La lunga storia del Parco Archeologico di Centocelle
Mariasole Garacci
Non popolo antico, ma nazione vivente.
A maggio di quest’anno, ho partecipato a una visita guidata al Parco di Centocelle organizzata dall’ “Ecomuseo Casilino Ad Duas Lauros”, un’organizzazione di volontariato che si occupa della tutela e della valorizzazione di quell’area e del territorio limitrofo attraverso, anzitutto, una narrazione multidisciplinare, complessa e partecipata delle risorse storiche e antropologiche espresse dal contesto. Un comprensorio ricco di rimanenze archeologiche che spaziano dalle preesistenze risalenti al VI sec. a.C. al tunnel fatto scavare da Mussolini nel progetto, poi abbandonato, di una metropolitana che raggiungesse la periferia est di Roma (che, a sua volta, si incrocia con una serie di cunicoli di epoca romana), e che include la villa tardoantica detta, appunto, “Ad Duas Lauros”. L’opportunità rappresentata da realtà come questa, nell’ottica della creazione di ecomusei urbani che facciano sistema, inizia ad essere riconosciuta anche in diverse sedi di dibattito sulle politiche culturali rivolte al nostro patrimonio, e rappresenta una soluzione –l’unica, credo- al fenomeno, ampiamente discusso e criticato ormai da molti osservatori, dell’insostenibile concentrazione dei flussi turistici nazionali e internazionali sulle aree monumentali centrali.
Aree per cui il rischio non è tanto o solo il collasso (nei giorni festivi e nei giorni di gratuità continuano a verificarsi situazioni realmente insostenibili e gravi disservizi, prontamente raccolti dalla stampa estera o rimbalzati sui social dalle migliaia di turisti tornati a casa dalle loro vacanze nel Bel Paese), ma il progressivo e già avanzato logorio di quello che mi si conceda di chiamare qui, per estensione, “tessuto urbano”, con questo intendendo, al di là del reticolato fisico vero e proprio della mappa cittadina, tutto quello che c’è in mezzo, che con esso si interseca e che lo anima: servizi, trasporti, commercio, professioni, nonché il racconto che di esso si fa e la preservazione delle caratteristiche e della storia della città, nell’ambito di un panorama che contempli la sua reale e multiforme identità. E non soltanto le emergenze monumentali più famose, quelle insomma che Mussolini, criticato eppure, si direbbe, seguito e imitato senza distinzione di colore politico (basti pensare alla decisione di costruire una terza linea della metropolitana ai piedi del Colosseo), volle isolare attraverso gli smembramenti delle aree del Teatro Marcello e di Via dei Fori Imperiali per enfatizzare i monumenti più “importanti” e rappresentativi. Dico seguito e imitato, ma forse non si è capaci di fare neanche questo, se, ad esempio, in molti decenni la mole augustea –liberata, appunto, in epoca fascista dalle strutture del Teatro Correa- ancora permane come un informe oggetto estraneo -mi verrebbe da dire un blocco psicologico- incardinato nel centro di una brutta piazza, senza interagire con lo spazio urbano. Una delle tante smagliature o spazi interstiziali della città. Interstiziali anche simbolicamente: come quelle lacune della memoria in cui si annidano i traumi rimossi, e attorno ai quali ronzano pensieri ossessivi e coazioni a ripetere. Davvero la nostra città sembra avere una vita psichica di questo tipo.
Ma è fisicamente, poi, che questi spazi si riempiono di pattume, vegetazione da Terzo Paesaggio, fango, pozzanghere, bottiglie di plastica, topi. Come accade nell’orrido giardinetto di Colle Oppio con affaccio sul Colosseo, ritagliato tra Via del Fagutale, Via Nicola Salvi e Via del Monte Oppio; o nello stesso Parco di Colle Oppio, dove sorgono come derelitti atlantici i resti della Domus Aurea; o nella spianata antistante l’Arco di Costantino, dove non cresce un filo d’erba, e in estate una polvere desertica avvolge i turisti, mentre in inverno ad ogni pioggia si forma un lago che neanche ai tempi di Nerone, e dove non si installano panchine nel timore che i barboni vadano a dormirci (bisogna preservare il decoro urbano!).
