La guerra fra metropoli e periferie. La Francia, i gilet gialli e la crisi della sinistra
Carlo Formenti
Fra le tesi che ho sostenuto ne “La variante populista” – e rilanciato nel mio nuovo libro, “il socialismo è morto. Viva il socialismo” (Meltemi) – ve n’è una che ha suscitato critiche particolarmente aspre: mi riferisco all’affermazione secondo cui il conflitto di classe, nell’attuale fase di sviluppo capitalistico, si manifesta soprattutto come antagonismo fra flussi e luoghi. L’idea di fondo è che il capitalismo globalizzato e finanziarizzato – fatto di flussi sempre più veloci di merci, servizi, capitali e persone che ignorano i confini politici e geografici – opprime e sfrutta i territori – laddove resta confinata la stragrande maggioranza dell’umanità che non gode delle chance di mobilità fisica e sociale riservate alle élite – dai quali estrae risorse senza restituire nulla in cambio.
Constato ora che questa tesi trova conforto nei lavori di un geografo francese, Christophe Guilluy, di cui ho recentemente letto due importanti lavori: “La France périphérique” e “No society. La fin de la classe moyenne occidentale” (entrambi pubblicati da Flammarion). Queste due opere, segnalatemi da un amico di Podemos, aiutano più di tutte le idiozie proferite da media, politici ed “esperti” a comprendere il fenomeno dei gilet gialli (ma anche il voto americano per Trump, l’esito del referendum inglese sulla Brexit e il trionfo elettorale dei “populisti” italiani). Nelle pagine seguenti descriverò sinteticamente le argomentazioni dell’autore, riservandomi di commentarle nelle righe conclusive.
In primo luogo, Guilluy critica la rappresentazione dei conflitti che da qualche anno dilaniano le maggiori società occidentali in termini di antagonismo fra popolo ed élite, alto e basso, super ricchi e gente comune (l’1% contro il 99%, secondo lo slogan lanciato da Occupy Wall Street e ampiamente ripreso da populismi di destra e di sinistra). Se le cose stessero davvero così, argomenta Guilluy, le élite sarebbero già state spazzate via, la verità è che, se sono ancora al potere, non è solo perché possono contare sulla loro tradizionale egemonia culturale, ma perché i loro interessi coincidono con quelli di un buon terzo della popolazione. Per decodificare la composizione sociale di questi due blocchi che si fronteggiano, sostiene Guilluy, occorre abbandonare il riferimento esclusivo ai differenziali di reddito per affiancargli una chiave di lettura squisitamente geografica: oggi la contraddizione principale – volendo usare una categoria maoista – è quella fra metropoli e periferie. Nel caso francese, lo spazio metropolitano cui si riferisce Guilluy non è solo Parigi – l’orgogliosa capitale che attira l’ira dei gilet gialli – ma è costituito dalle 25 aree urbane più popolate (dai tre/quattrocentomila abitanti in su) in cui si concentra il 40% della popolazione. Tutto il resto – le città più modeste, la rete delle piccole città, le cerchie periurbane, le zone rurali – rappresenta la Francia periferica, che ospita il 60% della popolazione.
Vediamo ora perché, secondo Guilluy, questi due mondi appaiono disconnessi e contrapposti, al punto che la loro somma “non fa più società”. Le metropoli generano i due terzi del Pil e, contrariamente a quanto cerca di far credere una élite politica, accademica e mediatica interessata ad accreditare il mito della resilienza di una classe media in crisi ma pur sempre maggioritaria, la loro spina dorsale non è più costituita da strati sociali tradizionali, bensì da una neo borghesia emergente (dal 1982 al 2010, nello spazio metropolitano i quadri superiori sono passati dal 7,6% al 15,89% della popolazione attiva e quelli intermedi sono aumentati dal 19% al 23%). Le metropoli si sono trasformate in vetrine della “mondializzazione felice”, mettono in scena una società aperta, deterritorializzata dove la mobilità di merci, capitali e persone è fonte di lavoro e ricchezza. Le chance di mobilità sociale e di reddito si concentrano in questi spazi in ragione del loro superiore tasso di integrazione nell’economia mondiale (e ciò, annota Guilluy, vale anche – almeno in parte – per le masse dei lavoratori immigrati che abitano le banlieue, i quali vivono erogando servizi per la neoborghesia emergente).
