La mia vita dalla parte degli ultimi

fratel Arturo Paoli

Lo scorso 30 novembre fratel Arturo Paoli ha compiuto 100 anni. Una vita vissuta ai margini dalla Chiesa ufficiale, ma sempre dalla parte degli ultimi: rimosso dagli incarichi nell’Azione cattolica, censurato dalla Cei, ha aiutato antifascisti a nascondersi, è stato perseguitato dalla dittatura argentina, ha lavorato per la teologia della liberazione in Brasile.

, da MicroMega 1/2007

Gli anni del fascismo

Appena ordinato sacerdote a Lucca nel 1940, il vescovo della mia città monsignor Torrini mi assegnò al vecchio seminario di via del Giardino botanico. Il nostro compito era quello di accogliere tutti coloro che avevano bisogno di aiuto: eravamo all’inizio della guerra, i bombardamenti erano frequenti e la gente scappava in cerca di un luogo sicuro. Il problema più delicato era quello dei perseguitati politici, e in particolare degli ebrei. Escogitammo un metodo per eludere i pericoli di queste operazioni, cosa non facile anche perché Lucca è una piccola città e non era facile sfuggire al controllo dei fascisti. Utilizzavamo le banconote da una lira che tagliavamo a metà. Io tenevo una metà e la persona che chiedeva rifugio doveva presentare l’altra parte. Controllavo i numeri di serie e se corrispondevano voleva dire che era entrato in contatto con qualcuno del Comitato di liberazione a cui avevamo dato le altre metà e di lui ci si poteva fidare. Tra noi c’era un ebreo che abitava a Livorno, un grande uomo anche se piccolo di statura, che si chiamava Giorgio Nissim. Una persona di grande coraggio e di grande fede che per salvare i suoi correligionari viaggiava continuamente tra Genova e Lucca, dal momento che avevamo un centro anche nel vicariato diocesano di Genova dove lui portava le metà delle banconote alle persone che avevano bisogno di accoglienza.

C’era anche una rete di famiglie in cui collocavamo quelli che venivano da noi in cerca di aiuto, perché ovviamente non potevamo tenere tutti nel seminario. Un giorno accogliemmo un giovane sui vent’anni che arrivò insieme alla madre ferita. Erano riusciti a fuggire da un assalto nel quale erano caduti suo padre e sua sorella, entrambi poi finiti nei forni crematori nazisti. Attraversando il Piemonte erano riusciti ad arrivare a Lucca. Questo ragazzo, che mi raccontò la sua storia, è poi diventato uno scrittore di fama quando poté tornare nella sua patria. Il suo nome era Ludwig Greve. Siamo rimasti in contatto fino a quando è morto affogato nuotando in mare. Tuttora mantengo una corrispondenza con le sue due figlie, e nel maggio del 2006 è stato pubblicato il libro Un amico a Lucca (edizioni Carocci) che contiene il carteggio tra lui e me. Mi emoziona ancora pensare a questa amicizia.

Ludwig rimase nascosto per un certo tempo, ma presto manifestò l’esigenza di muoversi, di partecipare attivamente alla vita di quegli anni. Del resto noi volevamo che i nostri ospiti conducessero una vita normale, non volevamo che la loro sembrasse una prigionia o una situazione di provvisorietà. Volevamo che un giovane come lui avesse la possibilità di dialogare e di esprimersi, che si sentisse bene, soprattutto perché aveva già subito la tragedia della perdita del padre e della sorella. D’altra parte lui aveva una brillantissima intelligenza e un grande desiderio di scrivere e di comunicare. Per permettergli di vivere attivamente, e contemporaneamente per proteggerlo, l’arcivescovo Antonio Torrini gli fece indossare l’abito talare e lo nominò suo segretario. Praticamente andò a vivere con l’arcivescovo nel palazzo vescovile, dove erano accolti anche dei professori universitari che sfuggivano alle persecuzioni fasciste.

Del resto l’arcivescovo era stato molto combattivo anche prima della guerra. Teologicamente era forse rigido, ma politicamente era radicalmente antifascista e quindi disposto ad accogliere, nei limiti del rispetto per la religione, tutti quelli che cercavano di costruire un mondo diverso.

