La “fronda” fascista di Scalfari nel riscontro dei fatti
Dario Borso
“‘Vattene e non farti vedere mai più’… Aveva ragione Scorza: io non ero più un fascista”. Eugenio Scalfari sostiene d’essere stato espulso dal Partito Fascista nel gennaio 1943 per un articolo scritto sul settimanale universitario “Roma Fascista”. Ma, carte alla mano, la sua versione non trova riscontri, anzi.
Da un anno circa mi occupo del giovane Calvino, e un posto di rilievo ha avuto nella mia ricerca la corrispondenza sua col compagno di liceo Eugenio Scalfari, pubblicata finora solo per la parte riguardante Italo. Essenziale ovviamente sarebbe esaminare le lettere di entrambi i corrispondenti, e perciò ho scritto alla vedova Esther Singer (prioritaria) e alla figlia Giovanna Calvino (raccomandata) perché rendano accessibili al pubblico quelle di Scalfari, una volta che costui aveva declinato il mio invito a pubblicarle.
Nel frattempo, valutando le testimonianze dello stesso Scalfari, vi ho individuato diverse incongruenze, logiche ed empiriche, tutte però almeno in teoria imputabili a lapsus mnemonici.
Questa che riporto invece no, e dà a pensare: la historia del secondo dopoguerra consegnataci dai contemporanei è la roccia su cui si è costruita la nostra repubblica o la sabbia su cui essa sta franando? Penso qui specialmente alla vulgata dei giornalisti, di quanti cioè formano l’opinione pubblica che a suo turno dovrebbe essere il collante di una società sana.
Mi fermo, e lascio cantare le carte. Intervistato da Buttafuoco sul Foglio del 7 giugno 2008, Scalfari premise: “I miei ricordi io non li accomodo, e dunque: nella memoria di quello che fu il gennaio del 1943, l’anno della mia espulsione dal partito, c’è il fascismo in mano ai giovanissimi […], così in mano che io, appena diciottenne, potevo ingaggiare una virulenta polemica non con qualche sbarbatello, ma direttamente con il ras Roberto Farinacci […] Io scrivevo su Roma Fascista, il direttore era Ugo Indrio, e il caporedattore invece era Regdo Scodro”.
Qui la testimonianza è veridica: il 10 dicembre 1942 Scalfari, redattore del settimanale gufino (20.000 copie distribuite gratis a spese del Minculpop che pagava pure gli sbarbatelli), pubblicò in prima pagina L’ora del partito. Clima nuovo, un articolo irrispettoso dei vecchi leader squadristi dov’era spinta all’estremo la tesi del ricambio generazionale; giorni dopo Farinacci reagì da par suo scrivendo una lettera aperta alla redazione.
De Felice in Mussolini l’alleato (Einaudi 1990) ha giudicato l’intemperanza di Scalfari espressione di quel “nuovo fascismo” giovanile che, appellandosi alle origini e propugnando la prevalenza sullo stato di un partito ristretto a élite totalitaria, si avvicinava assai al modello nazista, e in nota ha riportato un biglietto dell’11 gennaio ’43 in cui il segretario nazionale del Pnf Vidussoni avvisava il duce sia dell’articolo sia della risposta del ras. Siccome Benito temeva più le manovre del cremonese che le scalmane del sanremese, bloccò la pubblicazione della lettera aperta e mise tutto a tacere (ci mancava altro: gli alpini erano in ritirata dalla Russia, l’Africa ormai perduta, le bombe alleate sulle città d’Italia…).
