La laicità crocifissa da Marta Cartabia: presidente della Consulta, donna, e ciellina
Massimo Albertin
Ho deciso di parlarne riagganciandomi alla vicenda giudiziaria che la mia famiglia intraprese nel 2002 relativamente all’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche frequentate dai nostri figli.
Il 14 gennaio 2004 il TAR del Veneto, sul ricorso da noi intentato, decideva con un’ordinanza di sospendere il giudizio rinviando gli atti alla Corte Costituzionale. Quanto avvenne successivamente è noto: la Consulta decise di non decidere rimandando il caso al TAR e la vicenda poi proseguì nei vari gradi di giudizio fino a giungere alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, dopo averci dato ragione in prima istanza nel 2009, ribaltò poi la sentenza alla Grande Camera nel 2011 sentenziando che il crocefisso, essendo un “simbolo passivo”, non influenzerebbe l’educazione degli studenti e poteva perciò restare al suo posto.
Quello a cui faccio riferimento adesso è un articolo del 2004 successivo all’ordinanza del TAR, pubblicato in un libro che raccoglie una serie di interventi del seminario ferrarese tenutosi il 28 maggio 2004 in vista della decisione della Consulta che sarebbe poi avvenuta a dicembre dello stesso anno (R. Bin, G. Brunelli, A. Puggiotto, P. Veronesi, La laicità crocifissa, Giappichelli, Torino, 2004). Si tratta di una raccolta di interventi di esperti fra cui oggi desidero riprendere quanto scrisse l’allora docente di Istituzioni di Diritto Pubblico dell’Università di Verona e oggi eletta presidente della Corte Costituzionale.
L’intervento di Cartabia è interessante in quanto, introducendo la propria posizione riguardo all’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche, esordisce smontando i due argomenti usati con maggiore frequenza e insistenza da parte dei clericali nell’ambito delle discussioni sui simboli religiosi esposti nei luoghi pubblici e cioè: 1) quello relativo al rispetto della volontà della maggioranza; 2) quello che fa leva sulla valenza più culturale che religiosa del simbolo.
Cartabia correttamente sostiene che il primo argomento “non convince del tutto, perché si presta a giustificare un dispotismo della maggioranza a scapito delle minoranze”, ricordando che “il campo dei diritti fondamentali è dominio delle garanzie e non della politica”. E successivamente sostiene che “neppure del tutto convincente è il secondo argomento che fa leva sulla valenza culturale del crocefisso, perché per giustificarne l’esposizione finisce per svilirne il significato”.
Le premesse appaiono quindi promettenti; peccato però che lo sviluppo del suo intervento e le conclusioni a cui giunge non siano altrettanto condivisibili. Il futuro presidente della Consulta infatti, a sostegno della sua tesi introduce una visione antitetica fra il “confessionalismo religioso” da una parte e dall’altra un supposto “confessionalismo laico” a suo vedere rappresentato dalla laicità alla francese presentando un dualismo che metterebbe in contrapposizione posizioni che di fatto lei bolla come egualmente estremiste. A questo punto comincia a delinearsi quale sia la proposta migliore per Cartabia che, posso già anticipare, è quella cosiddetta “bavarese”; una soluzione cioè che, per dirla sinteticamente, sostiene che va fatto quello che vuole la maggioranza.
Ma andiamo per ordine. Per dare consistenza alla soluzione da lei preferita, Cartabia critica il citato dualismo che pone in alternativa l’obbligo e il divieto di esporre il crocefisso, alternativa che, a suo dire “falsa la prospettiva e impedisce una posizione autenticamente laica dello Stato, costringendo ad un vicolo cieco in cui si danno due sole alternative entrambe inaccettabili alla luce dei principi costituzionali”. Che sia costituzionalmente inaccettabile il confessionalismo religioso è certamente condivisibile. Ma che gli si contrapponga un “confessionalismo laico”, atteggiamento attribuito surrettiziamente a chi non desidera essere sottoposto a una scelta di privilegio religioso, dimostra già come le premesse che sembravano promettenti non trovano poi riscontro nello sviluppo della posizione di Cartabia. A riprova di quanto sostenuto lei fa presente che in molte scuole non sono presenti i crocefissi, ma che però (ricordo che faccio riferimento a un documento pubblicato nel 2004) “nessun fondamentalista cattolico ha mai pensato di proporre ricorso contro la disapplicazione delle norme sul crocefisso” e perciò conclude che “il clima aspro e conflittuale attorno al problema del crocefisso nelle scuole non si può certo dire che sia stato alimentato dai cattolici”. Chi sarebbero quindi gli aggressivi alimentatori del clima aspro e conflittuale se non gli appartenenti al confessionalismo laico? Chissà se Cartabia se la sentirebbe di ribadire tali concetti anche oggi, alla luce dei numerosi tentativi di imporre simboli religiosi in tutte le scuole ed edifici pubblici da parte dei principali partiti di una destra sempre più clericalmente schierata.
L’intervento del 2004 prosegue sviluppando quelle che a mio parere sono delle contraddizioni interne che l’autrice non riesce a nascondere. Infatti, nell’esporre la sua proposta di soluzione alla questione sollevata, dice che “per alcune persone – apparentemente non molte, se consideriamo il numero dei ricorsi – l’esposizione del crocifisso è fonte di turbamento e di ingiusta coartazione di una delle fondamentali libertà”. Ma poche righe prima aveva scritto: “La violazione di un diritto fondamentale, foss’anche di una sola o di poche persone, ha lo stesso peso della violazione dei diritti di molti: è negazione del diritto stesso”. Quale sarebbe allora il senso e il motivo di sottolineare lo scarso numero di ricorsi, se non per evidenziarne una specie di futile inconsistenza?
