La crisi del populismo di sinistra e il socialismo possibile

Carlo Formenti

Pubblichiamo una sintesi dell’ultimo paragrafo del capitolo conclusivo de “Il capitale vede rosso” di Carlo Formenti, un pamphlet appena uscito per i tipi di Meltemi. Nel volume l’autore chiarisce il proprio pensiero sui temi del populismo e della sovranità nazionale, propone il concetto di “socialismo possibile” allo scopo di ridefinire un’idea di socialismo del secolo XXI emancipata dai dogmatismi della tradizione marxista e ragiona sulla possibilità di rivitalizzare il progetto socialista nei Paesi occidentali e sul blocco sociale su cui lo si potrebbe fondare.

Prendo le mosse da una considerazione: le sinistre populiste occidentali, pur avendo contribuito a riesumare la parola socialismo che il crollo del Muro e quarant’anni di controrivoluzione liberista avevano rimosso dal lessico della politica, avanzano proposte simili alle politiche socialdemocratiche del trentennio glorioso. Nel secolare dibattito su riforme e rivoluzione costoro sembrano dunque collocarsi nel campo riformista. È pur vero che il dibattito interno alla socialdemocrazia tedesca di fine 800/primo 900 su riforme e rivoluzione – oggi ripreso in ambito latinoamericano in relazione alle esperienze bolivariane – ha stemperato questa opposizione assoluta: sia Engels che Luxemburg avevano ribadito che la vera differenza è fra coloro che considerano le riforme come un fine in sé e chi le concepisce come uno strumento per preparare la rivoluzione. Resta il fatto che parliamo di programmi politici che, almeno a un primo esame, appaiono compatibili sia con il modo di produzione capitalista che con i suoi assetti istituzionali. Ma è davvero così?

La verità è che, mentre il modo di produzione fordista poteva permettersi il compromesso keynesiano fra capitale e lavoro, il capitalismo contemporaneo non intende in alcun modo rinunciare ai frutti delle vittorie ottenute dagli anni Ottanta a oggi. I progetti di ri-nazionalizzazione di settori strategici e servizi pubblici come la sanità e i trasporti avanzati da Corbyn; le proposte di Sanders di rendere l’accesso all’istruzione superiore e all’assistenza sanitaria gratuiti e accessibili a tutti, e di riattivare la separazione fra banche commerciali e banche di investimento; le battaglie di Podemos contro la trama di relazioni fra partiti di regime e imprese fondata sulla corruzione; la messa sotto accusa della Ue, in quanto strumento del dominio imperiale della Germania sulle nazioni del Sud e dell’Est Europa: queste non sono “riforme” che il sistema potrebbe sopportare: sono una minaccia alle sue stesse condizioni di sopravvivenza.

Ecco perché i partiti di centrodestra e centrosinistra, uniti nella comune devozione al liberismo, “vedono rosso”, affibbiano cioè l’etichetta di comunisti persino a formazioni come l’M5S che non hanno mai nutrito velleità antisistema; o “vedono nero”, dando la patente di neofascisti a populisti e sovranisti di destra (che però li inquietano meno perché sanno che, se conquistassero il potere, non metterebbero mai in discussione le regole del gioco imposte dal mercato).

Non è questione di propaganda elettorale: il fatto è che decenni di controrivoluzione liberista hanno trasformato a tal punto l’economia, le relazioni sociali, le modalità di funzionamento delle istituzioni pubbliche e la stessa antropologia dei Paesi occidentali, da rendere i programmi appena evocati “sovversivi”. Questo perché la loro messa in atto minerebbe le condizioni che rendono possibile l’accumulazione allargata del capitalismo finanziarizzato e globalizzato emerso alla fine del secolo scorso, un sistema costantemente impegnato a “guadagnare tempo” (Streeck, 2013) per fronteggiare una successione di crisi che ha raggiunto l’apice con quella appena innescata dalla pandemia del Covid19.

Se vuole continuare a guadagnare tempo, il capitale non può rinunciare ai risultati ottenuti grazie a decenni di una “guerra di classe dall’alto” (Gallino, 2011, 2012, 2015) guidata da una élite transnazionale fatta di detentori di grandi patrimoni mobiliari e immobiliari, top manager, finanzieri e uomini politici di tutti i maggiori partiti tradizionali, un blocco sociale che è riuscito a ridurre drasticamente i salari reali; a inasprire tempi e ritmi di lavoro; a rinsaldare la disciplina e le gerarchie nella società e nelle aziende; a demolire il welfare e i diritti sociali conquistati al prezzo di dure lotte.

