La dolce morte di Karol Wojtyla
Un’attenta analisi delle condizioni di salute di Giovanni Paolo II nelle ultime settimane della sua esistenza dimostra che non gli sono state praticate alcune cure che avrebbero potuto tenerlo in vita ancora a lungo. Il vecchio papa le ha rifiutate perché le considerava troppo gravose. Per lui sta per iniziare il processo di canonizzazione, a Piergiorgio Welby sono stati rifiutati persino i funerali.
di Lina Pavanelli
mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?
Mt 7,3
Non è passato neanche un anno dalla morte di Piergiorgio Welby, ma sembra molto lontana. L’aspra polemica fra laici e rappresentanti autorevoli del potere cattolico sui diritti del malato, eutanasia e accanimento terapeutico è stata, per il momento, soppiantata dall’offensiva ancora più massiccia scatenata dalle gerarchie vaticane contro la timida proposta di legge sulle unioni civili. Ma le problematiche che aveva suscitato sono tutte attuali e irrisolte. Esse sono infatti parte costitutiva di quel pacchetto di temi in cui la Chiesa cattolica, con l’unica illuminata eccezione del cardinale Martini (1), ritiene di possedere la «verità» e di doverla imporre, se non a tutti, almeno agli italiani.
Nei giorni della vicenda ascoltavo molti dibattiti. Più di una volta mi capitò di sentire il rappresentante teocon/teodem di turno che giudicava uguali, nella sostanza, le posizioni etiche dei laici pro eutanasia e le idee dei nazisti. Le loro accuse – «falsa pietà», «perversione» o strumentalizzazione – più o meno esplicitamente chiamavano in causa direttamente i familiari e i parenti del malato. C’era qualcosa di intollerabile in queste offese che sentivo rivolte anche me, come medico e come laica.
Fu durante uno di questi che, ricordo, non so perché né con quale associazione, mi sono apparse alcune immagini precise, come inquadrature di un film, nella memoria. Si trattava di certe immagini di papa Giovanni Paolo II nelle sue ultime settimane di vita. Erano le immagini drammatiche del papa nelle sue ultime apparizioni pubbliche.
Ricordo che quando, all’epoca, apparvero in televisione accompagnate da commenti rassicuranti da parte dell’ufficio stampa vaticano, avevo percepito uno strano disagio, la sensazione di qualcosa di indistinto che interferiva con quelle «verità». Tale «dissonanza» fra informazioni visive e informazioni verbali rimase a lungo senza spiegazione, come una provocazione davanti a una mia forma di refrattarietà. Finché un giorno, alla luce della vicenda Welby quelle immagini trovarono un senso, un nuovo significato chiaro ed evidente, quanto evidente appariva ora la ragione della loro natura provocatoria: quelle immagini raccontavano come era morto papa Giovanni Paolo II.
Per rinfrescare la memoria sedetti al computer e iniziai una breve ricerca, a partire da voci come «malattia, morte, papa Wojtyla». Google mi rifornì di una quantità di notizie, note di agenzie e articoli di giornale. Trovai anche un volume recentemente pubblicato dall’allora medico personale di Wojtyla, l’archiatro pontificio dottor Renato Buzzonetti (2), in cui l’autore descrive, fra le altre cose, le cure mediche a cui il suo paziente fu sottoposto nell’ultimo periodo di vita. Lo lessi con attenzione: non aggiungeva molto a quello che già sapevo, ma tutte le informazioni collimavano sia con il contenuto delle agenzie ufficiali sia con la mia ipotesi.
Per esporre la mia idea, è opportuno ripercorre per sommi capi i principali avvenimenti di quel periodo.
Gli ultimi giorni di Giovanni Paolo II
Il Santo Padre fu ricoverato d’urgenza al policlinico Gemelli l’1 febbraio 2005 per una «laringo-tracheite acuta con laringospasmo» (3) che aveva provocato una drammatica crisi respiratoria. Rimase sotto controllo dieci giorni e poi fu dimesso. Due settimane più tardi il quadro clinico si ripresentò con maggiore gravità, per cui il paziente fu nuovamente ricoverato d’urgenza. Il giorno seguente il ricovero gli fu praticata una tracheostomia e gli fu inserita una cannula respiratoria. Ci venne spiegato che la causa di queste crisi era una «stenosi funzionale della laringe» (4). La degenza questa volta fu di circa venti giorni, e il paziente venne dimesso il 13 marzo. Nei giorni seguenti il Santo Padre fece due brevi apparizioni alla finestra del suo appartamento senza essere in grado di parlare. Il 25 marzo fu ripreso di schiena mentre seguiva dal suo studio la via crucis. Si affacciò per l’ultima volta alla finestra dell’appartamento pontificio il 30 marzo. Il giorno seguente avvenne il tracollo, apparentemente a causa di una cistite acuta, che provocò uno shock settico (5). Morì due giorni dopo.
