La faida permanente di Trump, novello Epimeteo

Fabio Armao

L’uccisione da parte del governo americano del generale iraniano Soleimani negli stessi giorni in cui la Turchia e la Russia si contendono le spoglie della Libia (all’insaputa dell’Europa) non può non rafforzare la sensazione che si stia giocando una partita globale sempre più sull’orlo dell’abisso. Ciò che appare ancora indecifrabile è la logica degli eventi in corso.

Il Novecento ci aveva tragicamente assuefatti ai conflitti ideologici, alle guerre di popolo, al confronto irredimibile tra democrazia e totalitarismo comunista (quello sopravvissuto al già sconfitto totalitarismo nazifascista). L’illusione che, con la fine della Guerra fredda, si fosse entrati in un’era infine pacifica e di progresso inarrestabile della democrazia ha retto soltanto poco più di un decennio, abbattuta insieme alle Twin Towers di New York l’11 settembre 2001. E oggi non possiamo che constatare di essere entrati sì in una nuova epoca, ma regressiva; che si caratterizza per l’incapacità ormai cronica da parte dei governi, primi fra tutti quelli occidentali, di riconoscere la natura stessa delle crisi che stiamo attraversando e di trovare una soluzione adeguata alle sfide quotidiane che si trovano a dover affrontare. Gli stati sopravvivono come coprotagonisti ignari di un nuovo totalitarismo neoliberale che coinvolge gruppi pubblici e privati, di paesi sviluppati e non, che rivendicano ruoli politici o anche soltanto economici, ma finiscono per condividere una comunità di condotte e di linguaggi. Un totalitarismo che nasce dalla crescente strutturazione della rete transnazionale di oikocrazie: governi a base clanica, capaci di conciliare i peculiari intrecci di interessi politici, economici e sociali presenti a livello territoriale con le dinamiche imposte dalla globalizzazione; e in grado di affermarsi come una sorta di “regime unico” ovunque nel mondo, nei paesi democratici come in quelli autoritari[1].

Scrivendo della struttura sociale del totalitarismo all’inizio degli anni Quaranta, Sigmund Neumann osservava che «il primo obiettivo del totalitarismo è perpetuare e istituzionalizzare la rivoluzione». Lo stato di belligeranza ne rappresenta uno degli elementi definitori: «La guerra rappresenta il suo inizio, il suo requisito, la sua prova. È nel crepuscolo di un mondo in guerra che irrompono le fiamme della rivoluzione. Un costante stato di guerra costituisce la condizione naturale della dittatura totalitaria»[2]. Ho già avuto modo di osservare, anche da queste pagine, che a differenza che nel passato, però, oggi la belligeranza si manifesta soprattutto nella forma di una guerra civile globale permanente: conflitti interni agli stati, combattuti da piccole unità di “soldati” dotati di armi “leggere”, che si trasformano nella condizione quotidiana di un numero crescente di cittadini inermi, e destinati a riverberare comunque a livello internazionale.

L’azione compiuta dall’amministrazione Trump e la vendetta promessa dal regime iraniano sono la dimostrazione che a quel tipo di guerra giocata ogni giorno sulla pelle dei civili corrisponde una politica delle élite che rispecchia sempre più i criteri della faida. La faida permanente, potremmo dire, costituisce il contraltare della guerra civile globale permanente.

La faida, va detto, non può essere liquidata come uno strumento per garantire la sicurezza nelle società semplici o in quelle che ancora non hanno realizzato appieno il processo di monopolizzazione della forza. Non si tratta di un arcaismo, residuale di aree di sottosviluppo: «è più che soltanto grida e furia»[3] e «non consiste in un’inflizione arbitraria o anarchica di sanzioni tra individui»[4]. La faida possiede una propria dimensione (pre)giuridica, serve a mantenere l’ordine e rivendica persino una funzione morale – basterebbero gli esempi del codice barbaricino in Sardegna o del Kanun in Albania a ricordarcelo. La faida è violenza esercitata per riparare un torto che si ritiene di aver subìto, o preventivamente agita per impedire che venga commesso. La vittima non è più l’astratto rappresentante di una nazione o di una classe avversa; bensì colui che con la sua sola presenza costituisce una sfida alla propria identità e, ma soltanto in seconda battuta e non sempre, una minaccia alla propria incolumità. La faida, allora, può ambire ad essere strumento di governo della violenza negli spazi sottratti al controllo dello stato; e così pure può arrivare a giudicare delle violazioni della legge di un clan. Ma non può mai assurgere a strumento di relazione tra stati; tanto meno di governi che si pretendono democratici.

