre un certo campo dell’azione umana alla norma devono nascere da una discussione informata in cui trovi spazio, in senso pieno e ricco, il punto di vista religioso, cioè quello di una fede che si incarna in un’istituzione. Con la coscienza misteriosa e abissale dell’homo compensator, quell’uomo senza Dio che secondo Marquard si assolve mentre si fa giudice di se stesso, non si fanno le leggi, non si praticano né il terreno della morale né quello del diritto, al massimo si fa il caos interiore di una fede fervente che rifiuta di dire le sue ragioni. E che nel mascheramento moderno, un secolarismo che diventa religione dei diritti individuali, si fa chiamare libertà dell’individuo e autodeterminazione.
(11 ottobre 2008)
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