La stenosi funzionale laringea che affliggeva il papa era una condizione non reversibile, perciò, se il problema delle vie respiratorie non fosse stato risolto, il paziente sarebbe andato incontro a crisi asfittiche sempre più frequenti e pericolose. La situazione del paziente era talmente rischiosa che il dottor Buzzonetti aveva, preventivamente, ritenuto indispensabile organizzare sotto la sua personale direzione una struttura complessa, in grado di poter assicurare il controllo permanente del suo assistito. Nel suo libro spiega di aver attivato «un’equipe vaticana multidisciplinare, composta da dieci medici rianimatori, da specialisti di cardiologia, di otorinolaringoiatria, di medicina interna, di radiologia e di patologia clinica, coadiuvati da quattro infermieri professionali» (6).
Grazie alla pronta assistenza assicurata da questa organizzazione, il Santo Padre non morì durante la crisi che lo condusse al secondo ricovero. Il pericolo corso però era stato tale che, in questa seconda occasione, fu eseguito subito l’unico atto terapeutico risolutivo della situazione patologica: il confezionamento di una via respiratoria alternativa (tracheostomia) che, vista la patologia soggiacente, non poteva che essere definitiva.
La vera minaccia alla vita del papa
Dal primo ricovero fino all’ultima crisi, tutte le comunicazioni trasmesse dal portavoce del Vaticano erano focalizzate sull’aspetto respiratorio e fonatorio, ed erano improntate all’ottimismo. C’era il chiaro intento di tranquillizzare i fedeli ispirando la fiducia in una guarigione sicura, anche se, si lasciava intuire, non rapida. In base alle informazioni disponibili riguardo alla patologia sembravano messaggi, nel complesso, credibili. Ricordo che mi capitava di ascoltare questi sereni comunicati mentre guardavo il papa affacciarsi alla finestra dell’ospedale e poi a quella del Vaticano. Qualcosa non andava: il paziente era sempre più debole e deperito.
A ripensarci oggi, mi sorprendo di non avere vagliato criticamente le informazioni. Anch’io, in una forma di pigrizia mentale, mediatica, ho lasciato che le mie percezioni si conformassero alla speranza di guarigione e alle parole ufficiali, senza confrontarle con i segni clinici che vedevo.
Ma nell’ultima drammatica apparizione del pontefice in televisione l’impatto visivo fu talmente violento che esclamai, ad alta voce: «Ma quanto è dimagrito? Non ha la forza di respirare! Lasciato così morirà in pochi giorni!».
Gli eventi successivi – l’agonia e il funerale – con la loro enormità sui media finirono col coprire il ricordo critico degli ultimi momenti e tutti questi particolari diventarono, per assimilazione, simboli, icone, metafore di martirio, Via Crucis e parabola spirituale. L’immagine che però mi restava in mente era anche una crudele, fredda, esposizione di dati evidenti. Il paziente era morto per ragioni che chiaramente non erano state menzionate.
Le immagini dicevano che, fra tutti i problemi del complesso quadro clinico del paziente, l’insufficienza respiratoria acuta non era la principale minaccia per la vita del paziente. Il papa stava morendo per un’altra conseguenza del coinvolgimento dei muscoli faringo-laringei provocata dal morbo di Parkinson, una conseguenza più lenta a manifestarsi ma che, se non trattata, è ugualmente pericolosa: l’incapacita di deglutire. Non potendo deglutire, il paziente non era in grado di alimentarsi. Sul pontefice, nell’ultimo mese di vita le conseguenze di questa menomazione erano clamorosamente visibili.
A sentire i bollettini del portavoce vaticano, questo problema non esisteva. Solo in una occasione, coincidente con il primo ricovero, il 3 febbraio 2005, Joaquín Navarro-Valls spiegava, dopo averci informato che lo stato di salute del Santo Padre migliorava, che il paziente «si alimenta regolarmente e sono da escludere alimentazioni alternative di un tipo o dell’altro» (7). Il dato singolare è l’aver fornito una simile informazione in un momento in cui le condizioni nutrizionali erano ancora discrete: ciò lascia intendere che qualcuno, nello staff medico, doveva avere posto il problema. Tuttavia, per il momento, esso non veniva affrontato e sarebbe rimasto irrisolto per sempre.
