La Costituzione, il Referendum e il… premio di maggioranza
Giuseppe Panissidi
“In qual parte del ciel, in quale idea”
Un Paese allo stremo (non) attendeva, inquieto e disilluso, sempre più convinto dell’inanità della sua attesa. En attendant Godot, era lo spirito del tempo.
Come per incanto, d’improvviso, in una luminosa giornata d’autunno, Godot arriva esibendo una straordinaria potenza controintuitiva. Una grande maggioranza di popolo rompe i cancelli dell’astensionismo e torna al voto, enfin. Ha deciso di significare quel che pensa, quel che vuole. Anzi: quel che non vuole.
E’ stata premiata? Sembra di no, il fatidico (e controverso) premio di maggioranza è mancato. E pour cause.
Eppure, l’inequivoca espressione della volontà popolare sembrava più che idonea ad innescare un movimento inaudito dentro i profondi recessi – per usare una terminologia anatomico-giuridica – delle cerchie istituzionali, entro le “forze d’occupazione” dello Stato, come le definiva, in termini icastici e… sapidi, Enrico Berlinguer.
Sennonché, giunti a questo punto di imprevedibile e formidabile avanzamento etico-politico e civile, dopo decenni di pianto greco sulla ‘disaffezione’ popolare, inizia e s’impone una lunga sequenza di manovre, una ricca costellazione di opzioni e valutazioni prospettiche stranianti, riassumibili, per comodità di discorso, nella domanda esemplare sgorgata dal comune sentire. Perché, dopo una così clamorosa confitta, l’ineffabile Maria Elena Boschi, la signorina-grandi-riforme, non si è fatta da parte, come peraltro aveva “promesso”? Sotto questo profilo, indubbiamente, la ragazza contravviene al monito aristotelico, secondo il quale la virtù propria dell’uomo politico è l’onore. E la coerenza, si può aggiungere. L’astuta fanciulla, visibilmente non immune da intimi travagli, avrà calcolato: ci siamo tanti amati, non mi lascerete andare via, non ci lascerete andare via. Dunque, Vot’Antonio! Se La Trippa o La Qualunque, non fa molta differenza.
Non può tuttavia sfuggire che non erano in gioco soltanto il suo onore e la sua coerenza personali. Al di là di essi, e su un piano assai più alto, vi era, vi è, l’onore dello Stato, affidato a più elevate coscienze morali ed istituzionali… Altre dall’invadente e pervasiva figura di una studentessa-pedina, gradevole e bravina, ma troppo fragile e piccola per una vigorosa, rapida ed efficace strategia di “neutralizzazione”: una drammatica emergenza sismica da fronteggiare in poche mosse…
L’art. 92 della vittoriosa Costituzione recita: “Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”.
Leggi: Maria Elena non si è proposta o auto-nominata. Il volto della madonnina del presepe è stato, prima, usato e, dopo, “ri-proposto” e “ri-nominato”. In realtà, l’agognato “passo indietro” rientrava unicamente nella sfera di senso dell’opportunità politico-istituzionale di compare Gentiloni, che, al contrario, come vedremo, si è subito e candidamente – ogni riferimento al Candide volterriano è puramente volontario – rivelato e caratterizzato come il piano B di Renzi e del renzismo, ora in esecuzione. E del Capo dello Stato. Fa d’uopo, buon Totò, rivolgersi a lor signori. Soltanto costoro, infatti, possiedono la chiave di cifratura del messaggio, un avvertimento non troppo velato, e come tale recepito, brutalmente inviato al popolo con quella nomina, tra le altre meno significative.
Per la serie: guai ai vincitori, qualora risultino estranei alla “selva delle somiglianze”.
Non è ancora tutto. Perché l’art. 95 dell’invitta Costituzione così detta: “Il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promovendo e coordinando l’attività dei ministri. I ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri”. Ne discende che il “passo indietro” spettava all’intero esecutivo, ovvero spettava, anche qui, a chi di competenza garantirlo. Se è vero, com’è vero, che l’intero Gabinetto era “collegialmente” responsabile dell’evento inesorabilmente condannato dal popolo sovrano dentro le urne.