Viceversa gli spazi periferici campano soprattutto di pubblico impiego e attività tradizionali, ed essendo meno terziarizzati di quelli metropolitani, sono assai più esposti alla disoccupazione e alla sotto occupazione, al punto che le chance di mobilità sociale registrano ormai differenziali geografici del 100%. Perché allora tutta questa gente non si sposta in massa nelle metropoli? Tale domanda è assimilabile alla famigerata battuta di Maria Antonietta che, quando le dissero che il popolo non aveva pane, rispose che mangino brioche. La sedentarietà delle popolazioni periferiche, infatti, non è frutto di libera scelta bensì una soluzione obbligata, dal momento che il processo di gentrificazione degli spazi metropolitani provoca il continuo aumento dei prezzi immobiliari, consentendo alle classi emergenti di appropriarsi del parco alloggi un tempo riservato a operai e impiegati. A peggiorare la situazione contribuisce l’aumento dei differenziali di investimento sui servizi (fenomeno che in Italia conosciamo assai bene: tutte le risorse vanno all’alta velocità, mentre i treni dei pendolari vengono lasciati sprofondare nel caos). Infine le metropoli attirano i migliori studenti delle periferie (perlopiù rampolli di strati sociali medioalti) mentre i figli delle classi popolari accedono sempre meno all’istruzione superiore.
Tale Guilluy offre una rappresentazione geografica, una “mappa”, degli antagonismi che Piketty descrive con categorie economiche e, al tempo stesso, aggiunge nuovi elementi di comprensione delle cause del continuo aumento delle disuguaglianze. Ad accelerare l’evoluzione in tal senso hanno validamente contribuito i partiti tradizionali, in particolare quelle sinistre che non si occupano più degli interessi delle classi popolari. La nuova sinistra incarna lo spirito della neoborghesia di cui sopra, fondato sulla metafora del movimento e del progresso, una classe che articola diritti dell’uomo e mercato (ma non i diritti sociali), che pratica un multiculturalismo e un antirazzismo venati di ipocrisia (nella misura in cui vengono esibiti da persone che vivono in condizioni di radicale separatismo territoriale rispetto alle comunità migranti). L’unica “questione sociale” a ottenere riconoscimento è quella delle banlieue, ma in tal modo si svia l’attenzione da tutti gli altri territori marginali, annota Guilluy, il quale aggiunge: a diffondere queste ideologie contribuiscono i giovani di estrema sinistra che condividono valori libertari e approvano il processo di mondializzazione.
La sordità nei confronti del risentimento delle maggioranze periferiche esposte a questo tipo di marginalizzazione è causa della rovina della vecchia politica, assediata dallo tsunami populista. Ma ciò che chiamiamo populismo, osserva Guilluy, non è il vero problema: non sono i vari Trump, Marine Le Pen, Mélenchon ad avere “manipolato” la vecchia classe operaia colpita dai processi di deindustrializzazione, è piuttosto quest’ultima che ha “usato” quelle forze per contrastare le politiche neoliberiste. Di più: l’antagonista del sistema non è tanto e solo la classe operaia, quanto un blocco sociale fatto di categorie fino a ieri contrapposte (giovani, lavoratori, pensionati, operai, impiegati, lavoratori autonomi, piccoli imprenditori, artigiani) che rappresentano ormai un continuum socioculturale cementato dalla comune percezione degli effetti negativi della mondializzazione più che da una qualche forma di coscienza di classe. È gente che chiede di preservare il bene comune e i servizi pubblici, che si ribella contro chi vuole la deregulation e la denazionalizzazione rivendicando la difesa del quadro nazionale, che oppone il valore del capitale culturale locale al mito dell’ipermobilità. Insomma: sovranismo, difesa dei servizi pubblici, rifiuto delle disuguaglianze, regolazione dei flussi migratori, un “populismo del popolo” che trascende le caratterizzazioni ideologiche e aspira a ricostruire una collettività integrata in una società che non è più tale. Ed è, ancora e soprattutto, periferia che si oppone alla metropoli, come dimostra inequivocabilmente la geografia del voto.