Per l’attività svolta in quegli anni lo Stato di Israele mi ha insignito del riconoscimento di Giusto fra le nazioni. La cerimonia, che si è svolta nel 1999 a Brasilia, è stata molto imbarazzante, in quanto nessun rappresentante italiano era presente, né l’ambasciatore, né un suo funzionario delegato, malgrado fossero stati invitati. L’amarezza di quella situazione è stata ampiamente compensata dalla cerimonia con cui il presidente Ciampi mi ha conferito la medaglia d’oro al valor civile il 25 aprile del 2006 per l’attività svolta a favore dell’antifascismo insieme ad un gruppo di sette sacerdoti della Lucchesia. Anche se io ero l’unico vivente presente, ho sentito che quel riconoscimento era un segno che mi riuniva ai miei amici di allora ed era condiviso con loro.

La Chiesa durante il fascismo

La riflessione sul pontificato di Pio XII e la sua posizione verso il nazismo è maturata nella Chiesa dopo la fine della guerra. Fino a quel momento sapevamo che il nostro dovere di cristiani era di proteggere coloro che erano perseguitati ingiustamente, quelli che avevano bisogno di scoprire che esiste la solidarietà nel mondo. Quindi non ci preoccupava molto la linea diplomatica della Chiesa, le scelte politiche del papa e del Vaticano. Eravamo talmente presi dall’azione immediata che tutto il resto ci appariva molto lontano. Credo che questa esperienza sia stata comune a molti. L’azione caritativa assorbe talmente che non hai tempo di pensare troppo a certe questioni. Ma soprattutto la Chiesa vicina a noi, in particolare il nostro vescovo non solo era favorevole alle nostre iniziative, ma le incoraggiava e le promuoveva. Lui stesso ci aveva convocati e ci aveva detto di non fare discriminazioni né politiche né religiose verso chi ci chiedeva accoglienza perché perseguitato.

A distanza di anni è venuta alla luce quale fu l’attività diplomatica della Chiesa durante la guerra. Il problema resta aperto: io penso che i papi siano persone profondamente e sinceramente religiose, ma la loro azione diplomatica e politica non sempre è all’unisono con questa loro formazione, perché la Chiesa è uno Stato fra gli Stati e dunque è un centro di potere… il potere è antievangelico per definizione, tutto il Vangelo è una critica al potere. Non all’autorità e all’obbedienza, ma al potere esercitato come forma di distacco, superiorità, discriminazione. Penso che bisogna sempre distinguere tra la Chiesa, le persone e il potere che queste ultime esercitano.

Verso il Sudamerica

Nel 1954, dopo esser stato rimosso dall’incarico di viceassistente nazionale della Gioventù di Azione cattolica che avevo ricoperto ai tempi della presidenza di Carlo Carretto per aver criticato l’operazione dei comitati civici di Gedda, sono stato inviato a svolgere la funzione di cappellano su una delle navi dirette in America Latina.

Eva Perón era morta da poco. Poco prima, aveva richiamato in Argentina le mogli degli immigrati italiani per riunire così i nuclei familiari. Soprattutto nel Sud Italia vi erano molte famiglie che la forte emigrazione di quegli anni aveva diviso. Queste persone venivano imbarcate gratuitamente e trasportate in Argentina per riunirsi con i loro uomini. Molte famiglie erano di origine contadina, avevano bisogno di assistenza, alcuni avevano problemi fisici o psichici, il bisogno di essere confortate e di qualcuno che infondesse in loro una speranza. Alcune donne, che arrivarono con uno o più figli, fecero poi la triste scoperta di trovare il
marito in Argentina con un’altra famiglia. Molte di queste persone, tuttavia, hanno poi potuto raggiungere una condizione economicamente molto buona.

Durante uno di questi viaggi in nave incontrai un religioso della Congregazione dei Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld, con il quale si iniziò un intenso dialogo. Mi propose di incontrare il loro responsabile, padre Réné Voillaume, che, anche se non ero più giovane, mi diede il consenso ad entrare nella loro Congregazione. Vissi gli anni del mio noviziato nel deserto in Algeria, dove ritrovai Carretto, e i primi anni da Piccolo Fratello in Sardegna, con i minatori di una piccola località dell’entroterra.