Se, infatti, nella risoluzione delle crisi il Capo dello Stato non è giuridicamente libero nella scelta dell’incaricato, in quanto vincolato ad individuare una personalità politica in grado di formare un governo che abbia la fiducia del Parlamento, ne consegue che, a fortiori, non è giuridicamente libero di nominare qualsiasi ministro. Historia docet? Neppure la riprovata riforma costituzionale avrebbe consentito di compiere scelte tanto importanti per la nazione senza il doveroso ascolto della volontà dell’amplissima partecipazione civile, della prassi collettiva popolare. Dovendosi ragionevolmente escludere che la realizzazione di una Democrazia cartacea sia la forma di regime scelta dalla nostra Repubblica, nata dall’antifascismo e dalla Resistenza. Né può valere, quale attenuante generica, l’abbattimento metodico del livello culturale nazionale, sapientemente programmato e chirurgicamente eseguito attraverso plurime scelte mirate e puntuali. Nonostante le quali, infatti, l’esito referendario ha rivelato una stupefacente forza democratica propulsiva ed espansiva. Finalmente.
Da escludere la possibilità che qualcuno, colà dove si puote ciò che si vuole, desideri che gli italiani continuino a pensare di non aver diritto ad interloquire sulla propria esistenza e i propri destini. Perché qui ed ora non è in discussione la necessità oggettiva che si provvedesse con urgenza alla formazione di un nuovo Gabinetto, a causa della conclamata e persistente mancanza di una decente e coerente legge elettorale, anche se stucchevolmente declinata come un tormentone. Fin qui nulla quaestio. Ciò che è in discussione è la necessità, non meno oggettiva ed imperativa, di un esecutivo rigorosamente ‘nuovo’, dunque igienicamente affrancato dalle patetiche velleità di un individuo disfatto dalla volontà popolare, ma smanioso di riverginarsi e tornare più bello e superbo che pria.
Tali il ruolo e la funzione di “organo di garanzia costituzionale” che deve assumere il potere di nomina in capo al Presidente della Repubblica, con esclusione di una funzione meramente notarile.
Insomma, al di là della valutazione della idoneità personale, a mente degli artt. 54 e 97 Cost., in virtù della “razionalità” e “funzionalità” costituzionale, al Presidente compete anche il potere/dovere di una valutazione oggettiva e, pertanto, di respingere organigrammi governativi palesemente implausibili, dunque deleteri anche ai fini della “funzionalità” della compagine proposta dal premier incaricato. L’eventuale incongruità della designazione infligge un vulnus irreparabile alla Carta.
A nulla, poi, rileva l’obiezione che così fan
tutti, secondo la prassi consolidata e la vigenza di una “Costituzione materiale” , versandosi in tema di un tipico argomento fading out, cioè auto-dissolvente. Che, semmai, può valere in tempi di pace convenzionale e pigra routine, non già all’esito di un conflitto referendario asperrimo sulla riscrittura di mezza Costituzione, improvvidamente realizzata a colpi di maglio di maggioranza. Ché, anzi, proprio in simili drammatici frangenti si palesa una nuova e decisiva posta in gioco: l’imperativo di un’urgente riforma, sì, della Costituzione, quanto però alla sua declinazione materiale, sempre più scissa dalla fonte primaria autentica e, di conseguenza, causa di micidiali distorsioni e ricadute entro le dinamiche politico-istituzionali e lo svolgersi della stessa vita pubblica, ivi compreso il fenomeno, sistemico e devastante, della corruttela. Di certo, nel consesso delle democrazie occidentali, tutto ciò non ci fa onore.
Vero è, tuttavia, che una becera vulgata, beatamente ignara dei lavori della Costituente, attribuisce al Capo dello Stato una parte secondaria, limitata a funzioni simbolico-rappresentative, quale titolare di un potere neutro, di moderazione e coordinamento, custode formale della Costituzione, come riconosceva e temeva lo stesso onorevole Mortati, un grande tecnico della materia.
All’opposto, il Capo dello Stato, a differenza di compare Gentiloni, fervente catechista catechizzato dal rottamatore, è investito di un ampio potere sovraordinato, di cui potrebbe essere finanche tentato di abusare, poiché esercita un’azione politica tanto vasta e decisiva, da rischiare di uscire dai limiti costituzionali del sistema parlamentare, per entrare in uno schema distinto da lineamenti ed alterazioni presidenziali. Dunque, lungi da improbabili funzioni di “decorazione”, il Capo dello Stato esercita un potere efficace ed immenso. Previa la sua nomina del Primo Ministro e dei Ministri, il Gabinetto che, di fatto, ‘guida’ il Parlamento, nasce dalla decisione sovrana del Capo dello Stato, in base alla sua personale valutazione e interpretazione della situazione politica generale. Una volta assolta tale funzione, tuttavia, non si verifica il suo “esautoramento”, poiché il Gabinetto deve presentarsi davanti all’Assemblea per ottenere il voto di fiducia. E’ perciò del tutto evidente che, in situazioni di crisi, la scelta del Governo, in particolare della sua composizione da parte del supremo organo di garanzia costituzionale, ha la massima influenza, e non solo d’indicazione e d’orientamento. Un peso di certo determinante.
