La filosofia rivoluzionaria di Giordano Bruno
Maria Mantello
Pubblicato dalla casa editrice Sedizioni un saggio inedito di Antonello Gerbi sul filosofo. Un’opera brillante e coinvolgente, frutto del dialogo continuo dell’autore con il pensiero di Giordano Bruno, che Gerbi attraversa con la leggerezza di chi ne penetra i significati, ricostruendo il percorso della filosofia della praxis bruniana, che chiama alla liberazione da ogni soggezione.
Antonello Gerbi coltivò lo studio di Giordano Bruno fin da giovane. E sul filosofo scrisse il suo Centone Bruniano nel 1941, in Perù, dove si era rifugiato per scampare alle persecuzioni delle leggi razziali.
Oggi questo saggio esce dal cassetto, pubblicato dalla casa editrice Sedizioni col titolo che l’autore gli diede.
Un’opera brillante e coinvolgente, frutto del dialogo continuo dell’autore con il pensiero di Giordano Bruno, che Gerbi attraversa con la leggerezza di chi ne penetra i significati, ricostruendo il percorso della filosofia della praxis bruniana, che chiama alla liberazione da ogni soggezione.
Gerbi spazia tra i testi italiani di Bruno che apre su una sorta di palcoscenici dialettici con scrittori e filosofi antecedenti, coevi, successivi al Nolano, in una dinamica di interrelazioni, che sarebbe stata molto congeniale al Risvegliator di dormienti. E che per Gerbi è scelta di affabulazione filosofica per far meglio comprendere grandezza e incidenza culturale di Giordano Bruno, che è nel tempo, lo vive, lo percorre, lo travalica.
Il Centone vede la sua luce editoriale oggi, e sembra scritto oggi, grazie alla chiarezza di linguaggio che accomuna il suo autore a Bruno, di cui Gerbi non a caso rileva la dichiarazione programmatica: «parlerò per l’ordinario e per volgare» per liberare la filosofia dalla «iattura dei pedanti che hanno voluto essere filosofi».
Gerbi ci presenta un Bruno a tutto tondo: «Fermo in pugno il timone postogli dalla filosofia […] con la sua vita e con la sua morte».
Una «filosofia virile e impaziente – la definisce – tutta piena di ‘furor eroico’ per la ricerca del vero, e di ‘fastidio’ per i perditori di tempo».
Una filosofia – spiega Gerbi – che scompagina ogni tradizione e consuetudine mettendo al centro l’individualità di ogni singolo elemento. Riportando ogni più piccola cosa (minuzzaria) alla concretezza della Materia «generatrice e madre di cose naturali, anzi la natura tutta in sustanza».
La materia è il principio, la verità dell’essere-tutto, nel pluralismo delle sue infinite possibilità di esistenza. Essere-Materia-Natura. Sostanza e Struttura del Tutto. Composizione e scomposizione continua di aggregati di atomi.
Così Bruno – scrive Gerbi – liquidava le metafisiche della rivelazione che vorrebbero anche l’essere umano ingabbiato nella sottomissione a un superiore Dio, sognando il ritorno a un mitico cielo, da dove sarebbe stato scacciato e condannato al peso della «colpa primordiale», «il peccato originale».
Quel mito, da cui prende le mosse la storia del cristianesimo con le sue promesse di Grazia e Redenzione funzionali alla subalterna obbedienza, come quando «Adamo ed Eva eran nella grazia di Dio quando eran «asini», ignoranti del bene e del male». Bruno lo ribalta nel riscatto – spiega Gerbi – di «una volontà indipendente da quella divina […] felice inizio della storia, della disobbedienza a Dio come inizio dialettico del più alto destino dell’uomo».
Anche contro quei pedanti-iattura a lui coevi, che ne fanno con le loro esaltazioni della mitica età dell’oro il surrogato speculare a quello religioso nella negazione dell’autonomia dell’azione umana nella storia. Per la quale occorre «sollecitudine», «fatica», «industria». Centrali nella filosofia della praxis di Bruno che è «stimolo di progresso e suprema dignità del genere umano.
La grande polemica anticristiana di Giordano Bruno, Gerbi si guarda bene dal censurarla, e pone l’accento come proprio attraverso la sconfessione di altari di ogni tempo e luogo, Bruno veda la possibilità di nascita e sviluppo di un’umanità nuova, dove ognuno sia dio a se stesso consapevole che «l’attualità, il presente questo mondo è il vero. Il futuro, il trascendente per definizione, non è che un’ombra». E soffermandosi sui versi del poeta Luigi Tansillo che Bruno fa propri: «Lasciate l’ombre ed abbracciate il vero. Non cangiate il presente col futuro», esclama: «Formula più anticristiana non sappiamo immaginare».
Il percorso di liberazione bruniana è presentato al lettore sottolineandone la necessaria irriverenza e sconsacrazione che raggiunge nel Candelaio, la commedia di Bruno che Carducci aveva liquidato come volgare e sconcia, ma che Gerbi ingloba appieno titolo nella Nolana filosofia per l’implacabile condanna degli schemi accademici cristallizzati, la sua feroce critica dell’ipocrisia, della vanità, e soprattutto per rivendicare la centralità di quella materia vita, che qui è anche elogio della sessualità, che da isfogata libidine, Bruno eleva ad atto consapevole e responsabile di appagamento. Scrive Gerbi: «non la fame è dilettevole, e triste addirittura ‘il stato dell’insfogata libidine’; ma quel che ne appaga è passar dall’uno all’altro. il ‘peccato carnale’. Gli atti fisiologici elmentari son spiegati e redenti come ‘atti’, appunto».
