La fine delle buone maniere
Simona Argentieri
I lettori di MicroMega conoscono bene la scrittura di Pierfranco Pellizzetti: irruenta, schierata fino all’estremo nelle battaglie civili, saldamente radicata nella sua competenza di sociologo e nella passione politica. Credo dunque che -come me- resteranno sorpresi da quest’ultima opera, ampia e lieve, intessuta di grandi e piccole storie, di sentimenti contrastanti. “La fine delle buone maniere” (Aragno editore, Torino, pagine 357, euro 15,00) è un libro che fin dal titolo allude con garbata ironia a qualcosa che non c’è più. A partire dalle cosiddette ‘buone maniere’, livello forse superficiale, ma tutt’altro che fittizio delle relazioni umane, garanti un tempo delle regole del gioco dell’incontro e dello scontro tra i singoli e tra le generazioni.
Dopo aver parlato e scritto tanto di ‘noi’, dei conflitti e dei travagli collettivi che attanagliano l’Italia e i suoi governanti, senza mai peritarsi di fare nomi e farsi nemici, questa volta parla di sé, condivide le sue memorie e non ha timore di lasciarci intravedere la sua intimità. Quanto ci sia di finzione, creazione, gioco illusionistico e quanto invece di storia e cronaca è tutto sommato irrilevante. Ciò che conta è la capacità di coinvolgere, incuriosire, far sognare chi legge.
Il libro si articola in undici racconti, di assai diverso stile e atmosfera. Talvolta ironici e francamente divertenti, altri soffusi di una vena tenera di malinconia, perfino di dolente riflessione esistenziale. Divisi in due sezioni –Partenze e ritorni e Alla ricerca della città- i singoli capitoli sono di poche pagine, ma dotati di un titolo importante che offre e mantiene una promessa su quel che racconterà.
Durante questo lungo girovagare – il percorso di un vita – si incontrano personaggi affascinanti e bizzarri come il vecchio amico di famiglia, il signor Carlo, elegante e inetto alla vita, attrezzato alle “traversate atlantiche sul ponte della Queen Elisabeth, o alle crociere sul panfilo paterno Tremora, un magnifico tre alberi di ottanta metri”; ma assolutamente inadeguato a governare la propria sorte e il proprio declino.
Oppure, proprio nel primo capitolo, all’aeroporto Barajas di Madrid, in attesa del volo notturno per Bogotà, facciamo la conoscenza insieme a lui, di una espansiva ragazza colombiana, dal “petto turgido di prammatica latino-americana e una cascata di ricci”. Il caso (?) vuole che si ritrovino seduti accanto in aereo in una fila da tre -lei al finestrino, lui al centro, una sconosciuta alla sua destra- e che, per alleviare la monotonia del lungo viaggio transoceanico, la giovane si offra di prodigarsi in un trattamento di sesso orale completo. In un clima più surreale che erotico, il giovane Pellizzetti (che a quel tempo, ci tiene a sottolinearlo, era single) accetta. Poi non si rivedranno mai più.
Di tutt’altra portata le pagine in cui ci presenta i suoi genitori, non a partire dalle loro persone e dai loro caratteri, ma tramite gli oggetti inanimati di cui amavano circondarsi. Collezionisti “forse compulsivi” di oggetti di antiquariato, accanto al camino di marmo rosa esponevano preziose maioliche secentesche; pezzi d’argenteria Torretta, rigorosamente corredate dei punzoni che ne certificavano l’alto lignaggio; tutto secondo una “filosofia dell’abitare” al tempo stesso assurda e squisita. Dove sarà oggi quel Bacchino “circondato da grappoli d’uva con minuscoli acini dorati”? Pellizzetti non ce lo dice perché probabilmente non lo sa; ma ci trasmette il senso di nostalgia per quelle cose preziose e inutili, comunque perdute.
Il mio capitolo preferito è però “Fine di un mondo”, in cui racconta della famiglia materna, impregnata dei valori borghesi dell’operosità, dell’affidabilità e del decoro. La grande villa liberty dove è cresciuto, sul lungomare di corso d’Italia; lui con i genitori al piano alto, arredato in stile Adam secondo il gusto della mamma; i nonni al pianterreno, e in mezzo il “piano nobile” con mobilia Luigi XVI, dove si davano i balli e le grandi cene, “coordinate fisse di un ricevimento calendarizzato” sempre nelle stesse date previste e sempre con “tanta servitù”. Ci affacciamo poi nelle case di villeggiatura nell’entroterra appenninico o nelle cinque terre; con il glicine, le ortensie e il pandolce genovese, con il ramoscello d’alloro piantato in mezzo come un vessillo. Fino a che il suo ‘mondo di ieri’ comincia a sgretolarsi, a svanire.
