La libertà non sia un obbligo

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di Mariella Gramaglia

Mi esporrò subito alla critica di cerchiobottismo e subalternità alla retorica della complessità dicendo, che nel caso della signora in niqab di Ca’ Rezzonico, si sono comportati bene sia il custode che il dirigente. Il primo, nel non accoglierla a visitare il museo, ha fatto rispettare le regole così come sono, secondo il suo ruolo e i suoi compiti. Il secondo ha saggiamente esercitato la flessibilità, interpretando il regolamento. Un regolamento, sicuramente varato prima della grande immigrazione islamica nei nostri paesi, che impone di non entrare nelle sale “a volto coperto”, non certo per far scudo all’emancipazione femminile, ma piuttosto alle opere esposte e al loro valore, in modo da tutelarle da ladri e vandali.
Già, ma proprio la sicurezza – si obietterà – non è cosa su cui scherzare. Chiunque viaggi sulle rotte dell’Asia sa che è la legittima ossessione del personale di ogni grande aeroporto internazionale. Eppure è perfettamente conciliabile con chador, niqab e persino burqa, come mi è accaduto di vedere almeno una volta. Personale femminile controlla la corrispondenza fra viso e documento in una cabina protetta dagli sguardi maschili e le tecnologie della rilevazione dei metalli e degli altri materiali rischiosi fanno il resto. Le transumanze globali delle donne dell’islam, turiste o migranti che siano, sono una realtà che si calcola in milioni; difficile che Ca’ Rezzonico non ne venisse o prima o poi sfiorata.
Ma la misteriosa signora di Ca’ Rezzonico passa e va, non ci pone davvero un problema di valori, di conciliazione, di relazione fra culture. O meglio, la signora è un enunciato. Enuncia che per lei (non sappiamo se per spontanea convinzione o imposizione) coprirsi è un regola e una fede. A cui non può rinunciare. Diversamente da noi che possiamo tranquillamente calibrare bikini e gonne lunghe a seconda delle circostanze, oppure dalla stessa donna africana citata da Sciuto, che non avrebbe nessun problema a coprirsi il seno per andare a cantare nel coro della missione così come, se il caso volesse, per visitare un museo veneziano.
Diverso è quando l’ospite smette di essere tale, resta, aspira a diventare cittadina, oppure noi ospitanti tentiamo di adoperarci per “integrarla”. E’ qui che comincia la tenzone ideologica contemporanea, fra “multiculturalismo” e omogeneità “monocromatica” dei valori di una società.
Io credo che lungo questa frontiera ci sia una fortezza potente che non consentirei a nessuna indulgenza “multiculturalista” di abbattere: l’inviolabilità del corpo femminile. Escissione, infibulazione, matrimoni forzati, matrimoni di bambine, applicazione alle donne ribelli di sentenze private di clan maschili, vanno puniti secondo il nostro ordinamento e non possono avere alcun diritto di cittadinanza nei nostri paesi. In ognuno di questi casi sul corpo di una donna avviene, violentemente, qualcosa di irreversibile e di irreparabile.
Quanto al resto, a ciò che è reversibile e che può essere da alcune anche considerato una libera scelta, tenderei a un comportamento assolutamente empirico. Assumerei la libertà femminile – per giunta inevitabilmente la libertà femminile così come noi la conosciamo e la pratichiamo – non come un obbligo, ma come un principio regolativo. Un principio regolativo che, nelle mie speranze, possa rappresentare anche una fascinazione e un orizzonte di senso per le ragazze musulmane.
Cosa ci preme? Che le ragazze dell’islam studino, vadano a scuola, non restino a casa fare le serve ai fratelli? Oppure che la laicità delle scuole europee non sia macchiata dai segni delle devozioni e dei comunitarismi? Io, quando venne approvata la legge francese sulla proibizione del velo a scuola (insieme agli altri simboli religiosi), reagii alla maniera di Don Milani, quando parlava dei suoi ragazzi di Barbiana e della loro esclusione: “la scuola è sempre meglio della merda”. Meglio aprirla quella porta, come che sia: imparare, sapere, e poi magari lasciare cadere il chador da sole, piuttosto che rimanere fuori al buio.
Per queste ragioni, dovendo scegliere d’istinto, ho sempre preferito il modello liberal anglosassone che, sia in Inghilterra che in America, cerca la sintesi nazionale senza negare le radici comunitarie, all’idea francese della republique d’abord. E tuttavia, ormai a qualche anno dall’approvazione di quella legge, qualche ricerca sul campo non guasterebbe. Quali sono i modelli educativi di maggior successo per garantire dignità e autonomia dalla famiglia alle ragazze musulmane? Mi adeguerei senza esitazioni al modello che risponde di più al mio principio regolativo, anche se fosse quello che ideologicamente mi convince di meno. Sì, perché – non me ne voglia Cinzia Sciuto – il problema è terribilmente complesso.

(20 ottobre 2008)



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