Il 13 marzo, dopo il secondo ricovero, il paziente venne dimesso e gli fu concesso di completare la convalescenza in Vaticano. Da un articolo comparso in seguito (30 marzo) sul Corriere della Sera (8), sappiamo che alcuni medici avevano proposto di iniziare la nutrizione artificiale già da quella data. Nel suo libro il dottor Buzzonetti scrive che, più o meno in quel periodo, «la lenta ripresa delle condizioni generali era resa difficile dalla deglutizione molto difficoltosa, dalla fonazione assai stentata, dal deficit nutrizionale e dalla notevole astenia» (9).
Dai fatti successivi sappiamo che non ci fu mai una «lenta ripresa». In realtà, le condizioni del paziente continuarono lentamente ma inesorabilmente a peggiorare. Non avrebbe potuto essere altrimenti: l’apporto nutrizionale era irrisorio, e probabilmente anche l’assunzione dei liquidi era insufficiente. Come posso sostenere questa affermazione con sicurezza? Non ci sono – a quanto mi risulta – informazioni ufficiali da parte del Vaticano sull’argomento. Però in una nota AdnKronos della fine di marzo si legge che il papa era dimagrito di 15 chili dall’ultimo ricovero, mentre in un articolo di Repubblica dello stesso periodo si parla una perdita di peso di 19 chili (10). Al di là dei numeri, il deperimento fisico negli ultimi giorni era evidente e impressionante.
Quel 30 marzo, quando vedemmo il Santo Padre affacciarsi per l’ultima volta alla finestra, la sua struttura muscolare debilitata dalla denutrizione, oltre che dal morbo di Parkinson, era ormai talmente debole da rendergli faticosa la respirazione anche attraverso la cannula ma soprattutto – questa è la cosa più grave – il sistema immunitario, compromesso dalla denutrizione, era ormai così depresso da non assicurargli più alcuna difesa, per cui una banale infezione è potuta diventare mortale in poche ore.
Nel pomeriggio dello stesso giorno la gravità estrema della situazione convinse finalmente i clinici ad inserire quel sondino che avrebbe dovuto essere stato già collocato da settimane. Troppo tardi.
Omissione di un atto terapeutico?
Chiarisco subito che non ho critiche da muovere nei confronti dei medici del papa, anzi, li capisco. Probabilmente nei loro panni avrei agito allo stesso modo.
Che cosa era avvenuto? Non sappiamo le ragioni per cui non si è ricorso in tempo utile all’alimentazione artificiale, ma posso immaginarle. Può non essere un’impresa facile spiegare ad un paziente anziano – in quel caso una persona importante abituata a decidere, stanco e reduce da un intervento di tracheostomia – che, oltre alla cannula per respirare che gli è stata applicata ha bisogno di subire un ulteriore atto invasivo che consiste nell’inserire manualmente un tubino nello stomaco, per poter mangiare. Quasi certamente i medici si sono attenuti scrupolosamente al loro mandato, hanno prospettato al paziente tutti i vantaggi e gli svantaggi del trattamento, ma non sono riusciti a convincerlo ad accettarlo in tempo utile. La manovra di inserimento è semplice e poco traumatizzante, soprattutto se si sceglie la via nasale, ma l’impatto psicologico può essere molto negativo. Presumibilmente il papa, per l’età e per la malattia, non aveva né appetito a sufficienza né abbastanza sete, perciò la scarsa alimentazione non lo disturbava più di tanto. Sul suo fisico però l’effetto era devastante, i medici ne erano consapevoli e avrebbero voluto porvi rimedio, ma non l’hanno fatto.
Hanno lasciato che il Santo Padre deperisse giorno per giorno, come testimoniano le immagini di quel periodo, nonostante si rendessero conto che in quelle condizioni non avrebbe potuto sopravvivere a lungo. Verosimilmente, si esaudiva così il desiderio di serenità di un paziente che, in occasione del precedente ricovero, aveva chiesto «con commovente ingenuità» se per l’intervento di tracheostomia non si poteva almeno aspettare le vacanze estive (11). Ancora più verosimilmente, i medici sapevano che quell’atto «terapeutico» sarebbe stato considerato da lui un accanimento inutile. Una violenza non solo contro la sua volontà, che forse si sarebbe piegata, ma contro tutto il suo essere e la sua dignità, la sua idea di sé. Ad un paziente non servono molte parole per dire questo al suo medico. Quando poi la conoscenza è di lunga data, come nel caso del dottor Buzzonetti e Karol Wojtyla, le parole possono diventare del tutto superflue. Ciò su cui non possiamo avere dubbi, è il fatto che non può essere stata che la volontà del paziente stesso a guidare una condotta terapeutica che, altrimenti, sembrerebbe monca e ambigua. Non si spiega altrimenti il fatto che un’equipe medica di almeno quindici persone, pronta a salvare il pontefice in qualsiasi emergenza e in caso di problemi respiratori o cardiaci, non sia intervenuta mentre il paziente moriva lentamente di inedia.
