La favola maravigliosa del cinema italiano
Giona A. Nazzaro
Sostenere il cinema italiano, secondo Franco Maresco, è un crimine contro l’umanità trattandosi del “cinema più brutto del mondo”. L’opinione di Maresco è tale, data anche la sua indiscutibile statura di autore tra i più importanti degli ultimi decenni (se non il più importante assieme a Marco Bellocchio e Mario Martone), che non può essere presa sottogamba come la boutade apocalittica di un regista innamorato del suo status di outsider.
Si tratta di una riflessione, tale è, che getta una luce problematica non solo sul cinema italiano, ma anche – soprattutto – sulla società e l’industria che tale cinema esprime. Stando infatti ai film italiani che riescono a raggiungere il buio delle sale italiane, non si può non avere l’impressione di una società sostanzialmente bloccata.
Una società che fa fatica a respirare, che si muove a fatica, in ogni caso ancorata a posizioni, come dire?, vecchie. Soprattutto, è il racconto che questa stessa società offre di sé, in quanto cinema, e dunque come narrazione partecipata, a essere drammaticamente fuori sintonia rispetto a un paese sempre più povero che, non nonostante l’elevato tasso di doping ottimistico-mediatico, è sempre più privo di speranza rispetto al proprio futuro.
Questo paese, sempre di più, rispetto ai film che si vedono in sala, non trova rappresentanza filmica. Ora, lungi dall’invocare un contenutismo di ritorno che non serve a niente e a nessuno, e tantomeno al cinema stesso, è innegabile che l’Italia oggi non ha un cinema che la racconta e partecipa al presente; a sua volta il cinema non ha, da moltissimi anni ormai, decenni, un paese da raccontare.
Evidente che esiste un altro cinema italiano, che purtroppo non raggiunge le sale anche se viaggia nei festival internazionali. Il punto, però, per una volta, è tentare di leggere l’immagine del paese offerta dal cinema emerso, non quello che viaggia sotto il pelo della superficie della distribuzione nazionale.
Da un lato un cinema commerciale che, nella sua pretesa di essere totalmente svincolato da quanto determina le oscillazioni del paese reale sembrerebbe, per assurdo, quasi toccare un sentire, diffusissimo, che non trova mai una rappresentazione “alta” (virgolette volute e provocatorie) che non sia satirica o grottesca.
Dall’altra, invece, il racconto di un paese che segue alla lettera un copione scritto altrove, fatto di complotti e, soprattutto, una lettura del reale veterosettantesca, già insufficiente all’epoca e che ha inevitabilmente prodotto strumenti critici inadeguati ad affrontare le sfide poi perse puntualmente dalla sinistra.
Se Le leggi del desiderio di Silvio Muccino sorprende, nella sua corteggiata inerzia formale, non è tanto nella sua quasi ammirevole adesione antropologica a un’idea di paese e di pubblico di precisione addirittura para-documentaria, quanto nel suo non essere riuscito a intercettare, in termini di numeri, proprio coloro che alle leggi del desiderio credono fermamente in mancanza di mitologie sociali più convincenti.
Muccino mette in scena davvero un mondo sognato dagli angeli, riuscendo a girare parte del suo film a Piazza Vittorio ma come depurandola delle voci che l’affollano e la rendono viva. Non per un pregiudizio politico, o peggio, ma proprio per l’incapacità di immaginare dinamiche sociali che vadano oltre un volontarismo sentimentale che inevitabilmente semplifica e cerca sempre il minimo comune denominatore.
Mutazione antropologica, questa, del “volemose bene” qualunquista che sciacquato nelle banalità new age della borghesia d’aspirazione moderata vagamente di sinistra, ha prodotto il brodo di coltura di un unanimismo autoreferenziale e narciso. Eppure. Il paese di Muccino, per assurdo, è molto vicino, anche in termini strettamente formali, al paese ideale di coloro cui il film era diretto in primo luogo e che, questo sì un fenomeno da indagare criticamente, non si sono presentati in sala nei numeri sperati per completare l’effetto rispecchiamento, attraverso non la sospensione dell’incredulità ma attraverso la conferma (data dalla loro presenza) che quello sullo schermo è il loro mondo. Quello vero. Il cerchio non si salda. Cosa che avrebbe riscattato il film e la sua esistenza. Dunque qualcosa è successo. Cosa?