Di fronte a questa situazione, che minaccia di scatenare la rabbia popolare, il buon senso sembrerebbe suggerire il ritorno a politiche economiche neokeynesiane. Il guaio è che questo capitalismo, se vuole sopravvivere – non può invertire la rotta – lo slogan che la “lady di ferro” Margaret Tatcher lanciò negli anni Settanta (TINA, there is no alternative) è più che mai attuale, nel momento in cui il processo di globalizzazione mostra la corda, ritorna il protezionismo e i conflitti fra nazioni e blocchi regionali per il controllo dei mercati si acuiscono, e la crescita della Cina, che per decenni è stata la soluzione al problema delle crisi occidentali, minaccia di trasformarsi in un incubo, a mano a mano che diviene autocentrata.

Torniamo alla tesi anticipata all’inizio di questo paragrafo: le riforme proposte da alcuni populismi di sinistra non sono un banale “ritorno” alle politiche socialdemocratiche del trentennio dorato: rappresentano una minaccia mortale per la forma di capitalismo che si è affermata negli ultimi decenni. Per imporre simili cambiamenti andare al governo non basta: occorre cambiare le strutture stesse e i meccanismi di funzionamento del potere politico e, di fronte a una simile minaccia, il sistema reagirebbe con la stessa durezza con cui in passato ha reagito ai tentativi di rivoluzione socialista.

Se questo è vero, sorgono i seguenti interrogativi: perché le sinistre radicali non sono in grado (e del resto nemmeno si propongono) di lanciare una simile sfida? Perché i movimenti populisti di sinistra, che pure sembravano avere aperto una finestra di opportunità, hanno perso slancio e annacquato le loro velleità antisistemiche? Che composizione di classe dovrebbe avere un blocco sociale capace di sostenere un simile progetto di cambiamento? Che forme politiche e istituzionali dovrebbe darsi?

Proverò ad abbozzare qualche risposta a questi interrogativi e a calarle nel contesto italiano.

Con il termine sinistra radicale mi riferisco: 1) alla galassia dei centri sociali e a movimenti come l’ecologismo e il femminismo, che possono essere definiti una sorta di residuo politico-culturale dei movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta; 2) a quanto resta dei vecchi partiti comunisti. Non rientrano nella categoria i partiti socialisti né forze come il Pd italiano e Leu (assimilabile di fatto al Pd) che, data la loro adesione ai principi e ai valori liberali, fanno parte delle élite politiche di regime.

Il primo gruppo è accomunato da un’ideologia libertaria, antistatalista e, nelle sue espressioni più estreme, antipolitica. A partire dalla fine degli anni Settanta, e in misura crescente nei vari passaggi generazionali, queste caratteristiche si sono progressivamente rafforzate, fino a configurare la rinuncia pressoché totale agli obiettivi delle lotte sociali, rimpiazzati dalle rivendicazioni dei diritti individuali e civili, con attenzione particolare ai diritti delle minoranze razziali e delle comunità
Lgbtq (Boltanski-Chiapello, 2014).

Questi soggetti hanno completamente rinunciato a lottare per la conquista del potere politico mentre tendono ad agire come gruppi di pressione in grado di limitarlo e controllarlo (Rosanvallon, 2012, 2013). Sono duramente critici nei confronti dei regimi che si definiscono comunisti e di qualsiasi idea di socialismo che metta in discussione i principi e le procedure della democrazia liberale. Condividono un’ideologia cosmopolita che non ha nulla a che fare con la tradizione internazionalista del movimento operaio. Per quanto riguarda in particolare l’ecologismo, appare paradigmatica l’evoluzione dei Verdi tedeschi, passati dalla contestazione delle responsabilità del sistema capitalista nella devastazione dell’ambiente al sostegno nei confronti di un capitalismo “ecologicamente responsabile”, dal pacifismo all’appoggio alla guerra dei Balcani. Quanto al movimento femminista: pur in presenza di correnti di minoranza che mantengono posizioni anticapitaliste, il femminismo mainstream si è progressivamente concentrato su rivendicazioni di riconoscimento identitario e di parità di genere all’interno delle regole del mercato capitalistico e delle istituzioni politiche liberal democratiche (Fraser, 2013, 2019). Tutte queste componenti manifestano un profondo disprezzo per le classi subalterne, per i “plebei” che considerano terreno di caccia delle ideologie conservatrici e di destra.