L’ultimo giorno prima del «crollo» finale il sondino nutrizionale venne applicato. È stato un atto troppo tardivo per essere di utilità al paziente, ma rivela il dramma e il conflitto vissuto dai medici.
Il dottor Buzzonetti, scrive in uno stile sobrio e distaccato ma non senz’anima. Quando ci racconta di alcuni momenti in compagnia del Santo Padre, lascia trasparire l’affetto che provava per lui. Descrivendo l’organizzazione da lui creata per l’assistenza e la sicurezza del suo paziente non nasconde il legittimo orgoglio. Quando spiega come discuteva e concordava con lui il programma dei controlli clinici e degli atti terapeutici emerge un rapporto stretto, improntato da reciproca stima e fiducia. Quando però nel libro arriva al punto dove deve riferire l’ultima azione dei medici, prima della crisi finale, lo stile cambia, l’autore «accenna» all’evento con una sola frase impersonale, come se lui fosse stato altrove e avesse incollato l’estratto di una cartella scritta da altri: «Lo stesso giorno veniva comunicato che era stata intrapresa la nutrizione entrale mediante il posizionamento permanente di un sondino naso-gastrico poiché quella per via orale era diventata impraticabile» (12). Sembra che nel testo sia stata inserita una nota di agenzia. È l’unico punto, insieme alla frase sulla «lenta ripresa», dove il medico accenna alla impossibilità di deglutire del suo paziente.
È il caso di domandarsi il perché tanta avarizia di notizie, insieme al silenzio da parte di tutti gli organi d’informazione vaticani sulla patologia che portò il papa alla morte. Impossibile dare una risposta, ma è certo che, in questo caso, la «riservatezza» ha aiutato a coprire un’evidente contraddizione tra l’esperienza umana di Karo
l Wojtyla – in qualità di paziente – e le dottrine del «bene oggettivo», da lui pubblicate, che sono la questione capitale delle crociate politiche degli organi istituzionali della Chiesa. È una contraddizione talmente evidente che sento la necessità di avviare una riflessione di tipo bioetico ma, prima di affrontarla, è opportuno analizzare nei dettagli alcuni aspetti dell’ultimo periodo di vita del pontefice.
Una morte che sembra ‘naturale’
Ripercorriamo all’indietro il decorso della malattia di Karol Wojtyla, fino al punto della prima crisi respiratoria. A questo momento della storia, costruiamo uno scenario ipotetico. Immaginiamo cosa sarebbe successo se il paziente non fosse stato rianimato con tanta tempestività, bensì con un ritardo di alcuni minuti: quel che sarebbe bastato a far sì che l’anossia danneggiasse in modo irreversibile il cervello. In tal caso, il suo cuore avrebbe ripreso a battere, ma lui non avrebbe ripreso coscienza. Sarebbe rimasto in quello stato di vita/non-vita definita stato vegetativo permanente (svp), come capita purtroppo in molti casi. Non c’è alcun dubbio che in questo caso il pontefice sarebbe stato collegato ad un respiratore, adeguatamente nutrito e idratato mediante un sondino gastrico, come è obbligatorio fare nel caso di tutti i pazienti cerebrolesi e in svp. In quell’oscuro limbo sarebbe verosimilmente rimasto per mesi o addirittura anni. Una volta che il paziente fosse stato regolarmente nutrito e idratato e senza più problemi respiratori, perfino il morbo di Parkinson, che tanto l’aveva fatto tribolare, a quel punto sarebbe divenuto ininfluente sulla sua condizione clinica. La «fine naturale», perciò, sarebbe stata spostata in avanti per un tempo indefinito. Tale esito, è importante dirlo, nel caso di Karol Wojtyla era una eventualità assolutamente possibile, che però è stata scongiurata dall’efficienza e la prontezza dell’equipe medica. Prontezza ed efficienza che, almeno sul versante dell’apporto alimentare, sono poi mancate completamente. Il succedersi temporale di queste due situazioni (pronta rianimazione seguita da mancata nutrizione), e la somma dei loro effetti (sopravvivenza prima, decadimento fisico poi), hanno determinato la dinamica che ha prodotto la modalità e il momento del decesso. La morte del papa, così come è avvenuta, non è stato un evento ineluttabile e cronologicamente determinato quanto l’espressione «fine naturale» lascerebbe intendere.
È da notare che la cura non somministrata al paziente, vale a dire la nutrizione artificiale, è precisamente quel trattamento che un documento approvato dal Comitato nazionale di bioetica nel settembre 2005, voluto dal gruppo dei bioeticisti cattolici, ha codificato come quel «sostegno di base» permanente che non si può mai negare, in nessun caso, a nessun paziente (13). Nell’intenzione dei redattori, il documento doveva valere per i pazienti in svp, ma i fondamenti ispiratori che esprime sono chiari su come va considerata questa terapia.