La neoborghesia e le sue espressioni politiche reagiscono mobilitando l’intero apparato dei poteri tradizionali (partiti, istituzioni, media, accademia, ecc.) all’insegna di un frontismo antifascista di maniera (salvo schierarsi con i regimi fascisti in Ucraina, in Brasile e ovunque si renda necessario per difendere gli interessi occidentali), di un antirazzismo e di una neolingua politicamente corretta che mirano a screditare la rabbia e il risentimento popolari, cercando di ridurre al minimo il ricorso alla democrazia diretta, soprattutto laddove si tratti chiamare il popolo a decidere su temi che “non capisce”, e ripetendo come un mantra la formula “le cose sono più complesse di così”. Tutto ciò però serve solo a guadagnare tempo perché, scrive Guilluy, la contro società che emerge dalla Francia periferica (ma il discorso vale anche per l’Italia, l’America, l’Inghilterra e tutti gli altri Paesi occidentali) prima o poi non potrà evitare di generare un contropotere politico.
Qui giunto potrei concludere con la battuta “come volevasi dimostrare”, limitandomi a sottolineare la convergenza fra il discorso di Guilluy e quanto sostenuto nei miei ultimi libri. Preferisco invece evidenziare alcuni spunti di riflessione suggeritimi dai lavori del geografo francese.
Primo punto. Il discorso di Guilluy segna una clamorosa rivincita della geografia politica ed economica nei confronti del paradigma “mondialista” affermatosi dopo il crollo del Muro. Per anni ci siamo sentiti dire dagli intellettuali neoliberisti, socialdemocratici e dagli antagonisti alla Negri, che la vecchia geografia era morta e sepolta: addio stati – nazione e confini, sostituiti da un mondo unificato, definito dai flussi immateriali di informazioni e segni di valore. Guilluy sostituisce a questo immaginario la realtà di un mondo marcato da confini ancora più rigidi di quelli novecenteschi, che separano due società in insanabile conflitto reciproco.
Secondo punto. Guilluy insiste sull’eterogeneità di un popolo caratterizzato più dalla consapevolezza degli effetti negativi della mondializzazione che da una qualche forma di coscienza di classe. Personalmente ritengo che tale punto di vista non sia incompatibile tanto con la categoria gramsciana di blocco sociale, quanto con i discorsi di Laclau e Mouffe sul popolo come costruzione politica, che potrebbero essere descritti come un passo successivo all’emergenza spontanea del popolo-periferia descritto da Guilluy.
Terzo punto. Non credo che le tesi del geografo francese vadano considerate come un’alternativa alle teorie (vedi le analisi di Piketty, che Guilluy cita fra l’altro a varie riprese) che descrivono il conflitto popolo/élite in termini di differenziali di reddito: i due punti di vista si integrano a vicenda, nel senso che Guilluy offre una rappresentazione geografica, una “mappa”, degli antagonismi che Piketty descrive con categorie economiche e, al tempo stesso, aggiunge nuovi elementi di comprensione delle cause del continuo aumento delle disuguaglianze.
Ciò detto non mi resta che riproporre un’osservazione che, da appassionato lettore di fantascienza, mi era già capitato di fare in varie occasioni: il mondo in cui viviamo somiglia assai più a quello immaginato dai narratori cyberpunk degli anni Ottanta che al futuro descritto da economisti, sociologi e politologi dello stesso periodo: non il paradiso di una società e di un mercato mondiali unificati e pacificati, ma l’inferno di una rete di città-stato riservate alle élite e ai loro servi e funzionari, circondate da un’immane periferia impoverita e incattivita.
(12 febbraio 2019)
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