Il secondo gruppo, quello dei partiti neo comunisti, è più difficile da racchiudere in un unico schema, dal momento che la loro estrema frammentazione ha generato nel corso del tempo posizioni diverse: si va dalla sostanziale adesione alle ideologie libertarie e politicamente corrette del primo gruppo, alla riproposizione di anacronistiche posizioni dogmatiche, che li condannano a un minoritarismo senza prospettive, passando per posizioni più avanzate che appaiono tuttavia penalizzate dall’incapacità di superare le proprie divisioni organizzative.

Prima di passare alla crisi del populismo di sinistra è meglio affrontare il tema della costruzione di un nuovo blocco sociale. È evidente che tale compito si presenta assai diverso nel contesto delle società occidentali, rispetto ai contesti asiatici e latinoamericani. Se in quei casi il problema era costruire alleanze fra classi, da noi il problema prioritario è ri-costruire l’unità del proletariato. In altre parole: per noi costruire il blocco sociale significa in primo luogo ricostruire la classe lavoratrice. Sottolineo che, dal mio punto di vista, la classe non è un’entità preordinata, un “oggetto” sociale dotato di consistenza propria, bensì appunto un costrutto politico. Si potrebbe dire così: la “classe in sé” è il terreno materiale su cui si può costruire il progetto della “classe per sé” ma, in assenza di tale progetto, che è espressione dell’autonomia del politico, la classe non si eleva al di sopra del ruolo di capitale variabile. Ciò è tanto più importante in quanto lo smembramento del corpo di classe prodotto dalla rivoluzione neoliberista rende difficile anche la sua mera ricomposizione sul piano dell’interesse immediato. Il problema delle alleanze appare dunque secondario rispetto a questo compito prioritario, e andrà risolto attraverso un’accurata valutazione delle contraddizioni interne alle classi medie, separandone gli strati inferiori che più hanno subito i contraccolpi della crisi, dagli strati medioalti che restano saldamente agganciati al blocco egemone delle classi dominanti (dei quali fanno parte anche quelle “classi medie riflessive” che costituiscono la base sociale delle sinistre).

Quanto appena detto ci riconduce alle cause dell’arretramento dei movimenti populisti di sinistra. Vediamo come.

Sanders ha tentato di assemblare un fronte eterogeneo fra le classi lavoratrici e le loro organizzazioni sindacali, le minoranze etniche e le sinistre liberal progressiste, senza stabilire una gerarchia egemonica fra questi soggetti, il che implica consegnare l’egemonia nelle mani delle classi medie riflessive, con il risultato di apparire meno convincenti agli occhi delle classi subalterne. Inoltre non ha avuto il coraggio di rompere con il Partito Democratico, scelta che gli precluso la possibilità costituire una vera alternativa sistemica.

Corbyn si è lasciato condizionare dalla New Left che, facendo entrismo nel Labour, ne ha favorito la nomina a segretario del Partito – una base europeista che gli ha impedito di gestire una battaglia per imprimere all’uscita dalla Ue una connotazione di sinistra, per cui si è alienato l’appoggio di quei larghi settori di proletariato inglese che avevano votato per la Brexit.

Podemos non ha raccolto le sollecitazioni di chi (Monereo, 2020) al suo interno insisteva per costruire una vera organizzazione di partito, affondando le radici nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole, nei quartieri limitandosi a raccogliere un consenso trasversale di opinione attraverso campagne mediatiche contro la corruzione delle élite (e come Corbyn non ha osato agitare l’obiettivo dell’uscita dalla Ue).

Mélenchon ha mantenuto una posizione coerentemente antieuropeista, ma ha ceduto alle sirene del centrosinistra che chiamava al fronte unito contro la minaccia del Front National, perdendo l’occasione di recuperare il consenso delle banlieux, transitate dall’appoggio al PCF a quello al FN in odio alle politiche della “sinistra” socialista e alla sua mutazione macroniana.