In ambito ecclesiastico il testo di riferimento è l’Evangelium vitae. In base all’enciclica che lui stesso aveva scritto, Karol Wojtyla avrebbe dovuto usufruire del supporto di tutti i mezzi resi disponibili dalla medicina moderna, e in particolare avrebbe dovuto accettare tempestivamente il supporto nutrizionale artificiale, poiché, superata la crisi respiratoria, la sua morte non era né «imminente» né «inevitabile» (14).
Con questo tipo di trattamento in Italia si assicurano, oggi, buone condizioni nutrizionali a migliaia di malati. Il fatto che il morbo di Parkinson, di cui il pontefice soffriva, fosse in una fase molto avanzata non significava che le riserve vitali globali del paziente fossero esaurite. Nemmeno si poteva dedurre che sarebbe morto, semplicemente dal fatto che il pontefice era anziano. Nella medicina le cose non funzionano così. Se la vecchiaia è, in senso lato, il limite naturale della vita, in realtà quasi nessuno muore semplicemente perché è vecchio. La morte è un evento che di norma è causato dal fatto che uno o più organi o apparati si ammalano, e avviene quando la loro disfunzione raggiunge un grado tale da provocare uno scompenso non più arginabile in tutto il resto dell’organismo. La «fine» per l’uomo e per gli esseri viventi, per ciò che noi medici vediamo, non è quasi mai paragonabile – come sembra ascoltando Benedetto XVI – ad una fiamma che si spegne dopo il lento consumo di una candela, è più simile al deterioramento asimmetrico degli ingranaggi di un macchinario e, in un modo o nell’altro, è disordinata, in un certo grado arbitraria, e traumatica. Ciò valeva anche per Giovanni Paolo II.
Il 24 febbraio, rispondendo ai giornalisti, il professor Gianni Pezzoli, direttore del Centro per la malattia di Parkinson di Milano, descriveva il paziente Wojtyla nei seguenti termini: « Il papa ha dimostrato di avere un fisico forte e dopo il primo soggiorno in ospedale si è ripreso molto bene. Ma in casi come il suo è normale che le crisi si ripetano, un intervento di tracheotomia potrebbe aiutarlo» (15). Riporto le parole per mostrare che da un lato il professore mette l’accento sulla gravità della patologia in certe funzioni, ma dall’altro ci informa che il fisico è «forte», lasciando intendere cioè che il cuore, i polmoni e gli altri apparati sono in buone condizioni e potrebbero assicurare al paziente una vita ancora lunga.
L’evoluzione della malattia del pontefice vista dall’esterno è apparsa «logica» perché il paziente sembrava così vecchio e debole, cosicché la morte sembrava a tutti «naturale» nel senso che nessuno l’ha trovata strana. Sul piano comunicativo perciò la vicenda di Wojtyla ha potuto soddisfare la dimensione umana, il vissuto religioso di un’agonia come dolce rassegnazione. Nei fatti però, tale apparenza è anche dolcemente falsa. La realtà delle cose è stata che, strappato alla morte per asfissia, Karol Wojtyla avrebbe potuto vivere ancora a lungo, ma questa opzione lui l’ha scartata.
Dopo la morte di Welby il nuovo papa Benedetto XVI ha ribadito con enfasi che la vita va protetta fino al suo «naturale tramonto» (16). Noi sappiamo che l’espressione naturale tramonto, pronunciata con tanta naturalezza, non corrisponde a nessuna realtà oggettivamente osservabile. È una qualità filosofica attribuita al modo soggettivo in cui qualche situazione viene vissuta, oppure si riferisce a una conclusione che al giorno d’oggi nella medicina moderna non si verifica quasi mai. A quanto pare papa Ratzinger non si è accorto che il suo predecessore non solo era stato sottratto al destino a cui l’avrebbe condotto naturalmente la malattia, ma che era stato anche accompagnato con dolcezza per un percorso meno gravoso, verso una fine meno drammatica di quella che avrebbe potuto incontrare.
La differenza
Pergiorgio Welby, ammalato di distrofia muscolare da quarant’anni, era attaccato a un respiratore da nove e, ormai capace di muovere solo i muscoli del capo, manifestava la volontà di esser staccato dalla macchina che lo teneva in vita. In che cosa esattamente differisce la sua vicenda da quella di Karol Wojtyla? Nei fatti, l’unica differenza è che all’uno è stato tolto, su sua richiesta, il sostegno tecnologico necessario a farlo respirare. All’altro, invece, per sua volontà, il sostegno non è s
tato mai fornito. Entrambi i pazienti sono morti per la mancanza di uno strumento indispensabile a tenerli in vita. Forse è opportuno precisare che i due trattamenti non sono proprio equivalenti: infatti la ventilazione meccanica non era in grado di far migliorare lo stato di salute di Welby, mentre l’alimentazione artificiale avrebbe migliorato, di molto, le condizioni fisiche del papa.