Il racconto di Muccino, in sé una favola sentimentale che una volta avrebbe potuto, con tutte le differenze del caso, raccontare un Fizzarotti (sia padre che figlio), con la differenza che Fizzarotti esprimeva un cinema e un paese molto più povero di quello de Le leggi del desiderio, e che nel frattempo invece è diventato il cinema maggioritario. L’attenzione con la quale il film gioca con le modalità narrative desunte dalla televisione e dai suoi talent show, il mito del riscatto misurabile in successo e immagine, la spruzzata di comicità vernacolare e, ovviamente, il mito dell’amore salvifico, sembrano elementi di un’alchimia sin troppo complessa per toccare ingenuamente un pubblico che invece alle storie crede in maniera smaliziatamente… ingenua.
La favola di Muccino, dunque, in mancanza di un destinatario numericamente forte, rischia di sembrare una menzogna perché la ricezione non produce dialogo, ma solo un’imitazione inerte di quanto si ritiene essere gli affetti del pubblico che, interpellato, ha scelto di non rispondere, come a tutelare il suo sentire (o a renderlo più opaco ancora).
All’estremo opposto della favola mucciniana, si situa quella di Patria di Felice Farina: due volti della medesima medaglia. La medaglia di un paese bloccato nel suo darsi come racconto e, soprattutto, bloccato nella sua idea di cinema. E se sulla carta il racconto di un ritorno di fiamma operaio non può non suscitare simpatia, resta indigesta l’ambizione dell’affresco di un intero paese realizzato con i colori di una storia ripetuta all’infinito bloccata nella cornice di una prospettiva vittimistica.
Dall’alto della torre dove si rifugia l’operaio Pannofino, scorrono le immagini della prima e della seconda repubblica. Il racconto scorre senza sorprese. I cattivi son quelli. I misteri pure. I buoni brillano ancora una volta nel loro ruolo di vittime e ingannati, come se non fossero mai stati rappresentati dal più grande partito comunista occidentale. E, soprattutto, come se questo partito non avesse mai semplificato la complessità del conflitto sociale in atto all’epoca, riconducendolo tutto alle direttive interne. Dimenticando così le spinte che già all’epoca indicavano, suggerivano altre possibilità per sottrarsi all’abbraccio dell’unità nazionale a tutti i costi e, soprattutto, senza criminalizzare tutto e tutti.
Di questa amnesia, Enrico Berlinguer è diventato il santino, sottraendo così all’uomo e al politico sia le sue contraddizioni che le sue intuizioni, riducendo un pensiero a un’immaginetta jovanottiana. Amnesia e nessuna autocritica. Se non quella che si chiede sempre agli… altri. Niente è cambiato. Tanto meno al cinema. Nella Patria di Farina il sindacali
sta Citran (come non volergli bene? Chi non sogna un sindacalista così?) rievoca le storie del paese e della classe operaia come se la crisi della rappresentanza e della finanza fossero il corrispettivo della peste che tormenta la Firenze dei Taviani di Maraviglioso Boccaccio. Specchio, anche questo di precisione documentaria, di una sinistra che non ha intuito, sospettato e, soprattutto, guidato le trasformazioni del mondo del lavoro e che oggi, per continuare a esistere, lavora al mito della propria sconfitta come legittimazione di se stessa. Ho perso dunque sono (stato/a). (Se non altro, al volo, in un frammento d’archivio, s’intravede la prima pagina de il manifesto che annuncia il colpo di stato dopo il sequestro Moro, ma sembra essere più una svista…).
In questo senso la sinistra tavianea, se non altro, la prende alla lontana. Si rifugia in quel di Firenze. Riprende in mano Boccaccio e lo reinventa in una sequela di amori cortesi quasi stilnovisti. Ovvio che la capacità di inquadrare dei Taviani è fuor di discussione (evidente soprattutto nell’episodio con Scamarcio). Ovvio che l’appello fatto alla bellezza non può non toccare corde profonde. Eppure è evidente che si tratta anche di un bello che si situa fuori dalla Storia, fuori dall’agone dei conflitti che la determinano, come se il bello non fosse altro che il rifugio di quanti delusi si rifugiano al di fuori del mondo (su una torre, in una maniero…) immaginando il mondo che non è stato. Che non sarà. E non è un caso che nel Boccaccio dei Taviani la carne conti poco. Anche se nel film compare tutto l’arco costituzionale del cinema italiano, immagine di una repubblica del bello e del ricambio, che invece non tocca il paese reale. Così come, purtroppo, non tocca il cinema.
(4 marzo 2015)
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