La seconda contraddizione emerge quando, a sostegno della soluzione “bavarese” che prevede di trovare per ogni singolo caso una regola che rispetti la libertà di religione del dissenziente tenendo però in considerazione per quanto possibile la volontà della maggioranza (e ridagli con questa maggioranza), lei afferma che “tale soluzione rispetta la storia e le tradizioni di un popolo”. Ed ecco così che anche la seconda, condivisibile premessa (“neppure del tutto convincente è il secondo argomento che fa leva sulla valenza culturale del crocefisso, perché per giustificarne l’esposizione finisce per svilirne il significato”) viene qui accantonata e di fatto annullata.
A sostegno della sua posizione Cartabia ricorda anche ciò che succede nell’ora di insegnamento della religione cattolica, in cui formalmente a ciascuno è garantito il diritto di scegliere se avvalersi o meno di detto insegnamento, senza rendersi conto che, nel caso dei simboli religiosi, questa possibilità di scelta continua e continuerebbe a essere negata a chi decidesse di “non avvalersi” della presenza del crocefisso, anche se si adottasse la da lei tanto apprezzata soluzione bavarese. L’auspicio del futuro presidente della Corte Costituzionale sarebbe stato che nel 2004 l’allora attesa decisione della Consulta avrebbe dovuto prevedere che: “fermo restando l’obbligo di esposizione del crocefisso” – ma non aveva scritto poco prima che l’obbligo era inaccettabile alla luce dei principi costituzionali? – “caso per caso, su richiesta delle comunità scolastiche t
ale obbligo possa essere derogato per esigenze specifiche”. Esigenze specifiche che poi gli organi scolastici dovrebbero valutare volta per volta con decisioni che, ahinoi, sono facilmente prevedibili. Non mancava comunque nell’articolo una sollecitazione a “un intervento del legislatore che ponga i principi che abbiamo ricordato e affidi ai singoli istituti scolastici un ampio margine di discrezionalità”.
La conclusione dell’intervento era quindi che “il divieto di esporre i simboli religiosi non interpreterebbe affatto quella laicità positiva e pluralistica di cui si fregia la Costituzione italiana”. Sappiamo bene che quando qualcuno sente il bisogno di aggiungere un aggettivo alla parola laicità questo è sempre finalizzato a limitarla. La laicità infatti, come la libertà, fa paura a chi vuole limitarne l’azione; e che essa venga definita positiva, sana, pluralistica, o altro significa sempre introdurre indirettamente dei concetti denigratori finalizzati a confinarla in un recinto i cui limiti vengono decisi proprio da chi laico e libero non è.
A conferma di questa interpretazione riporto il passo di un’intervista rilasciata al quotidiano cattolico Avvenire nel 2010 in cui Cartabia parlava di una “possibilità di uso ideologico dei diritti individuali che poi diventa difficile contrastare” ribadendo che “per impulso delle istituzioni internazionali, si è registrata una enfasi esagerata sui diritti individuali […]. Il fenomeno ha avuto origine negli Stati Uniti, ma ora è l’Europa ad essere presa dall’ebbrezza di diritti individuali”. I diritti individuali sarebbero quindi da considerare come una droga che inebria e fa perdere il controllo!
In questa intervista si ribadiva quanto già sostenuto nel 2008 in un intervento ne Il Sussidiario dove scriveva: “Fuori da una concezione creaturale in cui l’uomo è diretto rapporto con l’infinito, non si dà dignità umana e i diritti, anziché costituire la massima valorizzazione della persona, aprono la strada al suo annientamento.”
E nel 2011 ai margini del dibattito europeo sulla legittimità del crocifisso nelle scuole, affermava ancora: “Nella cultura contemporanea due sono gli elementi che neutralizzano la religione, spingendola ai margini della vita sociale. Il primo è una concezione della persona totalmente autonoma, autosufficiente, autodeterminata. La parola libertà – anche libertà di religione – è ridotta all’idea di autodeterminazione. Per un individuo così concepito la dimensione religiosa appare estranea e persino minacciosa, perché mette in campo una dipendenza e un rapporto con il mistero che pare contraddire l’autonomia individuale. Il secondo è il risvolto istituzionale di questa concezione antropologica ed è costituito dall’idea di istituzioni neutre, distaccate e indifferenti rispetto al fattore religioso. Molte forme di secolarismo si basano su questa concezione. In vero la loro presunta neutralità facilmente scivola in una forma di sottile e sofisticata ostilità al fattore religioso, tipica dell’occidente contemporaneo”.
Insomma, anche volendo tralasciare l’inopportuna introduzione dei religiosi concetti di “mistero” e di “concezione creaturale” dell’uomo mentre si discute di diritti individuali, appare chiaro quale sia l’idea che questa persona ha della libertà e della laicità. Si tratta di una visione paternalistica (o forse dovrei dire maternalistica…) e limitante i diritti delle persone, in cui una maggioranza religiosa ha il diritto di imporre i suoi principi, i suoi simboli e le sue abitudini a minoranze che comunque farebbero bene a non reagire se vogliono evitare di ritrovarsi appiccicata l’etichetta di “confessionalismo laico”; quello che nella società civile crea un “clima aspro e conflittuale”.
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