La dittatura argentina e le esperienze di liberazione nella Chiesa brasiliana

Nel 1960 sono ritornato in Argentina, per viverci stabilmente come Piccolo Fratello. Il Piccolo Fratello sta con i poveri e assume la loro condizione silenziosamente, pregando e possibilmente cercando di trovare i mezzi per migliorare la loro condizione di vita. Ho vissuto così per nove anni in un luogo fra i più inospitali che si possano immaginare, Fortin Olmos. In Argentina ci sono luoghi molto belli, ma lì c’era solo la selva con tutti gli inconvenienti e le scomodità possibili.

Con il tempo abbiamo formato una cooperativa. Sapendo quale vita conducevamo, molti giovani, soprattutto universitari, arrivavano da Buenos Aires e da altre città per collaborare con noi. Abbiamo cominciato a ricevere aiuti economici, e presto siamo diventati conosciuti. Il fatto che un prete vivesse con i poveri, per i militari era un fatto di per sé rivoluzionario. Un prete che lavora manualmente è una figura sovversiva perché il prete è l’uomo del culto che deve stare in Chiesa. Del resto anche da noi in Europa i preti operai sono stati sempre mal visti.

Io avevo cominciato a tenere degli incontri a Buenos Aires il sabato e la domenica per riflettere sull’impegno politico e sociale come pratica reale della giustizia. A questi incontri intervenivano molti giovani, tanto che non sapevamo materialmente come trovare una sala che ci contenesse. Questo mi rese noto, ma finché il governo fu democratico non ebbi problemi. Poi subentrò la dittatura militare. Innanzitutto mi requisirono tutti gli scritti, infatti non ho più nulla di quel che scrissi in quel periodo. E questo accadde anche in seguito. Poi mi calunniarono e mi accusarono di avere alleanze con gruppi rivoluzionari. La persecuzione culminò nel 1975 quando furono affissi manifesti in cui si chiedeva la mia fucilazione. Sei dei nostri fratelli, tra cui Nelio Rougier e Maurizio Silva, scomparvero tra i desaparecidos. Sapendomi ricercato, la nunziatura mi procurò un biglietto aereo e mi fece partire per il Venezuela.

In Argentina c’è una tradizione molto forte di nazionalismo cattolico, che ha radici profonde e spiega anche la connivenza e il silenzio dell’episcopato argentino nei confronti di questi episodi.

La situazione è molto diversa in Brasile, dove ho vissuto circa venti anni dalla metà degli anni Ottanta al 2004. La classe militare brasiliana è tradizionalmente massonica, rispettosa della Chiesa ma non legata ad essa come in Argentina. Dopo il Concilio Vaticano II, grazie ad Helder Camara e alla costituzione della Conferenza episcopale nazionale, la Chiesa brasiliana fece la scelta dei poveri con grande coraggio e coerenza, mostrando il vero volto della Chiesa conciliare. Ci sono stati grandi vescovi che hanno abbracciato la causa dei poveri: penso a uomini come Pedro Casaldaliga, Paolo Evaristo Arns, Thomas Balduino e altri.

Questi vescovi spiegavano ai poveri che il cristiano non deve accettare passivamente le condizioni politiche di oppressione e di inferiorità, ma al contrario deve cercare di contribuire a un mondo più giusto e più umano. Io ho conosciuto vescovi che andavano ad occupare le terre insieme ai contadini portando la croce e spiegando che la terra è di Dio e si ha diritto ad occuparla se è per necessità di vita. Il diritto alla vita è prioritario e non può essere tradito senza negare la sua fonte, che per un credente è Dio.

Purtroppo però questa stagione finì in seguito all’incontro di Giovanni Paolo II con l’allora presidente americano Ronald Reagan. La conseguenza fu che questa gerarchia amica dei poveri è stata sostituita completamente da vescovi stranieri, tra i quali molti italiani e francesi, e in pochi anni (specialmente nei primi dieci anni del pontificato di Giovanni Paolo II) la Chiesa brasiliana si è totalmente trasformata.