Sono passaggi sintetici ed efficacissimi, stilema nel Centone, che rifugge dalla trattazione accademica per offrire al lettore ricorrenti lampi di basilari citazioni del filosofo.
L’efficacia comunicativa è davvero mirabile. Il lettore non si deve annoiare. Non si deve distrarre. Gerbi vuole coinvolgerlo nello scuotimento etico-politico a cui Bruno puntava con la sua filosofia della praxis, che rimette al centro l’individuo storico concreto con i suoi limiti e bisogni concreti, contro l’apologia della innaturale idea di supposta identità umana.
La concretezza dell’agire umano nella sua fisicità storico-biologica diventa imperativo categorico come affermerà poi Kant. E le interrelazioni tra Bruno e Kant in questo saggio non mancano.
Come quando Gerbi, evidenzia come Bruno rompa ogni sogno metafisico ricorrendo alla sua «sferzante ironia», come analogamente fa Kant contro i costruttori di castelli in aria del suo Sogni di un visionario spiegati con i sogni della Metafisica.
Se Kant era stato svegliato da Hume dal suo sonno dogmatico, per il più irrequieto Bruno basta planare sulle ali della libertà che sempre ha ricercato.
Ed eccolo trovare il suo trampolino di lancio sulla rivoluzione copernicana, ma anche nell’ampliarsi dell’universo geografico: «Le scoperte geografiche e astronomiche, che allargavano i limiti del conosciuto – scrive Gerbi – erano mere scoperte naturali, aumento fisico di cognizioni, e rovine di schemi cosmografici e cronologici, fin che Bruno non ne faceva il trampolino per la sua conquista speculativa dello spazio, pregiudiziale di ogni filosofia che voglia intendere e giustificare il molteplice senza ricorrere al Dio trascendente».
Così, la conquista dello spazi
o cosmico diventa conquista dello spazio morale: «dallo spazio uniforme, omogeneo, senza centro, che era la vera scoperta di Copernico, – prosegue Gerbi – lui deduceva un universo di materia “plastica”, creativa, irresistibile e illimitata nella sua azione» (p.39). E questo «ampliamento dei limiti spaziali sino all’annullamento speculativo dello spazio accompagna e guida l’ampliamento dei limiti etici».
Scoperte e rivoluzioni che davano molto da fare a chi aveva il cervello ingessato in discettazioni su dogmatici universali che, come efficacemente scrive Gerbi: «comprimendo e stritolando le cose e gli uomini, i casi e i volti del mondo», lo trasformava «in concetti incolori» vincolandolo a «leggi di cogente uniformità».
Contro tutto questo, Gerbi evidenzia come Bruno sia il primo ad affermare il senso e il colore della Storia che è totalità del tempo storico.
Ecco allora che il tempo diviene pater veritatis perché gli eventi non sono predeterminati in supposti misteriosi disegni provvidenziali, ma risultato della fisicità di rapporti causali che nella loro verifica oggettiva spodestano la verità assoluta per fare spazio alla veritas filia temporis, che quindi «si forma, cresce, si sviluppa, e non è data intera e completa ab initio».
E Gerbi, col suo procedere di affermazioni serrate, sottolinea questo nuovo procedere storico, dove si staglia il lampo bruniano che ne è la sintesi: «I veri antichi siamo noi».
I veri antichi siamo noi – spiega Gerbi – significa per Bruno, fare della Storia un osservatorio, distinguendo tra accumulo (tempus) e giudizio (veritatis). Insomma: «utilizzare il passato come raccolta di materiali, come oggetto e come base, e col giudizio andar oltre e più alto. Fondare il nostro giudizio sulle ‘molte e diverse verificazioni’».
È quello che oggi si chiama analisi e critica storica. Ovvero capacità di giudizio storico, che ci pone nel mezzo della Storia per conoscerla e interpretarla, come Bruno aveva ben chiaro, quando parlava di «molte e diverse verificazioni».
Ecco allora che «i veri antichi siamo noi»– scrive Gerbi – significa che nella storia ogni giorno comincia la nostra storia: «la Genesi è la nostra storia d’ogni giorno. Ad ogni attimo comincia la storia universale. Ogni mattino avviene la creazione del mondo». Un mondo dove noi siamo gli infaticabili operai di quella ricerca della verità, che per Bruno «È un nuovo lume che, dopo lunga notte, spunta all’orizzonte.» .
Ed ecco allora che Gerli “anarchico-costituzionalista”, come (con apparente ossimoro) si era definito vede nel culmine politico dell’infinito divenire bruniano la spinta a realizzare quel regno di libertà e giustizia che è in fondo la verità più pura dell’agire degli individui nella storia.
La filosofia della praxis di Bruno è approdo politico, nella consapevolezza, che se anche la vittoria al momento sembra lontana per realizzare un mondo di libertà giustizia, conta il merito individuale di combattere per essa. E quindi se anche al momento non vinci, l’importanza è essere meritevole di poterlo essere.
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