La dimensione sentimentale del tempo perduto non gli impedisce però di tracciare una lucida critica economica e sociologica delle ragioni della fine di un’epoca e di una intera classe sociale. L’impresa della famiglia materna, titolare dai primi anni dell’Ottocento di licenze per armare le chiatte e in seguito i rimorchiatori, viene spazzata via dai tempi nuovi “senza che neppure si fosse provato – da parte loro – a mettere in campo la benché minima resistenza”. Incomparabile la scena di Pellizzetti ancora ragazzo, che cerca di convincere il nonno a desistere da quell’atteggiamento passivo e rinunciatario citandogli Toqueville.
È un modo di evocare e di raccontare molto personale, perché ogni capitolo può avere vita a sé, autonoma e compiuta; ma man mano che si procede attraverso le pagine si scoprono nessi, si ripensa a qualcosa di già detto e che ora assume un nuovo significato. È implicita dunque anche per il lettore una licenza a procedere in ordine sparso, saltellando tra i capitoli, ciascuno secondo il proprio capriccio o secondo l’estro del momento. Solo alla fine si comprende che c’è un sottile disegno complessivo sotterrano che tende all’unità; e che proprio chi legge è convocato a costruire e ricostruire reti di significati, a partire dalla ridondanza centrifuga dei ricordi e delle idee di Pierfranco Pellizzetti. Come se toccasse a noi rispecchiare l’autore in un ritratto finale costituito di senso. Compito che invece si rivela impossibile, perché -scrive- la sua “umana condizione”, la sua identità stessa consiste nel restare sempre “alla confluenza di questi due mondi, tra loro così distanti: la vitalità di avventurieri spesso incoscienti”, secondo la vena paterna: e “la prudenza prevedibile, ma anche rassicurante” del ramo materno: “rischio per emergere contro sicurezza da conservare […] emulsione psicologica di aspetti impossibili a fondersi tra loro”.
Tanto più che l’andamento delle narrazioni non è certo lineare. Si dipana semmai secondo cerchi non concentrici, in tempi e luoghi tra loro molto lontani; che di tanto in tanto, in modo imprevisto, si intersecano “… in sintonia con i movimenti rotatori delle sfere celesti di cui mi affanno inutilmente a comprendere il funzionamento”.
Così accade, ad esempio nell’ultimo capitolo “Oblivion, oblio”, nel quale la sua amata Genova, “città degli amori in salita”, si intreccia con la Boca del Riachuelo de los navios di Buenos Aires. Qui, sulle note immaginarie del bandoneon di Piazzolla, genovese e insieme porteño di diritto, si ferma “nella raggiunta certezza di aver consumato una vita insensata che necessariamente non lascerà traccia”. E in queste ultime pagine, che arriva a definire “nemiche” -sincere fino all’impudicizia e al tempo stesso discrete, come prevedono le buone manier
e- dichiara il suo fallimento esistenziale: “… la terribile registrazione dei danni irreparabili compiuti dallo scorrere del tempo. Rughe dell’anima prima ancora che dei corpi”.
La parola fallimento da parte di una persona quale è Pierfranco Pellizzetti arriva come una conclusione a dir poco stupefacente. Io lo conosco soprattutto attraverso i suoi altri scritti esuberanti e le sue performances pubbliche sul piano dell’impegno civile; ed ho per lui una simpatia umana ed intellettuale che si basa però su una frequentazione minima e intermittente. Mai avrei sospettato da parte sua un sentimento di fallimento. D’altronde, è anche vero che tale vissuto ‘triste, solitario y final’ è solo uno dei tantissimi, variegati, contraddittori, paradossali modi di essere e di sentire con i quali l’autore si svela durante queste quasi 400 pagine di atipica autobiografia.
Secondo lo spirito psicoanalitico, così come io lo intendo, lascio allora svolgere a lui stesso il contraddittorio finale, chiamando in causa un altro capitolo: “Il diavolo, probabilmente”, nel quale ci racconta di un tempo lontano nel quale (anche questa storia proprio non me la aspettavo) dirigeva un’officina e si era imbarcato nell’importazione di poltrone da dentista dai paesi dell’Est europeo. Non mi ha stupita, invece, apprendere che l’avventurosa impresa è finita a rotoli, con forti perdite di energie, soldi e speranze. Il punto più importante è però quello in cui si fa avanti Mister Borin, il “risolutore”, che propone un semplicissimo piano B. In sostanza una falsa vendita delle attrezzature “ai soliti polacchi” per una ipotesi di decentramento delle produzioni odontoiatriche all’Est; poi una assicurazione di un miliardo e mezzo del carico, che varrà fatto sparire in seguito con un finto furto. Infine -oplà- si passa all’incasso della polizza.
La tentazione è forte, davvero diabolica. Tutti i problemi sarebbero risolti ‘solo’ rinunciando a tutti i suoi principi. Ma Pellizzetti dice di no: “… il volo era finito … dopo dieci anni a rotta di collo portando appresso campionature tra la Carinzia e Atene, Budapest e Utrecht, Miami e Chicago …”. Non resta che passare a un’altra impresa, possibilmente meno assurda; tanto più che nel frattempo sono nate due bellissime bambine.
Che bel modo di fallire.
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