In breve: in tutti questi casi si è preferito dare la precedenza alle alleanze con il ceto medio e con le sinistre progressiste piuttosto che affrontare l’ardua impresa organizzativa, ideologica e culturale di ricompattamento delle classi lavoratrici. Si è scelto, cioè, di rivolgere l’attenzione ai soggetti che si immaginava potessero garantire una vittoria elettorale, piuttosto che privilegiare il lavoro più lento e faticoso di costruire una massa critica in grado di cambiare le cose. Si è scelta una scorciatoia “governista” e “comunicazionista”, illudendosi che un discorso efficace avrebbe spalancato le porte del governo, senza porsi realmente il problema di cosa si sarebbe potuto realizzare una volta raggiungo l’obiettivo.

Dare una risposta al quarto interrogativo – che forme organizzative e istituzionali dovrebbe darsi un progetto politico di cambiamento radicale – è impresa più difficile. Non ho ricette miracolistiche da offrire. Mi sento solo di dire che servirà trovare un passaggio stretto fra la tentazione di riproporre formule anacronistiche e dogmatiche come la costruzione di un partito di rivoluzionari di professione e quella di insistere sulla via fallimentare del movimentismo spontaneista, del rifiuto a priori della forma partito e della politica istituzionale. Per riuscirci occorrerà procedere per tentativi ed errori, sperimentando diverse soluzioni. Ricostruire la classe e ricostruire un partito di classe sono compiti che vanno di conserva, che non possono non procedere strettamente intrecciati l’uno con l’altro, più che in parallelo. Il che significa, per esempio, che funzioni politiche e sindacali, pur evitando di confondere le une con le altre, non potranno essere rigidamente separate, che andranno evitati sia gli eccessi di verticalizzazione – come il rapporto diretto fra leader e masse tipico dei movimenti populisti – sia gli eccessi di orizzontalismo – come l’assemblearismo e il localismo. Il vuoto spaventoso di cultura politica creato da decenni di egemonia lib
erista, andrà colmato con un poderoso sforzo di formazione in modo che fra base e vertice si formi un robusto strato di quadri intermedi capaci di offrire alternative ai gruppi dirigenti.

Analoghi criteri valgono per definire un progetto di riforma dello stato. Posto che i programmi “riformisti” richiamati in precedenza assumono un carattere sovversivo e una coloritura socialista inaccettabile dall’attuale sistema capitalistico, e che quindi potranno realizzarsi solo in presenza di una radicale crisi non solo sociale ed economica ma anche istituzionale, è evidente che chi andasse al potere in simili circostanze avrebbe il compito di rivoltare da cima a fondo le strutture stesse dell’organizzazione statale. A questo punto si porrebbe il dilemma che attraversa l’intera storia delle rivoluzioni sociali: come evitare degenerazioni autoritarie una volta conquistato il potere? Rispondo riprendendo quanto scritto nel mio ultimo libro (Formenti, 2019): l’unico modo per neutralizzarli sarebbe la creazione di contrappesi sociali autonomi, dando vita cioè a istituzioni popolari di democrazia diretta e partecipativa che dovrebbero essere esterne a quelle della democrazia rappresentativa e agli organi statali, in modo da potersi contrapporre alle loro decisioni, che dovrebbero essere cioè in grado di esercitare il conflitto nei confronti dello stato, un diritto che andrebbe sancito costituzionalmente.

Vediamo in che misura quanto fin qui scritto si applica al nostro contesto nazionale. L’Italia non ha mai avuto una borghesia capace di esercitare dignitosamente il proprio ruolo egemonico. Ogni volta che ha dovuto fronteggiare forti pressioni da parte delle classi subalterne è stata tentata di passare dall’egemonia al dominio. È quanto ha fatto con il ventennio fascista ed è quanto sta facendo oggi, delegando alla Ue il ruolo di dominus esterno. Nei trent’anni successivi al secondo dopoguerra, in ragione del compromesso fra capitale e lavoro reso possibile dalla forza contrattuale del più grande Partito Comunista occidentale e dei sindacati, l’Italia è riuscita a collocarsi fra le maggiori potenze industriali, grazie all’intervento diretto dello stato in alcuni settori strategici. Sotto la spinta della crisi degli anni Settanta e di un prolungato ciclo di lotte operaie che ne avevano intaccato i margini di profitto e il consenso elettorale, le nostre élite sono state nuovamente tentate di ricorrere alla sovversione nera, finché il riflusso delle lotte sindacali, la “normalizzazione” del Pci susseguita al crollo del blocco socialista e l’adesione ai Trattati di Maastricht le hanno offerto la via d’uscita: demandare ai vincoli esterni imposti dalla Ue il compito di annientare la resistenza delle classi subalterne. Per ottenere questo risultato ha accettato di pagare prezzi elevati, vedendosi di fatto ridurre al ruolo di borghesia compradora al servizio del vertice franco-tedesco dell’Unione, ma soprattutto ha fatto pagare prezzi elevati al Paese in termini di deindustrializzazione, tagli ai salari e al welfare, precarizzazione del lavoro, privatizzazione dei servizi sociali, ecc.