Ritengo che Reagan abbia chiesto al papa di adoperarsi per contrastare la cosiddetta infiltrazione comunista nel clero latinoamericano. La diplomazia americana usa sempre lo stesso metodo: trova la parola chiave che impressiona e la utilizza per far accettare ogni sua scelta egemonica. Allora la parola chiave era «comunismo», oggi è «terrorismo». Con queste parole gli Stati Uniti credono di immobilizzare la capacità critica della gente. Da parte sua Wojtyl´a aveva vissuto la lotta anticomunista in Polonia (e lì davvero si trattava di comunismo) per cui è facile immaginare quale impressione poteva esercitare su di lui la denuncia che la Chiesa latinoamericana fosse comunista.

La crisi della Chiesa e del pensiero occidentale

Oggi viviamo una crisi della Chiesa e insieme della società politica, ma per una forma di pigrizia o peggio di difesa di interessi egoistici, questa crisi viene nascosta con trionfalismi apparenti, oppure esaltando la finanza come valore assoluto. Il filosofo Lévinas ha espresso con chiarezza la ragione di questa crisi: la morte della filosofia. Si tratta di una svolta della filosofia che si distacca dall’impianto dell’essere facendosi più vicina all’esistenza umana e alle varie dimensioni della cultura esistente e facendosi inevitabilmente più etica che teoretica. Dal punto di vista ecclesiale, la convocazione del Concilio fu profeticamente motivata da questa morte annunziata, ma ancora i credenti non ne hanno preso sufficientemente coscienza.

Lévinas parla della morte della metafisica che definisce «morte della filosofia», ma evidentemente la filosofia intesa come esercizio del pensiero umano non può morire. Egli si riferisce al metodo filosofico orientato alla ricerca di principî assoluti come spiegazione di una realtà multipla e visibile. Questo metodo è stato spiazzato dagli eventi straordinariamente drammatici che hanno caratterizzato la nostra epoca. Penso alla Shoah, alle guerre mondiali, alle terribili dittature che hanno attraversato il secolo appena trascorso: tutti fenomeni determinati da principî assoluti come lo «Stato», la «Razza», la «Nazione». La nostra cultura occidentale discende dal pensiero greco, essenzialmente metafisico. L’orizzonte concettuale ideologico o idealistico che ne è derivato è una costante proiezione verso il trascendente, verso un lontano «mondo delle idee».

Il pensiero di Lévinas mi ha convinto perché vi ho trovato sintonia con il Vangelo. Ritengo che la più fedele inculturazione del Vangelo è quella che stabilisce il primato dell’etica sulla teoretica. Evidentemente l’etica è anche teoretica, cioè parte da certi principî e vuole raggiungere certi ideali, ma l’etica accompagna l’uomo nel percorso che compie con la sua capacità di pensare, di sentire e di vivere, fino alla pienezza umana in tutte le sue dimensioni. Questa fondamentalmente è, secondo me, la finalità
dell’etica. Tutto ciò si confronta con una tradizione culturale molto antica su cui in Occidente si è inculturato il cristianesimo, realizzando certamente dei risultati positivi. L’arte figurativa occidentale, ad esempio, ha toccato vertici di assoluto valore rappresentando un Cristo trasfigurato nella gloria, fuori dal tempo e dallo spazio. La stessa tragedia della crocifissione è accolta in un movimento armonioso e diventa quasi una danza come nel celebre quadro del Pontormo. I trattati teologici, partendo da certi principî, hanno rivestito le narrazioni bibliche con concetti mutuati dal linguaggio filosofico, concetti astratti che sono poi diventati i dogmi. La narrazione, evento sempre vivo nel flusso del tempo, viene bloccata nell’eterna fissità delle idee. Questo metodo appare oggi il responsabile degli idoli che hanno oscurato la storia del nostro Occidente, come lo Stato, la Razza e per ultimo la Globalizzazione.

Il primato dell’etica sulla teoretica

Riprendo l’intervento di un cardinale al Concilio Vaticano II per chiarire meglio le mie considerazioni: «La Chiesa ha bisogno urgente di una povertà culturale, certamente non come ignoranza, ma piuttosto come rinunzia al geloso possesso di un sistema concettuale costruito e chiuso per porsi invece in un atteggiamento di disponibilità verso tutte le culture egualmente capaci di ricevere il messaggio evangelico e di dilatare gli orizzonti delle fede. La Chiesa dovrebbe accettare di essere povera e dovrebbe rinunziare a proporre l’Evangelo rivestito di una determinata formulazione culturale non essenziale rispetto al messaggio stesso, ma anzi talora causa di incomprensione come già ripetutamente accaduto». Queste parole sono del cardinal Lercaro, che portava la riflessione del gruppo di Bologna di cui facevano parte Dossetti, Alberigo ed altri storici che hanno poi collaborato alla stesura dei volumi della Storia del Concilio Vaticano II.

