La giovane indifferenza e il dovere di credere nel cambiamento
L’indifferenza è già di per sé una delle più nocive malattie morali di cui il nostro animo possa essere affetto; diventa micidiale quando la si riscontra nella mia generazione, nei giovani. Quando colpisce chi avrà la responsabilità un giorno, nemmeno tanto lontano, di cambiare questo Paese, lasciatoci in eredità da generazioni che evidentemente non hanno saputo offrirci di meglio. E non mi nascondo dall’accusarle e dall’attribuirle le loro colpe: hanno fallito.
Come hanno fallito, con responsabilità maggiori, gli intellettuali/giornalisti/editorialisti e tutti coloro che avrebbero dovuto essere una guida, dei consiglieri, dei lumi per il popolo, e che invece non hanno rispettato la loro deontologia professionale, vendendosi, mascherando la verità e obnubilando le nostre menti; nel nostro passato altri lo fecero prima di loro, portandoci alla guerra e al fascismo: Piero Gobetti, una delle più illuminate menti del nostro ‘900, non esitò a definirli “una vile razza bastarda”.
Ripropongo con tutta la sua enfasi questo giudizio, ma non solo. Piero parlò di due caratteristiche che ogni persona deve far proprie e diffondere: la dignità e l’intransigenza. Dignità come supremo valore, intransigenza nel rispettarlo e pretenderlo. Ed è proprio da qui che deve cominciare la nostra ricostruzione: intransigenza nel non accettare e dignità nel non subire passivamente determinati contesti e scelte politiche.
Per questo è necessaria la nostra più profonda ed attiva partecipazione alla vita politica e sociale della nostra comunità e alle iniziative che vengono propugnate dai vari movimenti delle nostre città, dalle manifestazioni e assemblee di piazza al volontariato. Il nostro imperativo categorico è quello di diffondere, come Gobetti avrebbe desiderato, valori costruttivi per il nostro bene comune e, nello stesso momento, isolare coloro che li vogliono distruggere e, come detto prima, mascherare.
E’ indubbio affermare che questo lavoro di rigenerazione è da concretizzarsi subito. Non possiamo più permetterci una vita basata solo sul nostro “io”, perché facciamo parte di una collettività che ha bisogno più che in qualsiasi altro momento del nostro contributo: l’individualismo ha da sempre caratterizzato il nostro popolo, molti studiosi italiani, da Mazzini a Turiello, hanno cercato di capirne le cause. Ora è arrivato il momento di pensare ad un “noi”. Democrazia è partecipazione; un popolo stagnante e inerte ne è la degenerazione. Non possiamo più permetterci di pensare che le iniziative di protesta dei nostri compagni liceali ed universitari siano inutili, che non servano a nulla; sono accuse vecchie e soprattutto non costruttive. La democrazia ha bisogno di voce, di protesta, di dissensi, e se “i rappresentanti del popolo” (o meglio dire impiegati dei partiti) non vogliono sentire e infangano gli ideali portanti di queste iniziative, allora bisogna alzare la voce: mai arrendersi, mai rassegnarsi. Rassegnazione e denigrazione sono sintomi d’indifferenza. Siamo protagonisti, non inutili spettatori.
Non possiamo più permetterci di pensare che il voto sia l’unico nostro contributo alla vita politico-sociale: è l’ultimo atto di un percorso di presa di coscienza, che non si forma né davanti alla televisione, talvolta né davanti ai giornali: il voto bisogna respirarlo insieme alla comunità. Non possiamo più permetterci di pensare che la politica non sia una cosa che ci riguarda: per anni abbiamo formulato questo pensiero, perché stanchi o non interessati. Dobbiamo comprendere che la politica e i politici non si stancano mai di pensare o al nostro bene, come dovrebbe essere, o ai loro interessi personali, come è. E le conseguenze ricadono comunque su di noi, a prescindere dalla nostra stanchezza o dal nostro disinteresse.
Svegliamoci. Non possiamo più permetterci di pensare che l’unico modo per sopravvivere sia andarsene dal nostro Paese: i patrioti della Resistenza sarebbero così morti invano, insieme ai valori che cercarono di trasmettere donandoci la libertà; la Costituzione della nostra Repubblica sarebbe stata così inutilmente scritta, le speranze dei nostri padri così ignobilmente distrutti, le parole di Calamandrei ed Antonicelli così tristemente inascoltate.
Cominciamo a comprendere che rappresentiamo il cambiamento in virtù del quale non possiamo più permetterci di non pensare. Dopo aver letto queste poche righe potreste reputarmi un’utopista; può darsi, anzi forse è proprio così, ma non voglio smettere di credere nel cambiamento e nella mia generazione. Norberto Bobbio avrebbe detto: “Se l’ideale è la tramutazione, non tramuto nulla se non comincio a mutare me stesso. L’utopia comincia domani, e può anche non cominciare mai; la tramutazione comincia oggi e non ha mai fine”.
Luca Minici
(18 gennaio 2012)
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