Lo abbiamo appreso prima delle feste natalizie: il Colosseo quest’anno ha raggiunto 7.4 milioni di presenze, con un incremento di oltre il 10% rispetto al 2016. Un’ottima notizia per tutti (specie per coloro che, come chi scrive, esercitano una professione turistica), che però, in realtà, da sola non significa nulla, e che pretenderebbe di essere letta come un appello a migliorare i servizi offerti e a ripensare gli obiettivi della promozione del patrimonio culturale. E anche a interpretare la visione del nostro patrimonio che questo dato esprime alla luce di tutta una serie di elementi, domande e considerazioni tecniche. E’ chiaro che se non si riesce a far capire che a Roma, fuori dal perimetro del centro, c’è anche dell’altro, altrettanto importante e suggestivo, si alimenta un racconto banale, superficiale, da blockbuster. So che di questo è difficile, forse, percepire l’urgenza. Ma gli effetti di questa spensieratezza (la chiamo così ironicamente) si toccano con mano e, a lungo andare, diventano anche un problema politico lato sensu, come sempre lo sono le narrazioni della realtà.
Quelle che scorgi in queste immagini non sono delle quinte dipinte. Quegli edifici non sono fatti di cartone. Sono di pietra, e dura: marmo, basalto, granito. Non vedi dunque, come sono pesanti? L’odore che senti non è di colla. Quei templi e acquedotti, quelle terme e quei colonnati dovettero un tempo essere interi. Ora sono desolati: vi si avviticchiano ricordi, o presagi. Testimoni paiono, d’una catastrofe. E quegli insetti, che in essi si smarriscono, devono essere accattoni, monelli, lavandaie. Cosa significhino quelle volte, noi non lo sappiamo.
Archeologia: un nuovo concetto in Europa, una nuova follia. Il passato vien salvato, depredato. L’Antichità è un’utopia. Da esumare e riprodurre. I turisti comprano facsimili. Il Classicismo edifica le rovine del futuro.
Il nostro artista traffica in antichità. Pubblica un catalogo: Antichi vasi, piedistalli, sarcofagi, treppiedi, lucerne e ornamenti.
Dalle cave della storia sgorga un fiume di contraffazioni[1].
La mattina in cui ho visitato il Parco di Centocelle era un’assolata domenica primaverile, e non dimenticherò mai l’impressione suscitata in me da un gruppo di ragazzi pakistani che giocava a cricket sulla grande pista di atterraggio dell’ex aeroporto militare, che ricopre parte di questo complesso archeologico scavato e poi interrato per lacune istituzionali, per inettitudine, per pressioni contrastanti di gruppi di potere illeciti. Ho pensato, vedendo quei ragazzi, a cosa potrebbe essere Roma: una città per tutti, al centro di un Paese per tutti, in cui l’identità nazionale abbia un senso diverso da quello ricercato in un passato addomesticato e in pretestuose e confuse radici religiose e culturali. Cosa siamo? Quali rami e frutti crescono dalle nostre celebrate radici? Cosa vogliamo essere?
Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico,
ma nazione vivente…[2]
La vicenda pluridecennale di quest’area rappresenta l’esempio di una città che della propria storia si ammanta con sterile orgoglio, e non è in grado di ripensarsi e spostare il suo baricentro dai soliti luoghi fisici e mentali. Eppure, non c’è politico che non faccia, in corsa per le primarie del suo partito o in campagna elettorale, la sua brava gita in periferia. Una periferia a soli otto chilometri da un centro autoreferenziale.
Vai a spiegare che, oggi, la periferia è il centro, dove vivono decine di migliaia di romani, e che si estende oltre il Grande Raccordo Anulare, nei comuni dell’Area Metropolitana di Roma, da dove provengono ogni giorno –con un trasporto pubblico oscenamente inaffidabile o in automobile, uno per vettura- lavoratori e studenti. Cittadini a tutti gli effetti, se, come spiegava Lefebvre, la città non può essere definita dal confine fisico ma dai quotidiani processi di interazione, incontro, simultaneità, partecipazione alla vita pubblica. E che, tuttavia, vengono sospinti al di sotto della soglia di questi diritti con effetto di segregazione e frammentazione.
Il Parco che non c’è. Le leggi, i passaggi della sua istituzione, gli ostacoli.