La reazione popolare a questi disastri è stata relativamente contenuta: convertiti al liberismo i partiti della sinistra tradizionale, spentisi gli ultimi fuochi del movimento No Global, l’unica forma in cui si è espressa la rabbia dei cittadini nei confronti delle élite dominanti è stata il massiccio cambiamento degli orientamenti elettorali con l’ascesa di partiti populisti di destra come la Lega di Salvini o “atipici” come l’M5S. Per vari motivi, non credo si possa definire quest’ultimo come una variante italiana dei populismi di sinistra di cui ho parlato in precedenza, non solo perché ha sempre rifiutato questa definizione, o perché nel corso del tempo ha assunto posizioni contraddittorie riuscendo a dire tutto e il contrario di tutto nel giro di settimane: il fatto è che, pur avendo attinto sia a livello di quadri che a livello di voti tanto al bacino elettorale che alla base sociale delle sinistre, l’M5S non si è mai caratterizzato come una forza antisistema: il suo cavallo di battaglia, in continuità con i movimenti di cittadini “indignati” dalle malefatte della classe politica che si sono succedute da Tangentopoli in avanti, è sempre stato la lotta alla corruzione, l’idea che basterebbe mandare al governo persone oneste per cambiare le cose senza mettere in discussione il modo di produzione capitalistico né, tanto meno, le regole del sistema liberal democratico.

In questo contesto è evidente che, al progetto di costruzione del blocco sociale inteso come ricostruzione dell’unità delle classi lavoratrici, manca oggi un nucleo iniziale di aggregazione che possa agire da catalizzatore. Non possono svolgere tale ruolo le sinistre radicali, che hanno da noi gli stessi difetti di quelle del resto del mondo occidentale, né le formazioni post comuniste, troppo frammentate per formare massa critica, nonché prive di adeguati strumenti di analisi teorica. Quanto alle sparute formazioni della cosiddetta sinistra sovranista, scontano gli equivoci associati all’ossessiva insistenza sulla riconquista della sovranità nazionale quale obiettivo prioritario, se non esclusivo, ciò che – in assenza di una chiara opzione di appartenenza al campo socialista – le espone al rischio di lasciarsi appiattire sulle posizioni dei movimenti sovranisti di destra.

Per uscire da questa impasse, occorrere dare vita a un progetto politico che abbia ben chiari tre obiettivi strategici: 1) lottare per il reintegro della sovranità nazionale non come fine a sé stessa, bensì come strumento per riconquistare la sovranità popolare e restituire forza contrattuale e rappresentanza politica alle classi subalterne (evitando di concentrarsi sull’Italexit anche a costo di appoggiare una improbabile uscita da destra); 2) associare da subito la lotta per l’indipendenza nazionale alla lotta per il socialismo, lavorando alla costruzione di un blocco sociale che abbia al centro il lavoro produttivo di utilità sociale, piuttosto che di valore economico, ridimensioni il peso dei lavori improduttivi (mediatori, intermediari, manipolatori di informazioni, rentier, professioni deputate a riempire i buchi del vuoto esistenziale, ecc.) e non conceda troppo spazio a quei settori di classe media che hanno scarso interesse a mettere in discussione il sistema esistente; 3) ridefinire la nostra collocazione geopolitica, sganciandoci dall’abbraccio dell’imperialismo occidentale e rivolgendo attenzione prioritaria ai Brics, alle nazioni mediterranee e ai Sud del mondo.
(2 dicembre 2020)




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