Sebbene il 4 dicembre non si siano svolte elezioni politiche generali, se si considera il cruciale significato politico-istituzionale del Referendum, un significato universalmente condiviso, al Capo dello Stato incombeva il potere – dovere? – di valutare la situazione politica emersa ed attestata dal voto, indipendentemente dalla giusta considerazione dell’inesistenza di una nuova ed organica maggioranza alternativa. Un’analisi siffatta appariva più che necessaria, sia al fine precipuo ed essenziale di designare una composizione del Governo analoga e corrispondente, per dirla con Pozzetto, ossia persone le più adatte ad esprimere l’indirizzo dominante nel Paese; sia per scongiurare qualsiasi pericolo di ‘contaminatio’ fra il governo presidenziale e il governo parlamentare, alla stregua del dettato costituzionale, nonché delle limpide ed approfondite elaborazioni dialettiche dell’Assemblea Costituente.
D’obbligo, al riguardo, anche una ferma e pertinente censura ‘costituzionale’ – in luogo dell’asserita, semplice ‘irritazione’ – per le ‘consultazioni parallele’ (sic) imbastite dal premier dimissionario nella sede istituzionale dell’esecutivo, palesemente viziate da carenza di legittimazione, in una fase che contempla ed assegna il cerino nelle mani esclusive del Capo dello Stato. Un’inedita, seppur significativa anomalia, visto, peraltro, che il rottamatore e la sua bella ministra non hanno mai proposto la ‘riforma’ anche di questa procedura costituzionale!
In breve. Il Capo dello Stato, nominando la madonna del presepe, ha implicitamente dichiarato che la bella del reame gode anche della ‘sua’ fiducia, oltre a quella di compare Gentiloni. Il quale manca poco che si fregi del titolo e del merito di vincitore del Referendum!
Surreale? Certamente, altrove. Non nel Belpaese. Storie di ordinaria follia.
Nel merito. In apertura del “Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte”, nel 1852, Marx, riformulando il nesso dicotomico ‘Tragödie-Farce’ proposto da Engels in una lettera inviatagli l’anno precedente, scrive: “Hegel osserva da qualche parte che tutti i grandi avvenimenti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”.
Il modulo speculativo hegeliano della ripetizione potrebbe chiarire meglio il nostro assunto. Ora è poco più di un secolo, un accordo informale tra i liberali moderati di Giolitti e l’Unione Elettorale Cattolica, il cosiddetto “Patto Gentiloni”, scopertamente puntava ad arginare l’impetuosa avanzata socialista e delle altre componenti della sinistra radicale e anticlericale. Il conte Gentiloni sosteneva con estremo vigore la necessità di “impedire il male e rafforzare il bene”, contro i “nemici della religione”. L’operazione fu coronata da un notevole successo, almeno quanto alla costituzione di un’ampia maggioranza dei “risorgimentali” e dei cattolici nella tornata elettorale dell’autunno del 1913, le prime elezioni a suffragio universale maschile. Fallì, invece, nella specifica finalità anti-socialista, poiché le formazioni politiche socialiste videro aumentare la propria presenza parlamentare in termini non trascurabili. Dopo decenni di astensionismo post-risorgimentale dalle elezioni e dalla stessa vita politica, dettato dal “Non expedit” di Pio IX nel 1874, e attraverso l’enciclica di Pio X nel 1904 “Il fermo proposito”, l’incidenza del voto cattolico, benché ancora privo di una forza politica organizzata, si rivelò determinante. Com’è noto – Historia magistra? Magari – la neutralizzazione della componente giacobina del Risorgimento con eroi e senza popolo, questa vittoria del clerico-moderatismo e la drammatica inadeguatezza e crisi della classe dirigente liberale avranno effetti decisivi sulle origini e l’avvento del fascismo. Di sicuro, un pessimo viatico per la stirpe dei conti Gentiloni. No, i conti non tornano, come si suol dire.
Et maintenant, ci troviamo, per caso, mutatis mutandis, in presenza della replica di quello storico “Patto”, una ‘farsa’ inscenata nell’illusione di depotenziare e svuotare il movimento delle cinque stelle? Una forza politica appestata, evidentemente, come la nausea che (sartrianamente) afferra alla gola vaste frazioni di popolo, letteralmente inebriate da “questa specie di politica”, per ricordare il maestro Totò. Vera e propria anti-politica, in realtà, se politica è, dovrebbe essere, cura della polis. Una ‘farsa’ imbastita, inoltre, e con tutta evidenza, per ricattare minacciosamente la sinistra interna ed esterna al PD, ora più che mai renitente a strategie (a dir poco) regressive di rottamazione, che la débâcle referendaria sugg
erisce a qualche cervellone, a sua insaputa in fuga da sé stesso, addirittura di intensificare, perché giudicata “finora insufficiente”.