Il Parco corrisponde a quello che, fino a tutto il XIX secolo, era stato un latifondo storico dei Torlonia, da questi usato come pascolo, nonché come luogo di scavo archeologico da cui provengono alcuni pezzi della preziosa collezione della famiglia. Il pianoro era particolarmente adatto ai primi esperimenti aviatorii italiani (era l’epoca di Francesco Baracca, cui sarà dedicato l’aeroporto ivi costruito in seguito), e a questo scopo il Demanio Militare lo ottenne dai Torlonia, per poi passarlo con legge 453 del 29.1.1987 al Comune di Roma per la realizzazione del Sistema Direzionale Orientale (SDO), mentre una parte tra Via di Centocelle e il confine con il Quadraro restava ai militari. La legge 396 del 15.12.1990, comunemente nota come “Legge per Roma Capitale”, indicherà infatti, tra gli obiettivi di preminente interesse nazionale per l’assolvimento da parte della città di Roma del ruolo di capitale della Repubblica, la realizzazione del Sistema Direzionale Orientale (SDO) e delle connesse infrastrutture, anche attraverso una riqualificazione del tessuto urbano e sociale del quadrante est della città. Un programma poi abbandonato per una serie di ragioni legate, in sostanza, a una mancanza di volontà politica.
Dopo il volo del 1909 compiuto da Wilbur Wright, durante il quale fu girata una ripresa aerea che mostra le rimanenze archeologiche allora visibili, l’area fu dunque destinata ad ospitare l’aeroporto: alla fine degli ’20 le antiche strutture architettoniche sporgenti erano ormai state letteralmente rase al suolo. Per questo stesso motivo, peraltro, l’area venne, successivamente, preservata dall’edilizia postbellica, cresciuta tutto intorno tra piani edilizi e abusivismo, ma, ad ogni modo, vincolata a restare sotto una certa quota, diversamente dai vicini quartieri Tuscolano e Don Bosco, dove l’edilizia privata su interesse pubblico ha frattanto riempito di appartamenti ogni singolo metro quadro a terra, con quel poco rispetto che il Capitale, quando si muove, riserva al benessere umano.
Nel frattempo, l’importanza storica dell’area fu riconosciuta attraverso una serie di decreti ministeriali, che sottoposero a successivi vincoli di tutela i beni immobili di interesse archeologico presenti. Nel dettaglio, si tratta dei seguenti decreti: D.M. 12.6.1969 “Osteria di Centocelle”; D.M. 23.2.1984 “Forte Casilino”; D.M. 19.12.1991 “Villa rustica”; D.M. 9.7.1992 “Campo Marzio”. Quest’ultimo, in particolare, è quello che appone il vincolo archeologico sulla parte centrale dell’ex aeroporto, confermando la notifica già del 1965 con la quale il Ministero della Pubblica Istruzione, allora competente, aveva vincolato una larga fascia di terreno di demanio statale lungo la via Casilina nella quale erano emersi, oltre alla Villa “Ad Duas Lauros”, altre rimanenze archeologiche tra cui sepolcri e un tratto di basolato dell’antica Via Labicana.
A ribadire l’importanza dell’area, intervenne successivamente il decreto del Ministero Beni ambientali e culturali del 21/10/1995: l’area in cui sorge il Parco Archeologico di Centocelle risulta, da allora, sottoposta al vincolo paesaggistico del Comprensorio archeologico “Ad Duas Lauros” (tra le aree di interesse archeologico ai sensi dell’art. 1, lettera m della Legge 431/1985) in virtù delle caratteristiche di eccezionale valore paesistico e delle numerose e rilevanti emergenze archeologiche. Nel 1996 il Comune di Roma bandì un concorso per la realizzazione attuale del parco archeologico, vinto dallo studio dell’architetto inglese Mark M. Ruthven e mai realizzato. Il Parco Archeologico di Centocelle venne, però, istituito ufficialmente solo con Deliberazione consiliare n. 69 del 10/04/2003 del Comune di Roma, ratificata dalla Giunta Regionale del Lazio con Delibera n. 676 del 20/10/2006. Di conseguenza, tutta l’area del Comprensorio “Ad Duas Luros” fu inserita nel Piano Territoriale Paesistico della Regione Lazio (Tavola B Foglio 374 – con Delibera di Giunta n. 556 del 25/07/2007 e n. 1025 del 21/12/2007), come area sottoposta a vincolo paesaggistico in virtù dell’art. 8 del PTPR stesso e in applicazione dell’art. 134, comma 1, lett. a, del Codice dei beni culturali e del paesaggio, D.Lgs. 42/04.