In questo passaggio ciò che ritengo fondamentale è che il Vangelo viene presentato come una verità per tutte le generazioni, a condizione che sia trasmessa con linguaggi diversi, adattati al contesto e alla cultura delle generazioni che si susseguono nel tempo. Non ci si può esimere dal prendere atto dei risultati negativi, spesso drammatici, che l’inculturazione di tipo medioevale ha portato con sé in questi secoli di storia. Credo che un moderno modello di inculturazione evangelica sia quello che ricerca la profonda verità dell’uomo. C’è una formula del Nuovo Testamento che incoraggia questo procedimento, quando dice che l’uomo fa la verità nell’amore. In altre parole è possibile trovare la verità solo quando si amano i nostri fratelli, anzi l’amore è verità perché Dio è verità e amore.

Questo è il messaggio che ci trasmette la religione, ma lo stesso messaggio può arrivare anche da altre fonti. Ho avuto una grande amicizia con una scrittrice argentina che è stata l’educatrice di Che Guevara, Maria Rosa Oliver. Maria Rosa – che proveniva da una famiglia cattolica e militava con entusiasmo nei movimenti marxisti, da cui si separò a seguito dell’invasione sovietica dell’Ungheria nel ’56 – era solita ripetere: «Io amo l’uomo». Ed è sempre stato questo amore per l’uomo concreto, soggetto di diritti, al centro del suo pensare e del suo agire.

Quale ruolo per la Chiesa nel mondo di oggi dopo Wojtyla?

Alla luce di queste considerazioni, è proprio con la «povertà culturale» nel senso indicato dal cardinal Lercaro che noi cristiani dovremmo avvicinarci alle cose del mondo e al dialogo con i nostri fratelli, senza per questo smarrire i principî di fondo che ci ispirano.
La politica è un fatto umano di cui l’uomo è assolutamente responsabile, indipendentemente dalla religione. C’è una politica che opprime l’uomo e c’è una politica che lo libera. C’è una politica che promuove la giustizia fra gli uomini ed una finalizzata a perpetuare i privilegi di pochi.

Nell’osservare il comportamento della Chiesa di oggi, ciò che mi fa soffrire è che invece di mettere al centro la giustizia e indignarsi per la condizione di indigenza in cui versa la stragrande maggioranza della popolazione mondiale – condizione dovuta ad elementi sistemici e strutturali, non a cause provvisorie ed accidentali – essa investe tutte le sue energie per l’affermazione di valori che possono anche avere una loro giustificazione (come le questioni della bioetica), ma che in fondo sono facilmente modificabili sulla base del progresso scientifico.

Le riserve o le critiche che ho espresso al pontificato di Giovanni Paolo II, nascono dal fatto che ho vissuto nell’osservatorio «privilegiato» dell’America Latina, continente nel quale è stata soffocata una Chiesa che si apriva alla promozione della giustizia e alla pratica delle indicazioni pastorali del Concilio Vaticano II, una Chiesa per la quale prioritaria era la scelta dei poveri.

Questa grande spinta di entusiasmo con cui si cercava di parlare agli uomini del nostro tempo, a partire dall’ascolto dei loro bisogni e delle loro sofferenze, è stata combattuta con fermezza dal Vaticano, soprattutto attraverso la sostituzione dei vescovi. In molti casi è stato sufficiente aspettare che i vescovi raggiungessero i limiti di età: quei vescovi che avevano preso seriamente la difesa del popolo venivano rimpiazzati con pastori più graditi. Il vescovo Helder Camara diceva: «Se uno fa l’elemosina a un povero è visto come un santo. Se uno parla delle cause per cui i poveri non hanno accesso ai loro diritti è un comunista!». Bastava questo perché la missione di un vescovo o prete fosse additata al disprezzo.