La differenza è che Welby ha chiesto pubblicamente che qualcuno intervenisse con la prospettiva esplicita di morire in conseguenza di ciò. Wojtyla non ha fatto questa dichiarazione pubblica. A questo punto è il caso di chiedersi: è veramente questa, per la morale cattolica, la differenza che «conta»? Ciò che consente di distinguere tra una condotta ispirata a princìpi morali, e una che merita di essere paragonata al nazismo? È solo questa sfumatura di comunicazione che è così importante per la Chiesa?
Per scoprirlo, o per cercare di capire cosa c’è dietro, l’unico modo è ripensare di nuovo al percorso terapeutico del defunto pontefice, vagliarlo nel modo più attento possibile, cercare i confronti con il sistema di princìpi espressi chiaramente nell’Evangelium vitae.
La morte del papa alla luce dell’enciclica Evangelium vitae
Negli ultimi due mesi di vita di Wojtlyla, dopo l’intervento di tracheostomia, la deglutizione è ormai diventata quasi impossibile, e i medici dunque sanno che il problema può essere superato solo mediante l’inserimento di un sondino nello stomaco.
Torno sul dettaglio di questa situazione per mostrare e mettere in chiaro come non sono possibili «scappatoie», nell’ambito della pratica medica, per quanto concerne la valutazione etica e le possibili decisioni che possono essere state prese. Infatti gli scenari possibili che potrebbero essersi verificati, a questo punto della storia, sono solo tre:
1) il nuovo trattamento necessario non è stato proposto al paziente. In questo caso il papa, non informato, non avrebbe «rifiutato» nulla, ma è evidente che sarebbe stato compiuto un gravissimo atto omissivo da parte dei medici, contrario alla deontologia e passibile di sanzioni anche penali;
2) il paziente è stato informato, ma non gli sono state spiegate bene la gravità della situazione e le conseguenze della scelta. Anche in questo caso saremmo di fronte ad una grave omissione: il paziente deve essere posto in grado di capire a cosa va incontro rifiutando una terapia;
3) la terza ipotesi, l’unica in realtà plausibile, è che il pontefice sia stato informato, che abbia capito, e abbia rifiutato.
L’improbabilità delle prime due ipotesi è evidente se si considera che al capezzale del malato c’erano i migliori clinici d’Italia, non un qualunque medico di campagna, e che l’inserimento di un sondino per via nasale non è per nulla rischioso. Ad ogni modo, come considerare il comportamento dei medici in queste due eventualità, alla luce della dottrina cattolica?
Per i filosofi cattolici l’eutanasia è un atto con queste caratteristiche: a) non è ammessa una distinzione etica tra un’azione che provoca la morte e un’omissione che la causa anche indirettamente; b) l’eutanasia è una sotto-categoria dell’omicidio, nella sostanza non c’è una differenza morale tra i due atti e quindi, per la condannabilità dell’atto, è irrilevante il consenso del paziente.
La professoressa Silvia Navarini, docente di Bioetica presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, dà una descrizione oggettiva di cosa può essere la «volontarietà» nell’eutanasia. Nei Quaderni di Scienza e Vita scrive: «È chiaro che non vi è differenza etica fra uccidere volontariamente e lasciar morire pur potendolo impedire» (17).
Nei casi 1) e 2) che abbiamo considerato sopra, la responsabilità del mancato trattamento sarebbe esclusivamente dei medici e l’accusa per loro sarebbe propriamente di eutanasia non consensuale, cioè di omicidio. In tal caso, se da parte loro vi fosse la mancanza dell’intenzione di procurare la morte del pontefice, ciò non ridurrebbe la gravità dell’atto perché sarebbe una difesa insostenibile a fronte della responsabilità oggettiva: essi erano perfettamente consapevoli che, privo di un’alimentazione sufficiente, il paziente non sarebbe sopravvissuto. Le omissioni nell’informare il paziente perciò costituirebbero di fatto mancanza di un atto con cui avrebbero potuto impedirne la morte.
Le due ipotesi, per quanto detto, costituirebbero un omicidio ma sono improbabili. Al punto che sarebbe meglio escluderle. In teoria esiste anche una «quarta possibilità» cioè che il paziente non fosse in grado di capire la situazione e le spiegazioni: ho escluso a priori questa ipotesi perché è contraria all’evidenza.