Il fulcro della testimonianza di Scalfari riguarda però un altro episodio occorso a metà gennaio 1943, in “un breve periodo – saranno state due settimane – che in assenza dei due capi il giornale si faceva lo stesso, senza filtro professionale. E fu proprio in quell’intervallo d’anarchia che io, in prima pagina, piazzai due o tre neretti non firmati e perciò riconducibili all’orientamento della testata. Era la stagione del nascente quartiere dell’Eur, quella. La nazione intera attendeva ai preparativi per l’Esposizione, gli interessi sull’edificazione dell’intera area erano alti […]. Io nei miei pezzi attaccavo i profittatori, accusavo i gerarchi e i loro prestanomi di fare sui movimenti d’acquisto ‘affari non chiari’. Fu questo ciò che scrissi in quei neretti, senza però fare nomi e cognomi […]. Passò qualche giorno e dopo arrivò una telefonata a casa: ‘Il fascista Eugenio Scalfari deve presentarsi domani, alle dieci, a palazzo Littorio, in divisa’.[…] Quando arrivo nell’anticamera c’è Indrio [† 1992] che è già stato ricevuto. Mi viene incontro e mi sussurra: ‘C’è tempesta’. Emozionato, vengo introdotto nella stanza di Scorza [vicesegr. naz. Pnf …] stava leggendo, manovrando di matita rossa e blu con le sue larghe mani da squadrista. Sono i miei neretti pubblicati su Roma Fascista quelle carte. Scorza sventaglia i fogli sotto il naso e mi chiede: ‘Li hai scritti tu, camerata?’. Quindi si leva dalla scrivania e mi viene di fronte: ‘Camerata, dammi i nomi di questi mascalzoni che lucrano sul lavoro dell’Italia proletaria e io li farò arrestare!’. Io non ho nomi da dargli, […] Scorza comincia a urlare: ‘Sei un irresponsabile! Un calunniatore’. A un certo punto si ferma […], mi strappa le mostrine e mi congeda: ‘Vattene e non farti vedere mai più’. Stupefatto che si espellesse un fascista esco da palazzo Littorio e torno a casa, preda di una crisi fortissima […]. Forse non ero fascista. Mi costò tanto sforzo venirne fuori, […] ecco perché ne ho ricavato una sorta di vaccino contro una malattia epidemica. Io sono come gli animali che avvertono i terremoti quando stanno per arrivare, io fiuto il fascismo quando sta per formarsi, ed essendo io una persona che ha sempre faticato nel conquistare un’autonomia non potevo consentirmi di sfuggire a me stesso. Aveva ragione Scorza: io non ero più un fascista”.
L’unico numero di Roma fascista senza articoli di Indrio e Scodro è quello del 21 gennaio ’43; né in prima pagina né nelle altre pagine di questo numero risultano neretti; in nessun numero di gennaio come dei mesi precedenti e seguenti c’è un minimo accenno ai lavori dell’Eur (tantomeno ai profittatori), per il motivo che essi erano fermi da un anno, e nessuno intendeva né poteva proseguirli, visti i rovesci militari.
Che poi Scalfari, qualora espulso in gennaio, scrivesse sul mussolinissimo Nuovo Occidente fino al 19 giugno e su Roma fascista fino al 23 giugno ’43, è fuori da ogni logica; e che infine lo tollerasse Scorza stesso, divenuto segretario nazionale del Pnf in aprile, è fuori da ogni grazia di dio.
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Milano, 17 febbraio 2018
Gentili Esther e Giovanna,
vi scrivo in seguito alla comparsa il 27 ottobre scorso del mio articolo
http://temi.repubblica.it/micromega-online/eugenio-scalfari-e-il-vivaio-giovanile-fascista/. Da un lato, nella stampa e in rete si è assistito a un’ondata di simpatia per Calvino, come uomo e autore (enorme la stima registrata: quasi 3.000 like e oltre 200.000 visitatori solo su Micromega), dall’altro Scalfari è stato bersagliato di critiche.
Credo che l’unico modo per sottrarre la questione a un presente irto di polemiche sia di riconsegnarla alla storia e al lavoro degli storici. A questo proposito, il punto dolente è la pubblicazione solo parziale della corrispondenza tra i due giovani amici, rimanendo tuttora inaccessibili le lettere di
Scalfari a Calvino. Dalla carta stampata ho però desunto due notizie che fanno ben sperare in un superamento dell’impasse:
– Sulla Repubblica del 7 agosto 2004 la signora Esther ebbe a dichiarare: “Non subito, ma neanche tanto tardi, grazie a una donazione che ho fatto, saranno accessibili gli scritti che permetteranno di sapere quasi tutto di Calvino”.
– Sull’Espresso del 15 settembre 2015 Scalfari, ricordando la richiesta da lui fatta nel 1989 a Esther di pubblicare alcune lettere del marito, ha dichiarato: “Prima disse no. Poi acconsentì, a patto di sceglierne lei due. Le più sciocche. Le ritelefonai dicendo che ero interessato a una terza. ‘No, quella no. Voglio fare io una pubblicazione’. ‘Sì, ma delle mie dovrò darti io il consenso: dobbiamo venire a un accordo’. Disse sì».
Da qui si deduce che Scalfari in cambio del permesso datogli da Esther di pubblicare alcune lettere di Calvino, dette il permesso a Esther di pubblicare le lettere sue all’amico, mentre la dichiarazione fatta da Esther tredici anni fa rivela che la pubblicazione della parte mancante della corrispondenza rientra a pieno titolo tra i suoi desiderata.
Semplicemente, vi chiedo di dare corso alla pubblicazione nella forma che riterrete più opportuna, e fiducioso vi ringrazio sin d’ora dell’attenzione.
Dario Borso
(28 marzo 2018)
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