Se questo è stato l’atteggiamento vaticano in America Latina nella gestione pratica dell’organizzazione e della struttura, questa svolta ha aperto la strada a tutte le sette e a tutte le forme religiose alienanti che si stanno diffondendo oggi in quei paesi. Forme religiose che invitano l’uomo a pregare gridando la sua miseria, ma che di fatto lo lasciano in balia delle più atroci ingiustizie. L’impegno concreto per la giustizia è generalmente eliminato dalle proposte di spiritualità. Tuttavia la voce profetica ha attraversato i secoli, manifestando il costante ripudio di Dio di fronte agli atti di culto non accompagnati da gesti concreti di amore fraterno: «Non so che farmene del vostro culto perché voi non amate il vostro fratello».

Nel numero 6/2005 di MicroMega don Gallo mi attribuisce la frase che la sede di Pietro sarebbe vacante dopo Giovanni XXIII. Secondo alcuni questa frase, assieme ad alcune considerazioni sul potere dell’Opus Dei in Vaticano citate nello stesso dialogo, sarebbero state alla base della cancellazione del mio nome dall’elenco dei relatori alla marcia della pace di capodanno a Trento nel 2005 da parte della Cei. Credo che le ragioni della censura siano da ricercarsi nello scarso gradimento che riscuotono le mie opinioni nel loro complesso. D’altra parte io non riconosco la paternità di quella frase attribuitami da don Gallo. Il problema, infatti, è proprio il contrario di quel che la citazione vorrebbe suggerire. La presenza di Wojtyl´a – pur rispettando la sua autorità e la sua personalità, senza alcuna intenzione di separarmi dalla Chiesa che egli ha guidato – era così debordante da far sì che la sua persona fosse identificata come la totalità de
lla Chiesa, un po’ come Luigi XIV, il Re Sole, a cui si attribuisce la frase: «Lo Stato sono io».

Prima di lui Giovanni XXIII ebbe l’enorme merito di saper dire agli uomini della curia: «State al vostro posto. Sono i vescovi riuniti in un Concilio ad avere la grazia per vedere quali sono le scelte che oggi la Chiesa deve fare». Se si legge la Breve storia del Concilio Vaticano II di Alberigo si può notare che c’è stato un tentativo permanente della curia di guidare il dibattito sui temi proposti all’assemblea conciliare. Ma la risposta di papa Giovanni fu sempre molto ferma: «No, lasciate che i vescovi discutano, lasciateli cercare, nelle loro difficoltà: sono loro che devono decidere». Questo carisma dell’episcopato delle diverse Chiese non è stato rispettato dopo di lui. Non è stato messo in pratica il programma conciliare della collegialità: i sinodi come luoghi di ascolto delle varie Chiese nazionali e delle iniziative pastorali delle stesse sono stati convocati formalmente, ma non hanno goduto di quella libertà di espressione che potrebbe fare delle Chiese una vera comunità, una e molteplice: una proclamazione del Vangelo diversamente modulata a seconda delle caratteristiche proprie delle varie comunità e dei loro specifici tratti sociali e culturali.
Sarebbe molto bello, inoltre, se la Conferenza episcopale potesse essere teatro di un confronto fra opinioni diverse, idee diverse.

Purtroppo invece la Chiesa di Roma non considera importante la critica: qualunque struttura senza critica languisce, invecchia. La vita di un’istituzione politica, religiosa, culturale ha bisogno della critica. Cioè ha bisogno continuamente di qualcuno che aiuti il suo operare, mettendo in evidenza gli aspetti negativi e quelli positivi. La critica non è la maldicenza: la maldicenza è la critica non accolta che diventa cattiva, meschina. Ciò che appare necessario è l’apertura di uno spazio di dialogo, la legittimazione di un diritto alla critica che permetta di aiutare la Chiesa come si aiuterebbero i genitori quando sbagliano. Si aiuterebbero amorevolmente, non negando loro il diritto di decisione.

