La giustizia sociale quale prezzo da pagare per la sconfitta di Trump?
Elisabetta Grande
Salvo colpi di scena dell’ultimo minuto da parte di un incumbent che non pare voler accettare il risultato, Joe Biden e la sua vice Kamala Harris, la prima donna – anche nera – a ricoprire una tale carica nella storia degli Stati Uniti d’America, hanno vinto una sfida elettorale davvero all’ultimo voto. Se Joe Biden è diventato presidente con il più alto numero di voti popolari nella storia statunitense, anche Trump ha però ottenuto un notevolissimo consenso, guadagnando molti più voti di quelli che gli avevano permesso di vincere nel 2016. Per quanto Biden e Harris abbiano surclassato per oltre quattro milioni di voti popolari i loro avversari, il margine di scarto in moltissimi Stati chiave è stato di strettissima misura e questo è un campanello d’allarme che non credo si possa trascurare.
Ciò non soltanto per le conseguenze in termini di richiesta di nuovo conteggio dei voti cui in molti Stati ciò darà luogo – in quanto al di sotto di una certa soglia di scarto è previsto il riconteggio, automatico oppure a richiesta dei candidati – e quindi per il protrarsi della provvisorietà del risultato elettorale per circa un mese. Il dato è interessante soprattutto perché ci dice quanto, nonostante la drammatica recessione in corso e la pessima gestione della pandemia, Donald Trump sia andato vicinissimo alla vittoria. In una situazione analoga Herbert Clark Hoover perse nel 1932 con uno scarto enorme, in termini tanto di voto popolare (quasi il 18% in meno) che di seggi nel collegio elettorale (quasi l’80 % in meno), rispetto allo sfidante Franklin Delano Roosevelt. Come Donald Trump, Hoover ricoprì solo un mandato perché la crisi economica aveva spostato la massa del consenso popolare verso il partito opposto a quello al governo, nella speranza che il nuovo potesse far meglio del vecchio. Per quanto anche oggi Trump abbia perso, non si è assistito ad uno spostamento altrettanto massiccio di voti verso il partito democratico e forse è il caso di domandarsi il perché.
Ovviamente l’establishment del partito dà la colpa alla sinistra, accusandola di non averne appoggiato a dovere le scelte, ma a chi scrive la spiegazione sembra risiedere nella ragione opposta: ossia nella incapacità del partito democratico di coinvolgere e rappresentare la propria storica base sociale. Appoggiato dai big donors, in particolare dai giganti della big tech – da Google a Facebook, da Apple a Twitter, ormai divenuti ostili a Donald Trump, il cui l’Attorney General William Barr ha perfino osato intentare una causa contro Google per abuso di posizione dominante – che ne hanno lautamente finanziato la campagna (solo il cofondatore di Facebook, Dustin Moskovitz, ha donato più di 20 milioni a Future Forward, uno dei super Pacs democratici),
Joe Biden non ha in nessun modo tenuto in considerazione le esigenze di chi oggi ha più che mai bisogno di aiuto economico. Mentre Nancy Pelosi – indifferente alle necessità dei tantissimi deboli che finiscono ogni giorno sul lastrico, che non hanno più da mangiare (un newyorkese su quattro) o che subiscono sfratti che li catapultano su strade ormai affollate da senza tetto – per pura strategia politica non si accordava con Trump al fine di offrire agli americani impoveriti dalla crisi un po’ di sollievo con un nuovo stimulus bill, Joe Biden faceva alleanze con i repubblicani (dal clan dei Bush a quello dei McCain) per attirare i voti della base politica dell’avversario.
“Per ogni voto democratico che perderemo ne guadagneremo due repubblicani” diceva Chuck Schumer, leader della minoranza democratica al Senato, ai tempi della campagna di Hillary Clinton. Allora i Dem persero, oggi invece nel riprovarci hanno vinto, al prezzo tuttavia di dichiarare apertamente e definitivamente morto ogni anelito di cambiamento a favore di una maggiore giustizia sociale.
“No justice, no peace” hanno gridato 26 milioni di persone per le strade in questi mesi, nella speranza di ottenere un’inversione di rotta rispetto a un sistema che da quarant’anni a questa parte, indipendentemente dal partito al governo, permette all’un per cento di depredare la stragrande maggioranza della popolazione, soprattutto se nera, provocandone il progressivo impoverimento.
Difficile credere che una simile richiesta sarà fatta propria da chi, come Joe Biden, si presenta quale presidente bipartisan. I poteri forti continueranno a determinare le sorti di un paese, le cui elezioni – da Obama in poi (che per primo nel 2008 aveva rifiutato il finanziamento pubblico per sfondare in campagna elettorale il tetto di spesa che altrimenti gli sarebbe stato imposto) e soprattutto da Citizen United in poi (la nota pronuncia della corte Suprema del 2010 che ha aperto le porte ai finanziamenti illimitati delle campagne elettorali da parte delle corporation) – sono ostaggio del danaro.
La gioia per la sconfitta di chi, puntando su una pericolosissima strategia di conflitto e divisione fra le persone, per quattro anni con genio diabolico ha – come nessuno mai – messo in evidenza le contraddizioni del sistema statunitense fino quasi a farlo esplodere, non può far apparire come oro ciò che non lo è. Il prezzo pagato potrebbe, infatti, essere talmente alto da trasformare velocemente il gusto dolce della vittoria in quello amaro del dispiacere di dover constatare la mutazione definitiva di un partito che sembra aver dimenticato per sempre che cosa significa prendere posizione a favore di chi non ha.
(9 novembre 2020)
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