A questo punto resta in piedi solo la terza ipotesi: il paziente ha preso una decisione, dopo essere stato informato delle conseguenze. Analizziamo questa scelta alla luce della definizione che l’enciclica dà di «eutanasia»: «Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. “L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati”» (18).
Ora, in base ai miei criteri avrei qualche dubbio a definire atti eutanasici quelli che hanno portato alla morte di Wojtyla, perché non era presente in nessuno degli attori il desiderio di causare la morte del paziente. Ma i cattolici non hanno dubbi sui concetti di intenzionalità e di accettazione delle cure: quando il paziente rifiuta consapevolmente una terapia salva-vita, la sua azione, unita al comportamento remissivo-omissivo dei medici, deve essere considerata eutanasia, ovvero, più precisamene, suicidio assistito.
È possibile che Giovanni Paolo II, autore dell’Evangelium vitae, non abbia compreso il significato di rifiutare una cura fondamentale, così come aveva sostenuto nel suo testo? Possiamo analizzare la definizione di «accanimento terapeutico» nell’enciclica, per cercare di capire meglio: «Si considerano “accanimento terapeutico” […] certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia. In queste situazioni quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile, si può in coscienza “rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi”. […] La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte» (19) (corsivi miei).
Secondo l’enciclica dunque sono moltissimi i requisiti che si richiedono per la definizione di «accanimento terapeutico», requisiti che la situazione di Karol Wojtyla non soddisfaceva: il concetto di «imminenza» della morte inevitabile, come pure di «sproporzione» rispetto ai risultati. In più, il documento del Comitato nazionale per la bioetica – voluto e scritto dai cattolici – esprime di nuovo chiaramente che l’alimentazione tramite sondino deve essere sempre considerata una cura normale, e mai un mezzo straordinario: il trattament
o viene tassativamente escluso dalla voce «accanimento» e qualificato invece come «il sostentamento ordinario di base […] indispensabile per garantire le condizioni fisiologiche di base per vivere» (20).
Questa cura non poteva quindi, in nessun caso, essere rifiutata.
Esiste anche una Carta per gli operatori sanitari pubblicata dal Pontificio consiglio della pastorale per gli operatori sanitari, scritta quando il papa era in vita, che usa una formula diversa e alquanto ambigua: «L’alimentazione e l’idratazione, anche artificialmente amministrate, rientrano tra le cure normali, dovute sempre all’ammalato quando non risultino gravose per lui: la loro sospensione può aver il significato di vera e propria eutanasia» (21) (corsivo mio).
Contro i concetti di «bene» e «male» oggettivi a cui fa riferimento la dottrina cattolica, in questo documento compare l’espressione soggettiva «gravose per lui». Indica chiaramente la percezione individuale, il vissuto interiore e intimo del malato. Nonostante ciò il documento, sfiorando una pericolosa contraddizione, dice che la sospensione di questa «può» avere il significato di eutanasia. Già, ma quando può? Evidentemente, quando determina la morte consapevole e perciò volontaria del paziente. Cioè sempre (22).
All’interno della Chiesa cattolica c’è anche un’opinione completamente diversa: è espressa dal famoso articolo del cardinale Carlo Maria Martini, che destò l’irritazione del presidente della Cei. Qui appare una sensibilità e soprattutto un’impostazione etica con cui i documenti precedenti risultano incompatibili. Il cardinale Martini scrive la sua idea sotto forma di un contributo intellettuale che cerca di comprendere più che giudicare. Richiama la nostra attenzione proprio sul fatto che certi concetti molto amati dai movimenti «pro vita» siano suscettibili di essere usati in modo troppo semplice; osserva proprio quanto sia delicato, per esempio, stabilire se la morte è «naturale» o se un trattamento è appropriato o meno e afferma, in modo che suona eretico al Comitato nazionale di bioetica, che «non ci si può richiamare a una regola» che sia unica e di valore generalizzato, «quasi matematica». Il cardinale definisce il vissuto di ogni individuo come una «verità» incontestabile, che può essere compresa fino in fondo solo da chi la sta vivendo, e osserva che «l’accanimento» ha sempre una componente soggettiva ineliminabile. Esso si definisce sempre come le cure che sono «ritenute sproporzionate dal paziente». «Nessuna richiesta», conclude, «può essere trascurata se rivendicata da un malato terminale» (23). Il concetto che la «verità» sulla vita è determinata primariamente dalla soggettività dell’individuo, è una potente affermazione di principio, un valore che contrasta nettamente con tutti i «requisiti oggettivi» perorati e richiesti dall’Evangelium vitae.