Chiesa e laicità

Per quanto concerne la particolarità della situazione italiana sono dell’avviso che esiste oggi il grande problema della laicità. La Chiesa sembra invadere un campo che non è il suo. La responsabilità non è solo della Chiesa, ma anche delle forze politiche, che accettano supinamente queste invasioni di campo. Io ricordo persone come De Gasperi, Dossetti, La Pira, che erano profondamente religiose ma sapevano allo stesso tempo dire: «Questo compete a noi, è cosa umana, è cosa che devono trattare i cittadini, credenti e non credenti». Dovrebbe essere il mondo politico a prendere le distanze e a difendere la sua autonomia. Ma questo non avviene. Perché? Perché la politica è debole, e cerca nella Chiesa quella riserva di consenso che non sa trovare da se stessa. In questo modo però la politica fa molto male a sé e alla Chiesa.

Tutto ciò naturalmente è anche una conseguenza della globalizzazione: la subordinazione della politica all’economia e la scarsa capacità di incidenza dei vari organi di sovranità nazionale di fronte ai grandi fenomeni dell’economia globale, hanno creato una situazione di debolezza alla quale la politica cerca di supplire tramite una sorta di «surplus motivazionale» di carattere religioso.

Ricordo quando parlai con De Gasperi a proposito dei comitati civici di Gedda. Io allora ero viceassistente nazionale della Gioventù di Azione cattolica e giudicavo l’operazione di Gedda assolutamente riprovevole. Feci un intervento durante un incontro della Gioventù cattolica a Madonna di Campiglio. A seguito di quella presa di posizione – benché anche De Gasperi fosse contrario alla strategia dei comitati civici come avevo appreso dal nostro colloquio – Carretto e poi anch’io fummo rimossi dalle cariche che ricoprivamo.

Oggi, a cinquant’anni di distanza, mi sembra che ci sia ancora la tentazione di riprodurre quegli stessi schemi.
La laicità è l’assoluta autonomia e libertà dell’uomo in tre materie: politica, economia, affettività, che sono le tre dimensioni umane. Dio stesso rispetta profondamente l’uomo quando prende decisioni in questi campi, lascia anche che sbagli.
Scegliendo la mistica della fede si sbocca in una libertà personale e si trova quel dono che Cristo ha fatto all’uomo come qualità essenziale del suo essere figlio di Dio: non vi chiamo più servi, ma amici. Vorrei poter gridare sui tetti quanto e quale senso contiene questo messaggio che Gesù ha lanciato all’umanità. Non si tratta soltanto della libertà considerata come valore personale e come valore sociale, ma della relazione fra gli uomini che supera tutte le disuguaglianze ed è alla base di quella pace che vince tutti i conflitti.

Religiosità evangelica e religiosità ‘miracolistica’

La spiritualità evangelica a un certo punto diventa una forma di vita che libera sempre di più dagli aspetti popolari, sentimentali, affettivi e anche un po’ paganeggianti della religione. Non ci sono ragioni di disprezzo perché in fondo il popolo è consolato da queste devozioni, ma si tratta comunque di una forma di paganesimo, che certamente non sgorga dalla spiritualità evangelica. La spiritualità evangelica significa carità verso chi soffre, lotta per la giustizia nel mondo, impegno per quei valori che hanno una loro dignità, per cui uno si sente ugualmente vicino a un ateo o a una persona di un’altra religione che vive con l’interesse di lottare per un mondo diverso, più umano, più pacifico. Padre Pio invece è l’espressione di una religiosità popolare che pare dispensare la persona devota dall’impegno politico di difendere i diritti e soprattutto la pace. La vera identità della persona viene spesso spenta da forme di pietà che rimettono nelle mani del Padre quello che è compito della persona, e solo della persona. Questa religiosità permette ai politici che ambiscono al potere unicamente per realizzare il proprio progetto di vita, di ottenere il voto incosciente di grandi masse religiose. Tutto questo oscura la vera personalità di Gesù e svuota il suo messaggio di giustizia. La teologia e la spiritualità della liberazione sono il progetto religioso che libera le persone semplici da questa alienazione. Ho visto realizzata questa promozione degli oppressi con grande gioia e con crescita nella fede all’interno delle comunità ecclesiali di base che ho conosciuto in America Latina. Sono testimone del potere del Vangelo di far alzare la testa ai poveri facendoli sentire alleati di Gesù nel costruire quel mondo diverso che egli chiama Regno di Dio.

(a cura di Emilio Carnevali e Silvia Pettiti)

(3 dicembre 2012)



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