La linea blu. Cucchi e l’immagine della morte
Mariasole Garacci
E’ impresso nella memoria collettiva il momento in cui Ilaria Cucchi decise, con il coraggio dell’indignazione, di mostrare davanti al Tribunale di Roma la gigantografia del fratello ucciso, quasi un Ecce Homo. Un atto che ha avuto il potere di mutare la percezione di quella morte.
Sono le celebri riflessioni di un personaggio del romanzo L’idiota, pubblicato da Fëdor Michàjlovič Dostoevskij nel 1868, dinanzi a una copia del Cristo morto di Hans Holbein il Giovane (1521), il cui originale lo scrittore russo aveva visto a Basilea, in viaggio con la moglie Anna, quattro anni prima. Molto tempo dopo, Anna racconterà questo momento nelle sue memorie, soffermandosi in particolare sulla reazione di Dostoevskij: “La vista di quel viso tumefatto, pieno di ferite sanguinanti, era terribile. Il quadro fece grande impressione su Fëdor Michàjlovič, che rimase davanti ad esso come fulminato, mentre io, dato anche il mio stato di salute, non ebbi la forza di guardare più a lungo e passai in un’altra sala. Quando, dopo circa venti minuti, ritornai, trovai ancora mio marito davanti al quadro, come inchiodato al pavimento. Nel suo viso pieno di spavento lessi la stessa espressione che avevo già notato più di una volta all’avvicinarsi delle crisi di epilessia”.
Nel romanzo lo stesso personaggio, poco prima, paragona questa morte di Cristo a una "macchina gigantesca nuovissima, che senza pensarci ha afferrato, dilaniato e inghiottito, senza provare alcuna compassione, un essere sublime e inestimabile". Sublime e inestimabile, come la vita di ognuno. Lo stesso andamento orizzontale che caratterizza quella raffigurazione, come l’offerta di un sacrificio (ma sacrificio gratuito, assurdo, rigurgito davvero di una macchina senza compassione per l’uomo), appare, insieme con altre possibili suggestioni iconografiche, in ripetute scene del film del 2018 Sulla mia pelle di Alessio Cremonini. Soprattutto nella scena finale con l’ostensione, dinanzi a chi lo aveva amato e dinanzi a noi che guardiamo, del corpo morto di Stefano Cucchi.
Non si tratta, ovviamente, di ravvisare una volta di più la permanenza di topoi storico-artistici nel passaggio da un medium all’altro (uno di questi, da manuale, è lo scorcio del Cristo morto di Mantegna citato da Pasolini in Mamma Roma): è opportuno interrogarsi sugli altri livelli di lettura che questo passaggio può sommuovere. E, per farlo, è utile coinvolgere nella formula anche altri fattori. In questo caso, è proprio l’episodio raccontato da Anna Dostoevskaja a fornirci un’indicazione: grazie a lei, possiamo osservare suo marito guardare la morte, incontrarsi direttamente con essa. Scopo, quest’ultimo, del quadro di Holbein nella tradizione spirituale e figurativa in cui quel terribile capolavoro è da inserire: basti, per delinearla, citarne due capi estremi quali la Deposizione nel Polittico di Isenheim dipinto da Mathias Grünewald nel 1516 (certamente noto a Holbein) e il film di Mel Gibson The Passion uscito nel 2004, passando per Tommaso da Kempis e Ignazio da Loyola.
Ma con un ulteriore passaggio. Guardare la morte. Veder guardare la morte. Essere visti guardare la morte. E’ del 1988 l’opera dell’artista americano John Baldessari intitolata Blue Line, oggi in collezione permanente alla Fondazione Prada a Milano. Si tratta di una riproduzione fotografica in bianco e nero, listata lateralmente da una linea blu, dello stesso quadro di Hans Holbein il Giovane. La riproduzione di Baldessari è posta diagonalmente nella sua piccola sala, quasi a sbarrare la strada; ci si imbatte in essa eppure, rispetto all’originale, questa è di dimensioni molto maggiori e sgranata: mentre nell’esemplare cinquecentesco possiamo esaminare i minuti dettagli anatomici del corpo morto (il volto ischeletrito, le palpebre semiaperte che lasciano intravedere gli occhi rovesciati all’indietro, il dorso della mano destra tumefatto dalla cui ferita ha inizio la necrosi, le dita contratte, le anche ossute, le gambe magre e tese, i piedi divaricati), ora non riusciamo quasi a comprendere questo oggetto, a farlo nostro sia pure in una visione d’insieme. Non riusciamo, insomma, a comprendere la morte.
Passando nella sala successiva, scopriamo che il nostro incontro era spiato da una telecamera a circuito chiuso che trasmette su uno schermo l’immagine di noi qualche secondo prima: credevamo di essere soli, ma eravamo (o potevamo essere) visti. Come Fëdor fu visto da Anna. E forse ora proviamo un certo imbarazzo, siamo in dubbio sull’appropriatezza della nostra reazione: certo, nelle situazioni di lutto (funerali, condoglianze ai parenti, notizie inattese) sappiamo di essere visti e in parte ci adoperiamo a controllare la nostra reazione, a scegliere la faccia da mostrare. “Come mi rallegro di questa morte, come mi dispiace, come la celebro”, ripete Marìas in Domani nella battaglia pensa a me. Soprattutto, ora ci volgiamo retrospettivamente alla nostra incomprensione di quanto esperito pocanzi. Qualcosa in noi è stato interrogato, si è increspato, ha reagito. Come l’arte, così la morte genera domande che non è in grado di soddisfare attualmente.
E’ impresso nella memoria collettiva il momento in cui Ilaria Cucchi, fino a quel momento restia, decise con il coraggio dell’indignazione e della disperazione di mostrare davanti al Tribunale di Roma la gigantografia del fratello ucciso, quasi un Ecce Homo. Un atto che ha convocato ognuno di noi (individualmente, collettivamente, spalle al muro) nella posizione di chi guarda la morte, in una dimensione pubblica in cui siamo stati costretti, ancora, a interrogarci sui nostri sentimenti dinanzi a quell’immagine. Un atto che, ultima evoluzione di una genealogia che va dal situazionismo all’arte involontaria enucleando vieppiù l’identità tra estetica e politica intese lato sensu, non esito a chiamare performance, capace di modificare il sensibile comune e mutare la percezione di un vergognoso omicidio in un sacrificio non già redentivo, ma che esige giustizia. In nome di tutti. E, questa volta, l’angoscioso estraniamento provocato in noi dall’arte e dalla morte ha una risposta.
MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.