Dal punto di vista, poi, delle opinioni pubbliche, di noi comuni cittadini, la faida pone due problemi peculiari che, in qualche modo, “giustificano” l’inconsistenza dei dibattiti in corso: 1) rende impossibile discuterne nel merito perché le vere ragioni politiche o anche soltanto strategico-militari rimangono occulte: le cause ultime della faida sono note soltanto ai membri del clan; 2) rende impossibile anche attribuire delle chiare responsabilità: tutti gli attori coinvolti possono a buon titolo scaricarsi vicendevolmente, ad infinitum, la responsabilità di averla avviata e, oltretutto, possono dissimulare la propria vera identità. O, almeno, così era stato finora.

Un autocrate come Putin ha più volte dimostrato, da quando è al potere, di sapersi vendicare dei propri nemici reali o potenziali senza che nessuno potesse mai attribuirgli la paternità di quei delitti. Trump, invece, ha voluto rivendicare la sua vendetta, esponendo, potremmo dire, la sua “nudità” nei confronti del diritto interno e internazionale. Se si vuole, a suo modo è un innovatore nel campo delle faide, facendo seguire all’atto fisico anche quello comunicativo: il tweet come prosecuzione della faida con altri mezzi.

Da questo punto di vista riesce a distinguersi persino rispetto all’amministrazione di George W. Bush che pure – in una fase storica nella quale i termini del conflitto (e delle colpe) erano di gran lunga più evidenti, garantendo alla Presidenza americana un grado di consenso interno e di legittimazione internazionale senza precedenti – era riuscita a trasformare una “guerra giusta” (secondo i canoni dello jus belli) in una “guerra santa”, quando non addirittura in una farsa (basti ricordare il discorso del Segretario di Stato Colin Powell al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il 5 febbraio 2003, con la fialetta di antrace mostrata al mondo come presunta prova del fatto che il dittatore iracheno Saddam Hussein disponeva di armi di distruzione di massa).

Il vero e proprio cambio di paradigma delle relazioni internazionali che deriva dal ritorno alla faida come pratica di governo può trovare una perfetta rappresentazione in una metafora mitica. Il Novecento, infatti, è stato spesso identificato come il secolo di Prometeo, il titano che ama gli uomini al punto da far loro dono del fuoco rubato a Zeus, perché possano progredire verso la civiltà. Prometeo è colui che sa prevedere, che pensa prima di agire, che compie grandi imprese, anche a costo di essere punito. Non è un caso che sia stato scelto come metafora della rivoluzione industriale del Novecento, con tutte le sue implicazioni benefiche e malefiche (le due guerre mondiali).

Ma Pr
ometeo ha un fratello, Epimeteo, causa indiretta della sua cattiva sorte (avendo lui distribuito agli animali, esaurendole, le qualità che sarebbero dovute servire anche per gli esseri umani). Nel mito, Epimeteo (colui che si rende conto dopo) pensa dopo aver agito, è contrario allo spirito del diritto in quanto seguace dell’ordine naturale e pre-giuridico, in nome di un’ingenua adesione alla vita e alla terra. E accetta in dono da Zeus come propria sposa Pandora, la guardiana della speranza, colei che tutto dona.

Nel nuovo millennio, a giudicare dalle cronache, l’afflato epimeteico si sta diffondendo come un’epidemia tra le leadership occidentali, non ultima quella italiana. Ma Trump, se non altro per il ruolo che interpreta, rappresenta la più autentica incarnazione di Epimeteo e, come il titano del mito, potrebbe essere indotto dalla sua stoltezza ad aprire il vaso contenente tutti i mali dell’umanità. Possiamo soltanto augurarci che esista, nel mondo, anche una Pandora in grado di richiudere quel vaso prima che sfugga anche la speranza.

NOTE

[1] F. Armao, 2020, L’età dell’oikocrazia. Il nuovo totalitarismo globale dei clan, Meltemi, Milano.

[2] S. Neumann, 1965, Permanent Revolution. Totalitarianism in the Age of International Civil War, Praeger, New York, pp. XII e XV.

[3] J. Grutzpalk, 2002, Blood Feud and Modernity: Max Weber’s and Émile Durkheim’s Theories, in Journal of Classical Sociology, 2, 2, pp. 115-134.

[4] S. Caffrey e G. Mundy, 2001, Informal Systems of Justice: The Formation of Law within Gypsy Communities, in W. O. Weyrauch, a cura di, Gypsy Law. Romani Legal Traditions and Culture, University of California Press, Berkeley (CA), pp. 101-116.
(7 gennaio 2020)





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