Il Piano includeva una porzione di 33 ettari sui 126 totali, che è quella oggi effettivamente accessibile; nel 2006 il Servizio Giardini del Comune riuscì a realizzare nell’area percorsi, pannelli didattici, tubazioni dell’acqua, piantumazioni, anche allo scopo di innalzare la quota di verde pubblico pro capite in un quadrante di Roma in debito di ossigeno (attualmente, 4 mq per abitante contro i 9 mq di verde attrezzato di quartiere e i 15 mq di verde urbano per abitante prescritti dal D.I. 1444 del 1.3.1968). Lasciato solo, tuttavia, il Parco non poté difendersi dalle azioni di sabotaggio da parte di chi occupava i suoi bordi abusivamente e che negli anni ha beneficiato ripetutamente di deroghe da parte del Comune, né dalla presenza dei grandi campi nomadi del Casilino 900.
Attualmente, i cittadini riuniti nel comitato PAC Libero stanno lottando per questo spazio, ma si sono scontrati contro una serie di ostacoli apparentemente banali e con una tenace ignavia da parte dei diversi livelli dell’amministrazione locale con i quali in questi anni si sono relazionati: il Comune e, in primo luogo, il Municipio. I nodi sono, elencati sinteticamente, tre: le attività – prevalentemente esercizi di autodemolizione – che occupano l’interno dell’area del Parco: tra queste ve ne sono di autorizzate che, comunque, devono essere spostate dall’area in quanto incompatibili con la sua destinazione, ma che non hanno avuto una collocazione alternativa (durante l’amministrazione Marino ne erano state individuate diverse all’epoca disponibili, che però, nel frattempo, sono state occupate da altre esercizi), e di non autorizzate, dunque abusive. Quest’estate la sindaca Raggi ha provveduto a disporne la delocalizzazione o la chiusura, senza però indicare dove, come ed entro quando, né inviare controlli. Tali attività, oltretutto, contribuiscono all’inquinamento dell’area, che è un altro dei problemi del Parco; questo, infatti, necessita urgentemente di una bonifica: ripetutamente si sono verificati roghi di rifiuti solidi non caratterizzati, incendi provocati dagli autodemolitori con conseguente produzione di fumi tossici ad alto contenuto di diossina, ed è stata accertata la possibilità di una contaminazione diretta e indiretta per la presenza di elementi inquinanti in falda, nonché di rifiuti non classificati accatastati e interrati nel suolo; infine, resta irrisolto il rapporto del Parco con la presenza del Ministero della Dif
esa, che fino a pochi mesi fa rivendicava il diritto ad allargarsi sull’area con la pianificazione del cosiddetto “Pentagono italiano”: se, per ora, quest’ultima minaccia sembra definitivamente scongiurata (a ottobre l’attuale ministra Elisabetta Trenta ha annunciato che il Governo non intende più investire in quello che si è rivelato trattarsi di “un faraonico progetto di cementificazione dell’area romana di Centocelle che sarebbe costato, da qui ai prossimi anni, 1 miliardo e cento milioni di euro”), recentemente è stato avanzato da parte del Municipio il dubbio che il passaggio di proprietà del terreno in questione (ceduto dal Demanio Militare al Comune con la citata legge del 1987) non sia efficace perché non depositato in conservatoria. Un ridicolo garbuglio burocratico che l’amministrazione locale non riesce a risolvere.
E’ notizia di questi giorni che qualcosa, però, si sta muovendo. E’ infatti uscito un nuovo bando per la redazione del progetto esecutivo che porterà, si spera, alla valorizzazione dei reperti presenti nel Parco di Centocelle. Si tratterà di un unico lotto diviso in tre fasi progettuali che dureranno in totale 90 giorni, ognuna delle quali passerà da una Conferenza dei Servizi per approvazione e validazione. Il primo passo sarà, tramite una serie di studi di inserimento urbanistico e di fattibilità ambientale, la realizzazione di un centro informativo-espositivo, corredato da un bookshop, un caffè, e servizi a turisti e cittadini. Ma resta il problema della bonifica dai rifiuti: su questo fronte, sempre nelle ultime settimane, sono stati stanziati fondi nel bilancio di Roma Capitale per 500.000 euro. Il 21 gennaio, una delegazione di cittadini del comitato Pac Libero, Legambiente e Asud onlus sono stati ricevuti dalla segreteria tecnica del Ministro dell’ambiente Sergio Costa, il quale ha accolto le loro istanze e si è offerto di intermediare con gli enti locali preposti, precisando, però, che la competenza in materia è soltanto del Comune. Si attende ora la calendarizzazione di una seduta di Consiglio comunale interamente dedicata al parco, nel frattempo promessa dai capigruppo.
[2] Pier Paolo Pasolini, Alla mia nazione.
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