Dal canto suo, papa Wojtyla non aveva dubbi sul fatto che il sondino per l’alimentazione sarebbe stato un atto spropositato e gravoso per lui. Il suo rifiuto si poteva vivere e interpretare come un segno della prossima fine del suo percorso terreno che lui, ammetteva, stava aspettando con ansia. Era evidentemente convinto che il suo rifiuto fosse «accettazione della condizione umana di fronte alla morte» (24). D’altro canto, era un suo diritto. La pietà dei medici («falsa» secondo l’enciclica e i vari teocon/teodem) gli ha consentito di agire in base a tale convinzione, ed egli ha potuto attendere «serenamente il momento del sollievo», di «andare dal Signore» (25).
Può darsi che Piergiorgio Welby desiderasse vivere più del papa e meno di lui «andare dal Signore». Anche lui aveva sofferto e lottato a lungo. Alla fine, non riuscendo più a restare staccato dal respiratore nemmeno pochi minuti, quando le ultime due dita della mano non rispondevano più ai suoi comandi, non aveva dubbi sul fatto che quel supporto che per anni aveva accettato ora era diventato insopportabile, troppo gravoso per lui.
Quando Welby formalizzò la sua richiesta, Giovanni Paolo II era morto da un anno. Quale risposta avrebbe dato se la domanda fosse stata rivolta a lui? L’autore dell’Evengelium Vitae avrebbe rifiutato e condannato la richiesta. Il vecchio papa tracheostomizzato però, forse, l’avrebbe capita e accolta, dal momento che lo ha fatto per se stesso. Altrimenti, certamente ci avrebbe volentieri spiegato la differenza che intercorre, sul piano morale, tra il rifiutare un sondino per essere alimentati e il rifiutare una macchina per respirare. Noi profani non siamo in grado di coglierla, ma ci deve essere e deve essere grande, se per Karol Wojtyla è stato iniziato un processo di canonizzazione, mentre a Piergiorgio Welby è stato negato il funerale cattolico.
(1) C.M. Martini, «Io Welby e la Morte», Il Sole-24Ore, 21-1-2007.
(2) R. Buzzonetti, Lasciatemi andare (La forza nella debolezza di Giovanni Paolo II), Ed. San Paolo, 2006.
(3) Ivi, p. 73.
(4) Ivi, p. 74.
(5) Ivi, p. 79.
(6) Ivi, p. 77.
(7) Navarro: «Il Papa migliora, mangia e respira meglio», www.repubblica.it.
(8) M. De Bac, «Papa, possibile un nuovo intervento», www.corriere.it.
(9) R. Buzzonetti, op. cit., p. 78
(10) «Peggiorano le condizioni del Papa. “Ha la febbre alta e calo di pressione”», www.repubblica.it.
(11) R. Buzzonetti, op. cit., p. 75.
(12) Ivi, p. 79.
(13) «L’alimentazione e l’ idratazione di pazienti in stato vegetativo persistente», testo approvato dal Comitato nazionale per la bioetica nella seduta plenaria del 30 settembre 2005, sottoscritto dai soli bioeticisti cattolici e approvato malgrado il voto contrario di tutti gli altri membri.
(14) Giovanni Paolo II, Evangelium Vitae, cap. 65.
(15) «Il papa nuovamente ricoverato. Le ore difficili», www.rassegna.it.
(16) Benedetto XVI, Angelus, 24-12-2006, www.vatican.va.
(17) C. Navarini, «Eutanasia e Accanimento terapeutico», Quaderni di Scienza e Vita, n. 1, dicembre 2006.
(18) Giovanni Paolo II, op. cit., cap. 65.
(19) Ibidem.
(20) «L’alimentazione e l’idratazione di pazienti in stato vegetativo persistente», cit., p. 2.
(21) Pontificio consiglio della pastorale per gli operatori sanitari, Carta per gli operatori sanitari, Città del Vaticano 2005, www.vatican.va.
(22) Secondo il documento sopra citato del Comitato nazionale di bioetica sottoscritto dai cattolici, al «sempre» c’è una sola eccezione, espressa testualmente: «L’unico limite obiettivamente riconoscibile al dovere etico di nutrire la persona in svp è la capacità di assimilazione dell’organismo (dunque la possibilità che l’atto raggiunga il fine proprio […]) o uno stato di intolleranza clinicamente rilevabile collegato all’alimentazione» (§ 6). In tutti gli altri casi il non fornire alimentazione equivale, eticamente, ad un atto volontario condannabile ed assimilato all’eutanasia attiva (§ 5).
(23) C.M. Martini,«Io Welby e la morte», cit.
(24) Giovanni Paolo II, op. cit., cap. 65.
(25) R. Buzzonetti, op. cit., p. 81.
(23 febbraio 2009)
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