Nihil sub sole novi, in fondo, Matteo continua a “spararle grosse”, per la felicità del suo popolo privato, se ci si concede l’ossimoro, come era solito fare a squola, uno studente promettente, se e non a caso i suoi vecchi compagni lo ricordano soprattutto per questo.
Ecce homo. Uomini non solo senza speranza, ma, purtroppo, delitto supremo, uccisori anche di quella altrui.
Ora, però, conclusa questa pur necessaria digressione, torniamo al nostro assunto. Pensare che il potere di designazione e nomina da parte del Capo dello Stato fu ritenuto dai Padri Costituenti più congruo e sicuro, proprio in ragione del pericolo che, se la scelta del Premier fosse demandata all’Assemblea – men che mai agli interessi privati in atti d’ufficio di rottamatori uscenti, naturalmente – assai difficilmente prevarrebbe l’uomo migliore, ma, più verosimilmente, colui che incontrasse minore ostilità da parte dell’Assemblea stessa, a detrimento degli interessi della nazione. Se, viceversa, l’Assemblea si trova di fronte ad una designazione fatta dal Capo dello Stato, il suo giudizio può/deve più facilmente astrarre dalla sfera emozionale o pratica delle simpatie o antipatie o interessi, cosicché più facilmente essa si asterrà da un voto di sfiducia poco meditato e, di converso, più facilmente darà la sua fiducia al migliore uomo di Stato, che tale si presuppone, per l’appunto, a seguito e con la “garanzia“ della designazione presidenziale.
E poiché il Capo dello Stato non compie la sua scelta in modo arbitrario, ma bensì soltanto dopo avere rilevato gli orientamenti dei gruppi di maggioranza, si deve pacificamente arguire che Gentiloni gli è stato esplicitamente, cioè onomasticamente, proposto, se non imposto. Da chi? Molto semplicemente dalla sola maggioranza parlamentare attualmente costituita e disponibile, sulla quale, di conseguenza, s’impernia un esecutivo non nuovo, ma lavato… Chissà con che cosa. In altre più banali parole, l’Assemblea, di fatto la precedente maggioranza di governo, o anche soltanto la leadership democratica, convergendo a priori sul nome di Gentiloni, ha compiuto un’invasione di campo, decidendo quanto esulava dalle sue prerogative, viste le incontrovertibili ragioni giuridico-costituzionali di cui sopra.
Ma non è la medesima Assemblea scaturita da una legge elettorale cassata dalla nota sentenza della Consulta, or sono esattamente tre anni? Non è quell’Assemblea delegittimata, seppure non annullata, la cui sopravvivenza è unicamente dovuta al principio di “continuità dello Stato”? Insomma, solo per capire, e con tutto il rispetto verso autorevoli giuristi, siamo proprio certi che siffatto principio di “necessaria sopravvivenza” dello Stato sancisca ipso facto, se non de iure, anche la necessità della “continuità”, vedi caso, di tale Alfano ed affini, tra imputati e condannati, biancastri e Verdini? La nazione in proiezione iperuranica, la meglio gioventù: nell’incerta prospettiva – umana, troppo umana – della giurisdizione penale.
Che non sia questa la verità subconscia di quel lapsus linguae, che non sia questa l’”accozzaglia” esecrata da un boy scout malriuscito e sconfitto nel grottesco tentativo di rottamare la Carta e rimpiazzarla surrettiziamente con un esilarante scarabocchio? Chissà, potrebbe rivelarsi un eccellente esercizio di ri-semantizzazione, se vogliamo azzardare un impronunciabile, ma pregnante, lemma tecnico. Quod demonstrandum.
Con riferimento agli odierni fattacci romani, su Repubblica l’ottimo Carlo Bonini ha opportunamente utilizzato la metafora letteraria della “casa degli spettri”. Invero, un’amministrazione locale, ancorché Capitale, può anche somigliarle, pur nell’avvilimento generale. E lo Stato?
In ambito giornalistico è stata evocata la “hybris”. A sproposito. La “hybris” tragica, infatti, riguarda le colpe passate di individui o gruppi. Non mai degli Stati. Infattamente, gli Stati debbono – dovrebbero, non è un imperativo categorico, evidentemente – osservare, a pena di auto-dissoluzione, i principi della “eunomia”. E colpire mediante la “nemesi” laica e sovrana, per l’appunto, la “hybris”. Non premiarla.
Altrimenti, “gli dei se ne vanno…”. Soltanto per Sofocle?
(20 dicembre 2016)
MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.